Marina Terragni
Al direttore – Quando sento parlare di aborto nel modo in cui se ne sta parlando,mi chiedo: ma sanno davvero di che cosa si tratta? Anch’io non lo sapevo. Poi un giorno l’ho saputo. Per me – non per tutte sarà andata così – è stato l’imprinting del senso di morte. Tutte le volte che in seguit oho incontrato la morte somigliava a quella prima esperienza: il risveglio allegro della città alle sei del mattino (era ancora un tempo in cui le città erano molto allegre), il profumo del caffè e brioche nei bar, la mia amica che mangiava con appetito e senza nausee prima di accompagnarmi in macchina all’ospedale, il vuoto del digiuno pre-anestesia nel mio stomaco. Per me la morte, in seguito, è stata per sempre quello stesso vuoto nauseato, quel sentimento tenace e appiccicoso che ci si mette molto, il tempo giusto del lutto, a scrollarsi di dosso per tornare a vivere. La legge 194 era appena passata, io ero una ragazza di sinistra e avrei avuto tutte le possibilità di ideologizzare difensivamente l’evento. O per banalizzarlo, come si direbbe oggi. L’operazione a me non è riuscita. Non penso che l’aborto sia banalizzabile. Per l’inconscio non lo è mai. Per l’io cosciente forse un po’ di più, le difese esistono. Non penso che sarebbe banalizzabile neppure se bastasse uno schiocco di dita o un tocco pranoterapeutico. Ma a maggior ragione non è banalizzabile quando richiede, come nel caso della Ru486, un paio di giorni di visite e manovre, e la terribilità dell’attesa solitaria dei dolori e del sanguinamento facendo zapping davanti alla tv. Io, oggi dovessi scegliere,sceglierei ancora il Karman: un po’di sedazione e di anestetico locale, cinque minuti, un dolore acuto e poi è finita, almeno la parte brutalmente fisica della questione. A me pare anzi che la Ru486 tenga la coscienza più vigile sulla cosa. Insopportabilmente e inutilmente vigile, a mio parere: perché quando ti succede non vuoi sapere, non c’è proprio niente da sapere, vuoi solo piangere un po’ per lavare via tutto, aspettare le nuove mestruazionie voltare pagina. Una proporzionalità che non esiste ma ammettiamo pure che la Ru486 renda l’aborto “più leggero”. Non per questo le donne abortiranno di più. Si potrebbe allora orribilmente sostenere che renderlo “più pesante”, tornare al vecchio raschiamento senza anestesia e magari senza cautele sanitarie, potrebbe far diminuire il numero degli aborti. Tutte le donne morte per “appendicite”, come si diceva pudicamente una volta, stanno a dimostrare che anche quando l’aborto era pesante, faceva male e magari ti uccideva per emorragia o setticemia, le donne abortivano. Non è aumentando il male che gli aborti diminuiranno, né diminuendolo che gli aborti aumenteranno. Questa proporzionalità inversa non esiste, ed è molto crudele nei confronti delle donne, perché il pensiero sotteso è che l’aborto è un vizio o un lusso di cui, se ne aumenti il prezzo, si dovrà fare a meno, come la benzina e le sigarette, e, peggio ancora, che i figli sono una punizione e una privazione che accetti di infliggerti solo per evitare un male più grande. Be’, piantiamola. Il male e il danno devono essere ridotti, ogni volta che si può. E’ uno dei principi politici a cui mi sento più affezionata. Il male dell’aborto deve diminuire, e anche il numero degli aborti deve diminuire, e le due cose vanno insieme, non sono l’una il contrario dell’altra.La coscienza deve aumentare e non sarà l’aumento del dolore fisico e nessun’altra strategia sadica a farla crescere. E qui sono costretta a essere banale, dicendo che c’è ancora un gran lavoro di decolpevolizzazione da condurre sulla contraccezione. Contraccezione, a me non piace la contraccezione, personalmente la detesto, specialmente quella ormonale. Ma anche qui, si tratta di mettersi dal punto di vista di una riduzione del danno. Non viviamo in un mondo in cui i figli possono venire quando e quanto vogliono, e sarebbe un gran bel mondo, e questo giornale ha dato avvio a una bella e sacrosanta battaglia perché questo possa succedere sempre di più, e mi sembra una delle battaglie politiche più rilevanti di questi anni. Ma stare tra l’obbligo morale della contraccezione e il divieto morale della contraccezione è come stare tra Scilla e Cariddi. Le donne diventano il terminale di un conflitto che nell’aborto ha fatalmente il suo exitus. Si abortirà di meno solo quando cesserà il proibizionismo sui figli, quando il mondo si ricalibrerà sulla nascita, quando la differenza femminile sarà autorizzata e benvoluta e non più costretta a cancellarsi nell’emancipazione. C’è un gran lavoro da fare, come si può capire. Nel frattempo la contraccezione può dare una mano. E vietare la Ru486, se è vero, come credo, che può ridurre il danno e il male, o quanto meno costituire per molte un’alternativa preferibile all’aborto chirurgico, sarebbe solo ideologia. Io qui, come hanno fatto anche Paola Tavella e Alessandra di Pietro, ho parlato un poco di me, ho radicato nelle cose della mia vita le riflessioni che ho proposto. Oggi sono interessata a parlarne con gli uomini, anche con i molti uomini che nella loro vita hanno obbligato le donne ad abortire, aborto “leggero” o “pesante” che fosse: statisticamente un buon numero di gravidanze interrotte si deve al rifiuto o all’abbandono maschile. Ma di outing non ne ho sentito uno. Che si tratti di figli, di amore o di violenza, nella testa degli uomini la verità della vita resta tenacemente distinta dalla neutralità della teoria politica o morale. Per ridurre il numero degli aborti, bisogna invece anche che i maschi accettino di rischiare, e comincino a parlare di questa faccenda, come di molte altre faccende, in questo modo.