Fabrizio Tonello
Chi esce dalla visione dell’ultimo film di Michael Moore e ripensa alle sequenze che mostrano Bush smarrito e con lo sguardo vacuo mentre continua a leggere un libro per bambini dopo aver ricevuto la notizia degli attacchi dell’11 settembre, non può che dirsi: «Quest’uomo è troppo idiota per fare l’impiegato di banca, altro che il presidente degli Stati Uniti». Purtroppo, l’uomo è davvero presidente e i sondaggi di queste ore dicono che è il preferito di circa la metà degli americani che andranno a votare in novembre, quanto basta per vincere le elezioni. Occorre quindi chiedersi come mai i repubblicani hanno costruito nel tempo una macchina politico-elettorale capace di far eleggere chiunque, anche un imboscato che si presenta contro un eroe di guerra come Kerry. I conservatori americani non costituivano un movimento coerente fino al 1975: negli anni Venti dominavano la scena, ma pagarono il crack del 1929 con l’esilio politico dal 1932 al 1952. Ancora negli anni Cinquanta, il partito era in stato di confusione e frantumazione, diviso tra un’ala isolazionista, un’estrema destra paranoica (per la società John Birch, Eisenhower era un «agente dei comunisti») e i banchieri di Wall Street. Nel 1960 Nixon fu battuto da Kennedy, nel 1964 Goldwater fu umiliato da Lyndon Johnson. Ma queste sconfitte costrinsero i conservatori a nuove proposte unificanti e furono le dimissioni di Nixon nel 1974 a obbligarli a trovare una nuova generazione di leader. L’uomo del destino fu Ronald Reagan, che trasse vantaggio da circostanze contingenti: il sequestro dei diplomatici americani a Teheran e l’inflazione galoppante. Il programma, drastiche riduzioni fiscali e militarismo, era invece pensato come piattaforma di lungo periodo e, non a caso, è oggi allo zenith del suo successo. La logica di questo programma è costruire una coalizione artificiale di milionari (o gli aspiranti tali) e poveracci (o i timorosi di diventarlo). Ai primi si offrono tagli fiscali che incentivano i consumi opulenti, ai secondi si propongono la bandiera, le forze armate, le guerre all’estero, il diritto a possedere armi da fuoco, come simboli in grado di rassicurare chi teme la perdita dei valori tradizionali, il declino del paese, l’incertezza endemica della vita quotidiana di questi anni. Malgrado i toni rassicuranti usati sul palco della convenzione di New York, è il culto del guerriero il vero marchio di fabbrica del «nuovo» partito repubblicano, quello nato a metà degli anni Settanta. Il militarismo è una forza molto potente in America benché sia arrivato relativamente tardi a dominare la scena politica: i padri fondatori aborrivano gli eserciti permanenti e, ancora nel 1916, quando gli europei si scannavano a Verdun o sull’Isonzo, gli Stati Uniti erano non solo fuori dalla guerra mondiale ma ben determinati a non entrarci. Fu necessaria la martellante propaganda di Woodrow Wilson per convincere il paese a entrare in guerra nel 1917 e già nel 1920 il Senato gli impose una linea di disimpegno in politica estera. Nel 1941, Franklin Roosevelt non era ancora sceso in campo a fianco degli inglesi, né avrebbe potuto farlo senza l’attacco giapponese contro Pearl Harbour. E’ solo dopo il 1945 che gli Stati Uniti hanno costruito un esercito permanente di grandi dimensioni e mantenuto stabilmente truppe all’estero ed è solo dopo la vittoria di Reagan, nel 1980, che il bilancio della difesa è iniziato ad aumentare, fino a raggiungere nel 2003, la stupefacente percentuale del 40% dell’intera spesa militare mondiale. L’anno scorso, gli Stati Uniti spendevano da soli più di quanto spendessero Gran Bretagna, Francia, Russia, Cina e gli altri 20 paesi con i maggiori bilanci militari messi insieme. Il militarismo ha una dimensione essenzialmente simbolica: più navi, più aerei, più carri armati, più missili che rassicurino un paese inquieto.
Dopo l’11 settembre, ovviamente, l’amministrazione Bush ha aumentato gli stanziamenti per la difesa, compresi quelli per una improbabile difesa antimissile, benché gli aerei che hanno distrutto lo World Trade Center fossero stati dirottati utilizzando dei taglierini. L’uso più efficace di questo gruppo di simboli è sul fronte interno: è il diritto dei singoli cittadini a portare armi da fuoco che costituisce il legame ideologico tra l’espansione imperiale (vista con diffidenza da una maggioranza di americani) e l’adesione dei ceti a basso reddito al programma repubblicano. Sono fucili e pistole viste come emblema della virilità a far votare i bianchi a basso reddito per Bush: nel 2000, il 63% degli elettori maschi bianchi che non erano andati all’università votò per i repubblicani, il 34% per i democratici. Questo segmento dell’elettorato, spesso composto di ex militari, è mosso nel suo comportamento politico essenzialmente dal risentimento. Risentimento verso le grandi città, verso gli intellettuali, verso le donne. Se osserviamo le mappe colorate che i giornali pubblicano dopo ogni tornata elettorale, vediamo un continente repubblicano (tutto il Sud e l’Ovest degli Stati Uniti, fino alle Montagne Rocciose) con le roccaforti democratiche concentrate sulle due coste (California e New England). Come si sa, nel 2000, Gore ebbe 539.898 voti popolari in più di Bush, ma fu ugualmente sconfitto nel collegio elettorale (ipotizziamo che i risultati della Florida fossero regolari) perché i repubblicani traggono enorme vantaggio dal loro dominio negli Stati rurali e poco popolati delle grandi praterie e delle Montagne Rocciose. Le città e le coste sono viste con diffidenza da quest’America religiosa, conservatrice, poco interessata alla politica se non come manifestazione di identità. Il fatto che i democratici si siano enormemente «femminilizzati» come partito (sono per l’aborto, il welfare e contro le armi da fuoco) ha garantito un solido sostegno tra le donne di educazione universitaria (59% a favore di Gore nel 2000) ma ha anche creato una potente corrente di ostilità tra i maschi a basso reddito. Questi, benché penalizzati dalla politica economica dei repubblicani, si identificano con i simboli proposti da questo partito, tanto più dopo l’11 settembre: il loro sciovinismo non li farà mai votare per Kerry, un miliardario di educazione europea sposato con una straniera.