8 Giugno 2003
EL PAIS

Le irachene si organizzano

Guillermo Altares

Il mercato del quartiere sciita di Al Kadhamiya vive del tutto libero dai timori per la situazione della sicurezza che si sono abbattuti su altre zone di Bagdad da quando la città è stata presa dagli americani, il 9 aprile. Tutti i negozi sono aperti e quasi non si cammina nella folla che scorre tra i banchi di cibo o di frutta, i ristoranti di kebab, i negozi di vestiti o di apparecchiature elettroniche e, naturalmente le botteghe che vendono ritratti di Alì o di Hussein – le due principali figure della religione sciita, un ramo dell’Islam che permette le immagini. Ma non è solo l’intensa attività, senza soldati statunitensi che pattuglino la zona, a sorprendere. Il quartiere offre una visione insolita in altre parti della capitale irachena – e non solo di popolazione cristiana -: non c’è una donna che non vada coperta, o con il chador nero che copre dalla testa ai piedi, in molti casi anche con i guanti, o, ed è solo una minoranza, con un fazzoletto in testa e una gonna lunga. Il timore che questa immagine diventi generale in tutto l’Irak ha portato diversi gruppi di donne a organizzarsi.

 

Ritorna il chador.
“Certo che questo pericolo esiste”, segnala Maisun al Danluyi, nella lussuosa casa che Adan Bachachi possiede nel quartiere di Al Mansur e che usa per le costanti riunioni della sua formazione politica, il Movimento Indipendente per la Democrazia. Molti diplomatici occidentali e molti iracheni di classe media vedono in quest’uomo di 80 anni, vissuto in esilio per 30 anni e sostenitore di uno Stato laico per l’Irak, l’unico politico capace di mettere insieme un governo di transizione. Al Danluyi, una donna di 42 anni, è una dei suoi principali consiglieri ed è stata l’organizzatrice dell’Incontro delle Donne Irachene, svoltosi a Bagdad lo scorso fine settimana. “L’obiettivo di questo incontro era discutere i problemi delle donne irachene e anche il nostro futuro”, dice. “Il pericolo non è nell’Islam, perché l’Irak è un paese a stragrande maggioranza musulmana, ma nelle pratiche radicali di questa religione. Vogliamo che questo incontro sia il principio di una vasta organizzazione per la difesa dei nostri diritti”. E non è l’unica riunione di donne, ce ne saranno altre nella capitale le prossime settimane. Il principale quotidiano distribuito a Bagdad, il giornale curdo Azzaman, annunciava di recente il ritorno di Safia al Shiel, un’attivista irachena che ha passato 20 anni in esilio, soprattutto in Libano e in Siria. “Al Shiel ha dichiarato di aver preso contatti dentro e fuori l’Irak per fare una conferenza nazionale che garantisca i pieni diritti della donna irachena, e ha aggiunto che l’Irak è un paese più avanzato dal punto di vista sociale di altri Stati della zona”, segnalava il quotidiano. Al Danluyi afferma che gli anni d’oro delle donne irachene sono stati gli anni cinquanta e sessanta, quando raggiunsero un grado di libertà molto superiore a quello di altri Stati arabi. Attualmente ci sono molte donne che lavorano nei ministeri, negli ospedali e all’università. “Mia madre è stata la prima pediatra irachena, all’inizio degli anni sessanta. Nell’epoca di Saddam abbiamo conservato alcuni di quei diritti, ma è stato nonostante il dittatore: non ha represso solo le donne, ma tutto il popolo iracheno”, dice. Kadimiya Jabar, di 53 anni, conosce molto bene la repressione del dittatore contro le associazioni di donne. Abbigliata con un fazzoletto in testa, Jabar si trova nella sede della Lega delle Donne Irachene, un edificio ripulito dai saccheggiatori, situato molto vicino al Ministero degli Esteri. Questo movimento fu fondato nel 1952 e, sia sotto Abd al Karim Qasim sia sotto Saddam Hussein, le sue appartenenti furono perseguitate, torturate e uccise. Jabar, sposata e madre di sei figli, ha vissuto 10 anni in esilio. “La religione rispetta i diritti delle donne. Quelli che dicono che la donna non deve muoversi di casa non è che siano religiosi, è che sono contro il progresso. Noi pretendiamo di avere gli stessi diritti degli uomini, e che ogni donna decida come vuole uscire vestita in strada”, dice la portavoce della Lega delle Donne Irachene.

 

 

Pessimismo.
Ma non tutti si mostrano tanto ottimisti. I cristiani, che rappresentano una minoranza del 4 per cento della popolazione irachena, anche se a Bagdad sono una parte più importante, non vedono il futuro così chiaro. Nelle zone del sud del paese, dove gli sciiti sono la stragrande maggioranza, non si vedono donne senza chador. Di fatto, si vedono poche donne per strada o nei mercati. Questo si spiega in parte per la paura dovuta alla situazione di insicurezza generale, ma anche perché sono zone profondamente conservatrici. “Se finirà per imporsi una legge islamica, dovrò andarmene dal mio paese”, afferma Rajaà Bosha, ginecologa di 60 anni che collabora con l’associazione Al Amal, una ong che da 10 anni sviluppa programmi di donne nel Kurdistan e che si è appena stabilita a Bagdad. “Bisogna lottare per il rispetto dei diritti di tutti, di uomini e donne, perché altrimenti l’Irak non sarà mai una piena democrazia”, dice questa cristiana di Bassora, la principale città del sud dell’Irak, sempre più dominata dalle tradizioni sciite più conservatrici. “La situazione della donna non è ancora un problema maggiore in Irak, perché conserviamo molti dei diritti ottenuti negli anni sessanta, anche se c’è molto da migliorare nel campo dell’attenzione ginecologica. Ma la situazione può cambiare e bisogna far qualcosa prima che sia troppo tardi”, aggiunge.

(traduzione di Clara Jourdan)

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