Gioconda Pietra e Vita Cosentino
Cara école,
Come è già capitato a Milano al seminario “Pratiche sensate di resistenza”, le posizioni espresse da Raffaele Mantegazza nella sua rubrica “R/Esistere tra i banchi” ci suscitano molte perplessità e un esplicito disaccordo quando afferma: “La scuola è dunque il vero e proprio braccio armato della politica e della società, e la coscienza di ciò è il primo presupposto per considerarla come possibile ambito di resistenza.”
Se c’è una cosa che il movimento di quest’anno ha mostrato, è proprio la rivolta di molte maestre a essere omologhe ai meccanismi di potere della società. Non vogliono che vengano introdotte gerarchie là dove c’era collaborazione, oppure rapporti mercantili interscambiabili (vedi mensa gestita da esterni) là dove si può creare un contesto educativo simile alla vita quotidiana. E se nasce movimento è perché c’è già stata una presa di coscienza, che riesce a darsi parole e forme politiche. E questo non da ora. Noi stesse che scriviamo abbiamo contribuito a far ritirare nel ’93 il famigerato concorsone che partiva dallo stesso impianto neoliberista e voleva introdurre a scuola gerarchia e competizione.
Per noi è piuttosto vero il contrario della sua affermazione: la parte più consapevole di chi insegna lavora da decenni a cercare di “sottrarre” la scuola e le nuove generazioni all’ideologia dominante nella società, in nome di un senso di civiltà e di convivenza umana non ancora perduto. Ma non solo la parte più consapevole. Un altro dato ben conosciuto è che la maggioranza dei e delle docenti per età anagrafica, per estrazione sociale non più solo borghese, per formazione culturale anni ’70, oggi come non mai, rende la scuola attestata su una concezione del mondo lontana dalle rappresentazioni indotte dal libero mercato. Non a caso vogliono imporre libri di testo riformati, non a caso Bertagna ha dichiarato più volte che il loro progetto di cambiamento potrà davvero affermarsi quando andrà in pensione questa generazione di insegnanti. E in effetti, molto spesso la frustrazione di chi insegna è data dal sentire che le proprie parole non intaccano quasi le concezioni da individuo-cliente-consumatore, che ragazzi e ragazze assorbono quotidianamente dalla società, da televisione e pubblicità per esempio. Anni fa una insegnante di Napoli si è dimessa proprio per questo motivo, scrivendone con lucidità in una lettera aperta ai giornali.
Per continuare a starci politicamente, lo scatto che a volte manca è proprio quello di puntare a una relazione pedagogica che sia veramente incontro tra generazioni. Mettersi in gioco tra chi insegna e chi impara può far capitare qualcosa di nuovo e diverso. Per noi non c’è una pedagogia buona con la quale puoi passare contenuti nazisti (o marxisti): c’è una cattiva pedagogia e un buon modo di fare dell’insegnamento un incontro, prendendo sul serio la distanza che separa le generazioni di oggi dalla nostra.
Una così forte insistenza sul potere, come quella espressa da Mantegazza nella frase che abbiamo riportato, ci fa risuonare dentro un vecchio paradigma novecentesco di sinistra, che non risponde più alle necessità politiche dell’oggi. Come se ci potese essere da una parte un potere capace di controllare tutto, dall’altra un contropotere guidato da un’avanguardia utopica che sveglia le masse incoscienti.
Nella seconda parte della rubrica parla del prendere coscienza: ci aspettavamo che parlasse del suo rapporto con la scuola nel passato e nel presente, delle pratiche che lui stesso fa in università con studenti e studentesse. Potere e libertà si giocano nelle nostre stesse vite, lì dove siamo. Un’altra questione su cui nell’Autoriforma della scuola abbiamo preso coscienza, è che il rapporto con il potere da professore universitario è profondamente diverso dal rapporto con il potere di una maestre che sta con le creature piccole. C’entrano le gerarchie sociali, e c’entra anche l’essere uomo o donna. Per quanto vediamo in noi e nelle nostre amiche, maestre e non, possiamo dire che una donna di solito – tranne una minoranza – sta più infelicemente nei ruoli e nell’esercizio del potere. Sta più dalla parte della relazione che del dominio, i difetti di una insegnante casomai sono altri.
La questione ci tocca di persona: anni fa nel movimento femminista e nella Pedagogia della differenza, avevamo proposto una formula combinatoria “il massimo di autorità con il minimo di potere”, per starci coscientemente nei luoghi dove siamo, squilibrate verso il far crescere che è la radice etimologica, da augeo, di autorità.
Per potenziare pratiche di libertà e sfuggire all’omologazione neoliberista, un passo non da poco è tornare nelle proprie concretezze umane, segnate per sesso, per storia, per vissuto, per cultura. E da lì ricominciare a parlarsi. Per noi sarebbe molto interessante, per portare avanti una riflessione comune tra uomini e donne, se la rubrica di Mantegazza riuscisse a dire di più sul rapporto specificatamente maschile con il potere.
Gioconda Pietra e Vita Cosentino