Elisabeth Jankowski
Qualche settimana fa mi è capitato di leggere su un giornale tedesco un articolo che se la prendeva con l’insegnamento dell’inglese alla scuola elementare. In un primo momento non capivo, in quanto di solito, quando si parla di politica delle lingue per la scuola, si sostiene la tesi che prima i bambini apprendono l’inglese meglio è. Ma poi, andando avanti con la lettura, ho capito di essere completamente d’accordo con l’autore: faceva presente che i bambini hanno una naturale capacità di apprendere le lingue straniere e che la scuola, somministrando delle lezioni senza un vero concetto di lingua per l’infanzia, può rovinare la loro naturale predisposizione.
Osservando con quanta facilità i bambini, direi tutti i bambini, apprendono un’altra lingua in un contesto naturale, è il momento di chiedersi se l’insegnamento sistematico di una lingua, come viene praticato nelle scuole, indipendentemente dalla bravura dell’insegnante, possa davvero favorirne l’apprendimento. Personalmente, e anche per la mia esperienza, sono convinta di no. Difatti, mi ha sempre stupito nel mio insegnamento all’università, vedere quanto poco sapessero parlare e comprendere una lingua straniera gli studenti che già dalle medie l’avevano studiata; mentre, al contrario, molti principianti mostravano notevoli competenze dopo non molto tempo, soprattutto se avevano anche fatto dei soggiorni all’estero o seguito dei programmi televisivi in lingua per rinforzare l’apprendimento.
Pare che un insegnamento prolungato a scuola non incrementi più di tanto le loro competenze. Direi di più, gli studenti italiani hanno una particolare preferenza per l’apprendimento in una relazione viva. Per esempio gli studenti universitari che tornano da un soggiorno all’estero, con il progetto Erasmo, fanno dei progressi che non sono prevedibili in sé. Un soggiorno di 6 oppure 12 mesi non è un periodo poi così lungo da giustificare il salto di qualità che effettivamente fanno. L’apprendimento avviene perché il coinvolgimento con altri giovani lo rende possibile al di fuori e al di sopra di tutti i calcoli didattici.
Nell’Europa di oggi, con tutta la tecnologia elettronica a disposizione, dobbiamo fare una seria riflessione sulla politica che riguarda le lingue a scuola. Non solo: la presenza di alunni di altre aree culturali e linguistiche, come lo sono i tanti studenti stranieri, ci costringono a una riorganizzazione del sapere. Peccato che una bambina di Verona che siede accanto a un bambino del Marocco debba studiare l’inglese su un libro di testo mentre potrebbe naturalmente apprendere l’arabo, lingua parlata da 150 Milioni di persone nel mondo e usata per il culto anche da tutti i musulmani non arabi in Turchia, Iran, Afghanistan, Pakistan, Indonesia, parti dell’Africa subsahariana, Kazakistan, Kirghizistan, Tagikistan, Turkmenistan e Uzbekistan. Lo stesso vale anche per una compagna di banco di un piccolo cinese. La lingua parlata da lui, anche se sarà una variante regionale, è parlata da oltre 885 milioni di persone ed è per questo una delle lingue Ufficiali delle Nazioni Unite.
Dobbiamo smetterla di considerare l’inglese l’unica lingua importante. Quell’inglese, che poi la maggior parte degli italiani sa usare, si potrebbe apprendere benissimo nel corso di un anno scolastico.
Il livello di competenza di studenti e adulti in Italia è una prova lampante che la quantità di ore e i molti anni di insegnamento non servono quasi a niente. Sarebbe il caso di riflettere maggiormente sulla funzione che hanno le lingue straniere fino a oggi nella scuola: introducono i piccoli e meno piccoli nel mondo culturale di un altro paese. Non insegnano a parlare e comprendere l’altra lingua perché in una classe di 30 alunni e con un’insegnante madrelingua o non madrelingua, per quanto brave, questo non è possibile; ma le ore di lezione forniscono dei dati utili sull’altra cultura e delle nozioni teoriche sulla lingua straniera. Sarebbe allora giusto avvicinare le piccole e i piccoli non solo al mondo anglofono ma anche a quello slavo, forse arabo o cinese. Sono anche contraria a usare un metodo interattivo conversazionale perché è una pura finzione. Non è possibile mettersi in relazione con 30 persone contemporaneamente. Sarebbe meglio tornare, nella scuola d’obbligo, al vecchio metodo di insegnamento delle regole grammaticali e della letteratura di quest’area culturale perché è l’unico possibile. Tutto il resto è una finzione e fa in modo che gli allievi non apprendano più niente e si disamorino: né imparano a parlare né apprendono delle nozioni sulla cultura straniera.
Inoltre, quando si tratta di scegliere la lingua per le scuole primarie e per quelle secondarie di primo grado, non si tratta più solo di pari dignità delle lingue del vecchio continente ma anche di pari dignità delle altre lingue, almeno quelle delle grandi aree culturali. La lingua è lo strumento magistrale per aprire le menti e i cuori su orizzonti più ampi e, soprattutto, per relazionarsi davvero con persone diverse.
Occorre, comunque, un’ampia scelta perché le lingue sono come il cibo: Per nutrirsene devono piacere. Chi avrà voglia di studiare il francese deve poter seguire la propria inclinazione, chi avrà voglia di studiare il tedesco, il cinese, il russo o l’arabo deve, nella scuola di oggi, poterlo fare. La politica della ministra Mariastella Gelmini mi sembra dettata da un pragmatismo fuori tempo massimo. Vorrei che lei avesse seguito la bellissima lezione del linguista prof. David Crystal sulle varietà dell’inglese che da lingua unica si sta trasformando in lingua Globeng. Il grande linguista ha tenuto una conferenza dal titolo The future of Englishes (febbraio 2008 all’Università di Verona) durante la quale ha delineato la nuova situazione internazionale. Più l’inglese si espande nel mondo più si trasforma e viene penetrato dalle altre lingue come il cinese, le lingue bantu o il hindi da essere, alla fine, quasi irriconoscibile in quanto inglese standard. Certo un corso annuale di inglese per sapere quel quid di parole e strutture di base da potersi arrangiare in tutti i continenti è senz’altro utile.
Non serve potenziare l’inglese nelle scuole perché non è il numero delle ore che fa la differenza: è il metodo che potrebbe cambiare le cose. Dobbiamo sempre tener presente che le lingue che apprendiamo in relazione e in un contesto vivo, come quella materna, creano tracce indelebili che possono essere seppellite da altre quando questa lingua non occorre continuamente, ma tornano fuori quando si presenta di nuovo l’occasione. La scuola dovrebbe finalmente imparare dalle madri che finora dispensano l’educazione più efficace.
Torno all’inizio del mio ragionamento è chiedo che oltre a dare un sapere teorico si faccia in modo che sempre più bambini e bambine abbiano la possibilità di apprendere in relazione con un altro bambino che parla questa lingua: Forse possiamo apprendere l’inglese di un bambino ghanese, ma soprattutto apprenderlo giocando assieme.