Paola Meneganti
Torna la questione aborto e legge 194, secondo cicli che poco hanno a che vedere con la realtà a cui tale questione rimanda, ma molto con la polemica tra partiti, dentro i partiti, dentro il governo, tra governo ed opposizione, nell’ennesimo teatrino parapolitico. Si parla di aborto: quindi di vita, di morte, del corpo a corpo tra madre e figlio, di sessualità e di desiderio. Si parla di aborto e si legge della “trasversalità” degli schieramenti in campo: Tizio sta con Caia, con B si schiera A. Che vergogna.
Proviamo a ragionare. Nell’ordinamento giuridico italiano, la legge 194/1978, all’art. 1, afferma che l’interruzione volontaria della gravidanza non è un mezzo per il controllo delle nascite.
I guardiani della morale pubblica e privata fingono di ignorare che, dal 1978 a oggi, il ricorso all’aborto è sceso del 45%. Grazie alla crescita di consapevolezza e di conoscenza della propria sessualità, favorita anche dalla legge che dedica molto del suo contenuto agli strumenti di prevenzione, in primis il ruolo dei consultori (ecco un terreno su cui una pratica politica ed amministrativa seria potrebbe impegnarsi di più).
Non c’è da stupirsi delle posizioni del cardinal Ruini, non nuovo ad accostamenti assai discutibili, come quando mesi fa mise insieme l’aborto e la “pratica di selezione genetica diventata ormai una routine”. Non dimentichiamo poi le furibonde prese di posizione durante la campagna referendaria sulla procreazione medicalmente assistita.
Esponenti dei vari partiti che si erigono a censori, a giudici delle scelte altrui: è assolutamente sconsiderato e assolutamente poco caritatevole utilizzare drammi umani per sostenere posizioni ideologiche.
Ma soprattutto, ancora una volta, secondo un punto di vista che non muta, almeno nelle gerarchie cattoliche e nelle loro espressioni politiche – i distinguo sono necessari, la chiesa cattolica non è certo un monolite – ciò che si nega è la soggettività delle donne nel suo declinarsi in libertà femminile. Quella soggettività che sostanzia il principio regolatore della responsabilità verso il proprio corpo, il corpo dell’altro ed il mondo.
È stata la ministra Pollastrini a ricordare, in questi giorni, l’autonomia e la responsabilità delle donne.
In un testo del 1975, in pieno dibattito sulla legge, Letizia Comba scriveva “tra il concepimento biologico e la maternità ci sono tante e tali mediazioni che non possiamo permetterci facili arrangiamenti decisionali”. Pochi anni dopo, Maria Luisa Boccia parlava del discorso sulla maternità non solo come funzione riproduttiva ma come orientamento alla nutrizione e alla realizzazione di sé attraverso l’altro, come radice del rapporto che la donna ha con se stessa e con il mondo.
Si tratta di punti di vista complessi, che danno conto di un dibattito che fu altrettanto complesso, acceso, doloroso e ricco. Parliamo del necessario grembo psichico, accompagnato al grembo corporeo, che una donna si costruisce man mano che la grande avventura del dar vita ad una creatura nuova cresce nella sua mente e nel suo desiderio – “nella stagione che illumina il viso”, cantava Fabrizio De Andrè – oltre che nel suo corpo. Se, per i motivi di cui solo lei può giudicare, il grembo psichico non può formarsi, una legge civile, nel nostro paese, le consente l’aborto, in modo protetto e sicuro. Le donne si assumono probabilmente da sempre questa responsabilità. Non è cosa nuova, per loro. La stessa chiesa che ha raccolto per anni le loro confessioni dovrebbe saperlo molto bene: è incredibile questa pervicace negazione.
Altri sarebbero i motivi di scandalo: ne nomino alcuni, ovviamente per me. A partire dai sette operai morti atrocemente alla Thyssen Krupp di Torino, in un vero e proprio omicidio sul lavoro, simbolo di tutte le morti sul lavoro, alle situazioni di miseria e degrado che vediamo intorno a noi e a cui non facciamo caso, fino a quando non muoiono quattro bambini rom in un incendio, alla notizia per cui tra i 2,5 e i 4,5 miliardi di euro provenienti dal programma di aiuti alle aree disagiate del paese (legge 488/92) sono finti ad imprenditori disonesti ed alle organizzazioni criminali, prima la mafia.
Inoltre, non si affermerebbe la cultura della vita combattendo l’inquinamento, il traffico impazzito, l’uso dissennato del territorio che porta ad incendi e ad alluvioni, la solitudine, spesso mortale, di poveri, vecchi ed emarginati?
Ritengo che un tentativo di costruire un’etica nuova dovrebbe partire da qui, e non dall’ossessivo interesse per il corpo, la sessualità e le sue libere declinazioni.