di Franco Lorenzoni
“Riforma sì, ma non così”, si è gridato il 5 maggio, e ha fatto bene ritrovarsi in piazze piene di insegnanti e studenti che difendevano la scuola pubblica, che è il bene più prezioso che abbiamo, se non altro perché è il luogo in cui maggiormente si lavora – pur con impegno e risultati disomogenei – a integrare i figli degli immigrati e tentare di costruire una società capace di contrastare il crescere delle discriminazioni.
Ma ritrovata una certa capacità di mobilitazione, le domande che ci dobbiamo porre noi insegnanti devono essere nette e spietate, perché troppe cose non vanno nella nostra scuola. Domande che è giusto lanciare con forza al governo, perché paghiamo tutti più di vent’anni di gestione dissennata della pubblica istruzione che, oltre a sottrarre più di otto miliardi alle scuole elementari (durante la gestione Tremonti-Gelmini), sono arrivati ad abolire la parola pubblica fin nel nome del ministero che dovrebbe governarla.
Altrettante e più scomode domande, tuttavia, credo che ciascuno di noi abbia il dovere di porle a se stesso perché, se la scuola ha così tante mancanze, una parte consistente di responsabilità l’abbiamo anche noi insegnanti, singolarmente e come categoria.
Se osserviamo la geografia della scuola troviamo una grande maggioranza di bambine e bambini che frequentano nidi, scuole dell’infanzia ed elementari e sono felici. Ma, già negli ultimi anni della scuola primaria e pienamente nella scuola media, cominciamo ad avvertire i segni di quella catastrofe che porterà un’enorme quantità di studenti a sentire la scuola come un luogo estraneo, a volte nemico, dove in troppi non si ritrovano e non trovano, nella fatica dello studio, un terreno propizio dove conoscersi e scoprire qualcosa di se stessi.
Se nella scuola non riusciamo a vivere momenti di rispecchiamento culturale in cui io, ragazza o ragazzo, mi riconosco in un racconto, un mito, una musica, una pittura o un nodo concettuale – filosofico, scientifico o matematico – che mi porti a confrontarmi con l’infinito e i misteri del cosmo, che senso ha lo sforzo che mi si chiede?
Ciascuno di noi, se deve affrontare un grande impegno, ha bisogno di vedere oltre per trovare il senso di quello sforzo. E chi è il garante, nella scuola, di questo oltre spesso lontano e poco visibile, costituito da cultura, arte e scienza e dalla loro storia, se non l’adulto, l’insegnante?
In un tempo in cui le tecnologie apparentemente facilitano tutto e il mercato ci plasma rendendoci a forza consumatori compulsivi, educare allo sforzo è compito prioritario, perché senza sforzo e approfondimento e durata non ci si può opporre alla semplificazione, che svuota e indebolisce ogni critica e avvilisce il pensiero.
Se in Italia due milioni e mezzo di ragazzi che non lavorano smettono di studiare, non sarà anche per gli insegnanti che hanno incontrato dentro la scuola? Se il tasso di dispersione scolastica è tra i più alti e le percentuali di iscrizioni all’università sono tra le più basse d’Europa non avremo anche noi docenti, dalla scuola dell’infanzia alle superiori, le nostre responsabilità?
Costruire una comunità docente
Conosco insegnanti che nei luoghi più difficili e degradati danno il massimo di sé ottenendo risultati sorprendenti, perché rispondono positivamente a ciò che più chiedono i ragazzi: incontrare adulti coerenti che credono in ciò che fanno, si mettono in gioco e, nel mettersi in gioco con energia e passione, coinvolgono e rendono i ragazzi protagonisti, costruendo quel difficile processo capace di rendere la classe un contesto realmente corale dove si genera pensiero, ci si ascolta e tutti si impara a imparare gli uni dagli altri. È facile affermare che la diversità è ricchezza, ma questa affermazione rischia di essere retorica, se non affrontiamo quel percorso a ostacoli che prova, giorno dopo giorno, ad attenuare le discriminazioni che l’economia e la cattiva politica continuamente amplificano nella società.
