Paola Gaiotti de Biase
È con fastidio che si interviene nel dibattito aperto da quest’ultima provocazione di Ferrara, che riesce a dimostrare insieme il suo cinismo e la troppa disponibilità della stampa italiana a prendere sul serio strumentalizzazione e protagonismi che non servono a nessuno e si muovono con spregiudicatezza e insieme superficialità su terreni che meriterebbero ben altro spessore. Cosa hanno in comune la pena di morte e l’aborto tanto da dover collegare la moratoria dell’Onu (fra l’altro si badi bene iniziativa altamente meritoria e politicamente significativa per gli Stati, ma non vincolante per nessuno, non si sa come applicabile a singoli) alla legge sull’aborto. L’accoppiamento di due temi così diversi, nelle logiche e condizioni che ne sono all’origine, nelle pratiche che possono combatterli, nei soggetti che ne sono responsabili, nasce solo dall’evocazione di questa magica parola “vita”, una parola intorno a cui si è andato come coagulando, in una sostanziale fuga dalla politica reale e dagli strumenti che è in grado di usare, il rimando a qualcosa di intangibile e assoluto, che va oltre, e spesso ignora, l’unico assoluto e intangibile che per la politica è la persona reale.
Si tratta, infatti, di una espressione insieme ovvia e generica, politicamente inutilizzabile per la sua vaghezza, usata, proprio per la sua genericità quasi come una fuga dall’analisi approfondita di come e dove la vita umana si difende e garantisce, dei rischi che affronta, degli strumenti cui si può ricorrere. È entro quest’analisi che la laicità della politica è chiamata a trovare risposte coerenti ai diritti non genericamente della vita ma degli esseri umani nella loro concretezza.
Si può e si deve difendere la vita, ma per farlo davvero, in fedeltà alla propria coscienza bisogna maturare ben altra consapevolezza degli strumenti adeguati per farlo. Il primo dilemma che ci troviamo di fronte da questo punto di vista sta, a seconda dei problemi che ci troviamo ad affrontare, nella scelta fra strategie preventive e strategie repressive, in particolare in questo caso in cui siamo di fronte alla verifica oggettiva da secoli del fallimento da una parte e del danno aggiuntivo dall’altra legato alle strategie repressive.
In Italia, checchè se ne dica, la lettera della legge 194 non assume affatto il diritto all’aborto ma fa le scelta della strategia preventiva e la fece, (e vorrei ricordarlo per essermene occupata anche da storica in un saggio di qualche anno fa) con particolare forza grazie agli emendamenti introdotti da due cattolici esemplari, Gozzini e Pratesi. Ritengo che il no democristiano a questa scelta preventiva cui si approdò, abbia bloccato allora anche la possibilità di influire sulla legge riducendone qualche ambiguità. Il referendum che ne seguì fu condotto ignorando totalmente la natura del problema politico reale cioè la scelta politica concreta della strategia preventiva o repressiva, per concentrasi tutto polemicamente sul dilemma astratto e di principio, del si o del no alla vita, assai male riflesso del resto nello stesso dispositivo referendario. Questa scelta, politicamente errata e cieca, non solo favorì ulteriormente la sconfitta, comunque prevista, dell’iniziativa referendaria, non solo radicò nella grande maggioranza degli italiani il si all’aborto attraverso un voto personale, ma accreditò insieme alla vittoria della legge la lettura dell’aborto proprio nella chiave assolutizzante di fatto come un diritto. I colpevoli di quel clamoroso e prevedibilissimo, errore storico non solo non ne risposero mai, ma finirono coll’essere considerati dalla Chiesa come i figli più coerenti e affidabili.
Quest’errore ne portò con sé un altro ancora più grave: la prevalenza di un conflitto di natura ideologica, di principi, anziché di strumenti, fece si che non si affrontò né allora né poi proprio il problema centrale degli strumenti adeguati della prevenzione, salvo qualche tentativo di introdurvi elementi dissuasivi, di fatto repressivi. La scelta preventiva ha dato, come è stata puntualmente ricordato più volte in questi anni, risultati certamente importanti non trascurabili. Ma si tratta pur sempre di una scelta ancora parziale e da integrare nei suoi strumenti decisivi. Ricordiamo i punti centrali: aumentano significativamente i fondi destinati ai consultori, confidando su un loro insediamento sul territorio nazionale, che non ci sarà; si impone una informazione sui contraccettivi che certamente contribuirà a ridurre sempre più, ove praticata, il ricorso all’aborto; ma mancano e mancheranno a lungo le misure di sostegno economico e sociale alla maternità, senza le quali non ha fondamento pratico un’azione dissuasiva dei consultori.
I sostenitori della moratoria non ci stanno proponendo un ritorno alla strategia repressiva: ma che cosa allora? Una predica edificante? Una ripresa della informazione sulla contraccezione? O finalmente una vera politica delle famiglie? Ma se è questo perché chiamarla moratoria?
Qualcuno pensa che proibire gli asili ai figli degli immigrati clandestini possa dissuadere le migranti, che sono sempre i soggetti oggi più esposti, dal ricorrere all’aborto o è il contrario? La lotta contro l’aborto ha una sola via: creare condizioni economiche sociali, culturali, di solidarietà collettiva in cui la maternità possa essere vissuta serenamente e responsabilmente. Il resto è gioco verbale e impotente.