Ida Dominijanni
Dicono che giocassero spesso assieme per strada malgrado la differenza d’età, i tre adolescenti e «l’adulto» trentacinquenne accusati di aver massacrato Desirée Piovanelli. Chissà quale fosse il gioco che li teneva uniti tutti e quattro attorno a un sogno, o a un delirio, di irresponsabilità infantile, quel cerchio magico in cui tutto è possibile e che ciascuno e ciascuna di noi dovrebbe lasciarsi alle spalle due volte, quando entra nell’età del desiderio sessuale e quando entra nel mondo del lavoro. Due soglie entrambe mancate dagli autori del massacro. Il coro di orrore per la scoperta della regia dell’adulto aumenta infatti le proporzioni del misfatto, ma non può tacitare lo sconcerto per il cinismo dei tre ragazzi. A meno di essere tutti vittime e complici della sindrome di Peter Pan, dovremo prima o poi saper dire e saper pretendere dai nostri adolescenti che l’età dell’amore è l’età in cui si impara il rispetto per l’altra e per l’altro, non quella in cui si entra in possesso di un’arma per impadronirsi con le buone o con le cattive della sua sessualità.
Con in più l’aggravante dei futili motivi, recita l’imputazione. Futili? Certe volte illinguaggio giuridico dovrebbe svecchiarsi. E’ futile l’idea di circuire una ragazza, tradirne la fiducia, deportarla in una cascina e finalmente possederla viva o morta? Ridurre una donna a preda è sempre stata una faccenda maledettamente seria, nella storia dell’umanità. Diventa un sintomo schizofrenico, in una società che è abitata da donne vivaddio sempre più libere, ma che traduce – e tradisce – questa loro libertà solo in disponibilità sessuale. Il messaggio va ossessivamente in onda sulla televisione di stato e di governo: sono belle, sono vicine, sono in vetrina, sono libere, cioè ve le potete prendere. Come una cosa qualsiasi al centro commerciale sotto casa. E se resiste? Se non ci sta? Ci starà per forza, non s’è mai vista una cosa resistere. Facile e macabro rito di iniziazione, per una virilità sempre meno in grado di corrispondere alla libertà indisponibile di donne giovani e meno giovani. Tanto indisponibile che per farne fuori una conviene mettercisi in quattro, adolescenti e adulti uniti nella lotta.
Di sesso si muore, di sesso si uccide, di sesso si va in galera. Di sesso non si vive. La cronaca deborda, infila un fatto e un omicidio dopo l’altro, vola dall’entroterra bresciano ai palazzi del potere di Amsterdam e di Parigi minacciati dall’omosessualità, ci prende alle spalle. Noi stessi, il manifesto dico, talvolta non sappiamo che fare, che peso dare, tacciamo, aspettiamo, evitiamo di unirci alla chiacchiera dei commenti, neghiamo l’evidenza; speriamo che l’insensatezza di un fatto non sia sintomo di nulla, se non di puntiformi e circoscritte follie.
Invece la cronaca parla sempre di noi tutti, rivela quello che siamo e annuncia quello che saremo. Pietro Maso annunciò il Nordest e i suoi valori. I futili e ripetuti motivi degli ultimi mesi parlano di un buco nero nella nostra tanto sbandierata libertà, che di nuovo inciampa sul sesso e sui rapporti fra i sessi. Esposto, dichiarato, esibito, il sesso non abita più qui, non trova posti al sole nelle nostre strade affannate dalla corsa a produrre, consumare e fare debiti, e oscurate dal perbenismo e dalla diffidenza. Si continuerà a ucciderne e a morirne, finché non sapremo dire ai nostri adolescenti che di sesso si può anche vivere e sorridere, e che nell’altra e nell’altro, a sedici anni e a trentacinque, non c’è mai una futile preda ma sempre un delicato mistero.