Ida Dominijanni
Leggo che Lynndie England si è divertita, lo giura e lo rivendica. Si è divertita a fare – «nulla di grave, cose di routine » – e si è divertita a fotografare, in allegra combutta con Sabrina Barman, altra simpatica figurina femminile del carnaio di Abu Ghraib. Divertita, ecco. Invece che stare a fare la contabilità dell’orrore a cavallo fra la foto della dolce Lynndie col prigioniero iracheno al guinzaglio e quella dello sgozzamento islamico del cittadino americano Nicholas Berg, potremmo applicarci utilmente ad analizzare questo aggettivo, «divertente», applicato alla tortura. Perversione di una mela marcia? O effetto estremo dell’insensatezza in cui l’edonismo occidentale può precipitare, quando cade ogni tabù e ogni confine fra il lecito e l’illecito? Per una non tanto strana coincidenza, la dichiarazione giurata di England ci arriva dalla stampa americana in contemporanea con la ricostruzione dettagliata delle tappe che hanno portato i falchi dell’amministrazione americana, dopo l’11 settembre, a ritenere « obsolete » le regole della convenzione di Ginevra, divieto di tortura compreso, nel trattamento dei prigionieri prima a Guantanamo poi in Iraq, e a incoraggiarne l’umiliazione fisica e sessuale. Il tutto in nome della illegalità del terrorismo, che giustificherebbe metodi altrettanto illegali per combatterlo. Vi pare troppo grande il salto fra questo teorema di stato e l’idea che Lynndie England s’è fatta del lecito e dell’illecito, della routine e del divertimento a Abu Ghraib?
Leggo che invece la contabilità dell’orrore fra le due immagini di cui sopra va fortissimo sulla stampa nostrana (a differenza che su quella americana). L’ultima trovata, firmata Galli Della Loggia sul «Corsera» di ieri, è che d’accordo, le responsabilità dello sgozzamento non elidono quelle delle torture e viceversa, ma la scala dei due fatti resta distantissima: la tortura, che ha una sua perversa ratio («per quanto sia orribile ammetterlo, funziona»), sta suscitando la rivolta dell’opinione pubblica occidentale, mentre lo sgozzamento, che non ha ratio alcuna ed è un puro messaggio dimostrativo di odio, non riesce a far muovere paglia nell’opinione pubblica islamica. Ancora una volta, la democrazia si salva l’anima? Magari. L’ottimismo dei fautori nostrani dello scontro di civiltà, ben più zelanti di Samuel Huntington che non da oggi ha realizzato che in Iraq era meglio non andarci, è davvero invidiabile.
Senonché ci sono soglie in cui non sono in gioco i sistemi politici, ma i livelli antropologici. Gli orrori che arrivano dall’Iraq non si elidono : si sommano, e sommandosi alludono a qualcosa che assomiglia ogni giorno di più non a un derby fra l’occidente e l’islam ma a una regressione antropologica. Dalla quale non è chiaro come usciremo, se ne usciremo: «noi » e «loro».
Quanto c’entra l’homo videns, ovvero l’abitatore della civiltà del visuale che è palesemente globale e bypassa i confini fra occidente e islam, in questa regressione? Tanto che forse ne è la chiave. Gode Lynndie a fotografare e farsi fotografare. Godono i carnefici incappucciati di Nicholas Berg a farcelo vedere sgozzato in differita. Godono come quelli che vanno a sposarsi in tv, perché l’essere è l’apparire, senza visibilità non si esiste e al confine col virtuale la vita diventa più vera. E noi, gli spettatori? E’ vero, c’è chi vede e si sveglia. Ma c’è anche chi vede e distoglie lo sguardo e continua a fare quello che faceva prima, come se accendendo e spegnendo un video anche la realtà si potesse accendere e spegnere. Si chiama virtualizzazione del reale e produce robot schizoidi. Il divertimento è salvo. La paranoia non abita solo a Abu Ghraib o nei covi dei terroristi islamici.