In fondo lo scopo della scuola pubblica è essenzialmente questo: rendere un po’ meno ingiusto il mondo, offrendo maggiori opportunità a chi ne ha di meno. Ma per costruire questo luogo protetto e privilegiato, capace di criticare la società e il nostro tempo nel suo operare concreto, c’è bisogno di lavorare alla costruzione di una comunità docente, o almeno a frammenti significativi e vitali di una possibile comunità docente, che assuma collettivamente l’enorme sfida che abbiamo di fronte, che è quella di una scuola davvero aperta a tutti, capace di non espellere né discriminare nessuno.
Quello di noi insegnanti è un lavoro difficilissimo, perché comporta un continuo intreccio tra l’amore per la conoscenza e un’attenzione e un interesse sincero verso le ragazze e i ragazzi che abbiamo di fronte. So bene che chiedere trasporto emotivo può sembrare eccessivo ed è cosa che non può essere scritta in nessun contratto, ma chiunque ragioni con coscienza sul mestiere dell’educare, sa bene che senza un rapporto vivo con la cultura, accompagnato da una forte presenza, intenzione e persuasione, non si ottiene nulla.
Sa che per affrontare e sostenere i ragazzi con maggiori difficoltà – che aumentano sempre più – è necessario costruire relazioni vitali di collaborazione e cooperazione tra i docenti. Sa anche che bisogna costruire relazioni con il territorio, perché ci sono problemi che la scuola non può affrontare da sola.
Ora, se la scuola si ritrova sempre più in affanno con il crescere dell’età degli studenti, dovremmo ragionare su quanto questo dipenda, in buona misura, dal fatto che nei nidi e nelle scuole dell’infanzia le educatrici fanno tutto insieme, nella scuola primaria si continua a collaborare, magari a fatica, ma poi nella scuola superiore di primo e secondo grado quasi sempre ciascun insegnante va per conto suo e non sono neppure previste ore di confronto e programmazione comune tra docenti.
E allora, se si vuole davvero riformare il sistema di istruzione, bisogna trovare modi e tempi e strumenti e aperture mentali capaci di trasformare le scuole in centri di ricerca permanenti, perché la didattica va ripensata ogni volta e ravvivata ed è sempre più necessario inoltrarci in territori inesplorati, perché ancora oggi il 70 per cento del tempo è impiegato in lezioni frontali e interrogazioni, cioè quanto di meno adatto al coinvolgimento dei giovani e alla costruzione delle conoscenze.
Ricchissima tradizione pedagogica
Per far questo dobbiamo ricercare e avere il tempo di progettare insieme e, dunque, dovremmo osare immaginare modifiche anche al tempo di lavoro, naturalmente accompagnate da significativi avanzamenti salariali, perché uno dei problemi della scuola riguarda i salari, che sono tra i più bassi del continente.
Ma perché avvenga questa trasformazione, dobbiamo tutti assumerci responsabilità e non delegare niente a nessuno. Anni fa un gruppo di insegnanti legate alla Libreria delle donne di Milano e al pensiero della differenza diedero vita, insieme ad altri, a un piccolo movimento autogestito a cui, scherzosamente, diedero il nome di autoriforma gentile.
Lo ricordo perché è di autoriforma che dobbiamo cominciare a parlare, se vogliamo contrastare i veleni autoritari contenuti in alcuni passaggi del disegno di legge attualmente in discussione alla camera.
In Italia c’è una ricchissima tradizione pedagogica e le più significative innovazioni didattiche, promosse da singoli o da movimenti di insegnanti, sono sempre nate dal basso, a volte sostenute da comuni bene amministrati. Qualche volta leggi lungimiranti hanno assecondato ciò che di vitale era nato a livello locale, come quando fu istituito il tempo pieno all’inizio degli anni settanta o si aprirono le scuole ai ragazzi portatori di disabilità nel 1977.
Oggi tutto è diverso, eppure la scuola, oltre al necessario e obbligatorio superamento della condizione di precarietà di troppi docenti e al ripristino di condizioni minime di abitabilità e sicurezza degli edifici – su cui il governo aveva promesso molto e finora ha mantenuto poco – ha assoluto bisogno di spazi e tempi per ripensare se stessa.
Non è dall’alto che dovrebbe calare la sacrosanta obbligatorietà della formazione in servizio di noi docenti, perché dovrebbe essere parte integrante del nostro mestiere il continuo ricercare e confrontarci e crescere insieme.
I modi della formazione in servizio di noi docenti tuttavia, se vogliamo renderli efficaci, dovrebbero giovarsi delle tante esperienze e competenze di chi da anni tiene in piedi un’istituzione piena di crepe con il suo impegno quotidiano, fondato su qualità umane e professionali acquisite in anni di lavoro sul campo.
Nei prossimi quindici anni arriveranno nella scuola moltissimi nuovi insegnanti perché abbiamo il corpo docente tra i più anziani d’Europa. Con il ricambio di quasi il 50 per cento dei docenti sarebbe un vero delitto ricominciare tutto da capo e non giovarci delle esperienze più significative, spesso vissute nell’ombra, che molte scuole hanno al loro interno. Un buon dirigente scolastico e, soprattutto, un buon gruppo di insegnanti – eletto dal collegio dei docenti per prendersi cura della capacità di inclusione della scuola e dell’innovazione didattica– dovrebbe come prima cosa fare una sorta di caccia al tesoro, scovando le esperienze più vive e vitali.
Non si tratta di mettere gli uni contro gli altri, come sciaguratamente aveva proposto il documento iniziale della Buona scuola, che pretendeva che il 66 per cento degli insegnanti migliori fossero pagati un po’ di più, rubando parte dello stipendio al 33 per cento degli esclusi, a cui sarebbero stati sottratti gli scatti di anzianità.
L’idea perversa di introdurre nomination da grande fratello nella scuola fa il paio con la metafora renziana del preside-allenatore, che sceglie e acquista i migliori insegnanti sul mercato e magari trova nelle industrie locali sponsorizzazioni per la sua scuola.
Semplificazioni e forzature renziane
Nei cortei del 5 maggio il ruolo del dirigente scolastico è diventato il nodo simbolico di uno scontro sui modi di intendere l’innovazione. Il problema è che di fronte alle semplificazioni e forzature renziane sento che è ancora troppo debole la voce di chi nel concreto ha idee e pratiche didattiche alternative e il sindacato – va detto – in questi anni è stato assai di rado luogo di elaborazione culturale riguardo alla scuola.
Sono piuttosto le associazioni professionali che devono fare sentire con più forza le loro voci. Conosco dirigenti e presidi capaci, che in territori assai difficili sanno mobilitare le migliori energie presenti nella scuola perché ascoltano, danno spazio a chi sperimenta, mettono in circolo buone pratiche e contribuiscono alla trasformazione della didattica, oggi assolutamente necessaria. Tutto ciò succede soprattutto negli Istituti comprensivi (che uniscono scuole dell’infanzia, elementari e medie), ma avviene molto lentamente perché questi processi richiedono anni. Quando riescono a orientare trasformazioni che incidono è perché non operano da soli.
Il problema è che dirigenti impegnati in questo senso sono una minoranza e loro per primi diffidano dell’enfasi che si vuol porre sul loro ruolo, stravolgendolo. Lo sciopero del 5 maggio ha aperto nuove possibilità per contrastare, anche a livello parlamentare, i danni che la sedicente Buona scuola rischia di arrecare alla democrazia e alla libertà di insegnamento nella scuola.
Ma va anche detto, per onestà, che la democrazia degli organi collegiali è in crisi da anni e la libertà di insegnamento non ha finora garantito una scuola capace di mettere il dialogo e l’ascolto di ragazze e ragazzi al primo posto.
Sarebbe bello poter rispondere alla ministra Giannini – che ha denunciato lo sciopero come politico, con l’intento di denigrarlo – che politica, alta politica, la fanno tutti coloro che si occupano fattivamente di educazione e la si fa in quelle scuole che provano a rendere vivo e attuale l’articolo 3 della nostra costituzione, che invita con forza a rimuovere gli ostacoli che, “limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana”. Sviluppo che passa anche e soprattutto per un accesso alla conoscenza garantito a tutti. Davvero a tutti.