Elena Doni
Invece del silenzio, parole: molte parole. Invece del tabù, pubblici convegni. E oltre alle leggi, spesso ignorate, «dichiarazioni di villaggio»: efficace veicolo di persuasione che si diffonde con effetto domino. E poi radio, canzoni, spettacoli e «riti alternativi», come piantare un albero, per segnare il passaggio delle ragazze all’età adulta.
Qualcosa sta cambiando in Africa a proposito delle mutilazioni genitali femminili. Lo conferma il grande congresso che si terrà a Gibuti domani e il 3 febbraio con il titolo «Verso un consenso politico e religioso contro le MGF». Che fa seguito ad altre importanti riunioni ufficiali, tra le quali quella del Cairo del giugno 2003, in cui per la prima volta il Gran Muftì di Al-Azhar, Sayed Tantawi, massima autorità religiosa sunnita, disse in diretta radiotelevisiva che le mutilazioni agli organi sessuali delle donne non erano prescritte dal Corano. Dichiarazione alquanto pilatesca, ma comunque importante perché in molti paesi africani musulmani si crede che questa pratica sia voluta dalla religione: «Non c’è nulla nella Shari’a, nel Corano o nella Sunna profetica che parli di mutilazioni genitali femminili», sono state le parole di Tantawi, che poi ha proseguito: «È un problema che appartiene alla medicina. Potranno esserci dei casi in cui la MGF sia consigliabile e altri no. Dunque dobbiamo attenerci al parere dei medici». E poiché i medici dichiarano che qualsiasi mutilazione è contraria all’etica professionale e provoca gravi conseguenze per la salute, si può sperare che diminuisca il numero di seimila ragazze che ogni giorno vengono ancora mutilate in Africa.
Certamente l’Islam non ha dato origine alle mutilazioni genitali femminili dato che erano già presenti nell’Africa centrale prima della sua penetrazione in queste zone. Secondo alcuni l’escissione risale all’antico Egitto, come forse prova l’espressione «circoncisione faraonica», ma la si ritrova anche nell’antica Roma, dove era praticata sulle schiave. E certamente di origine latina è la parola «infibulazione», proveniente da fibula, una specie di spilla che veniva applicata ai giovani (inizialmente solo ai maschi) per impedire loro di avere rapporti sessuali.
L’Islam ha semplicemente recepito tradizioni locali e le ha di fatto legittimate, difese e diffuse, anziché combatterle come hanno cercato di fare le chiese cristiane. Con scarso successo: nel 1929 ci fu in Kenia addirittura una ribellione contro i missionari che avevano proibito di fare l’escissione alle donne Kikuyu. Per secoli le mutilazioni genitali femminili sono state praticate in silenzio, spesso in segreto: anche nelle aree cristiane, dove predomina la clitoridectomia, praticata su percentuali di ragazze tra il venti e il cinquanta per cento, ma soprattutto nelle zone islamiche. Nel Corno d’Africa, dove l’infibulazione è di rigore, si toccano percentuali che vanno dall’80%.
L’inversione di tendenza oggi in corso ha avuto però connotati assolutamente laici. Aziza Hussein, presidente della Società egiziana per la Prevenzione delle Pratiche Tradizionali Dannose, ha raccontato di aver sentito parlare per la prima volta di quella che allora veniva chiamata «circoncisione femminile» negli anni ‘70 da medici egiziani all’estero. In prima linea era allora la dottoressa Nawal El Saadawi, diventata poi famosa come scrittrice, la prima donna a battersi con vigore contro le mutilazioni.
Intorno alla pratica delle mutilazioni genitali femminili esiste un viluppo di tradizioni e di riti che spiegano la ragione delle resistenze ancora diffuse tra gli africani (e soprattutto tra le donne africane) all’abbandono di queste pratiche. Le MGF sono una componente fondamentale dei riti di iniziazione attraverso cui nelle società tradizionali si diventa donna, rimuovendo la parte «maschile» dell’apparato genitale femminile. E specie nel caso dell’infibulazione contribuiscono a costruire la «femminilità» delle ragazze. Quella che le donne infibulate chiamano «cucitura», restringendo lo spazio intermedio tra le gambe, impedisce loro di correre, di fare una serie di movimenti e le costringe ad un’andatura flessuosa e lenta. Inoltre queste terribili mutilazioni del corpo delle bambine e delle ragazze (l’età in cui vengono praticate varia dai primi giorni di vita ai 14 anni) sono importanti nel determinare il prezzo della sposa, «cioè il compenso che la famiglia del futuro marito versa alla famiglia della futura moglie» spiega la sociologa Carla Pasquinelli dell’Istituto Orientale di Napoli «in cambio di una donna illibata – escissa o infibulata che sia – pronta a rispedirla al mittente e a riprendersi il compenso versato se la donna non è stata operata come si deve».
Il giorno dell’operazione, che avviene in un luogo appartato, le bambine vengono tenute ferme da altre donne, poi costrette a restare per alcuni giorni coricate a gambe aperte, con in mezzo un cuscino o il secchio per la mungitura se è stata praticata l’escissione, con le gambe legate fin sotto le ginocchia se si è trattato di infibulazione. Quando la ragazza è pronta per tornare nella comunità viene festeggiata e colmata di doni, a simboleggiare il suo nuovo status di donna. Accade abbastanza di frequente che quando un padre più istruito e moderno vieta l’operazione sia la ragazza stessa a pretenderla, non fosse che per salvarsi dalle coetanee che la perseguitano: «Se non sei una puttana facci vedere se sei stata pulita».
Daniela Colombo, presidente di Aidos, l’Associazione italiana Donne e Sviluppo che da trent’anni lavora per combattere le MGF, anche con il sostegno della Cooperazione italiana, dice che la sola strategia pagante è quella di lavorare insieme agli uomini e alle donne africani. «Sono i governi e le Ong locali gli agenti del cambiamento: noi, come Aidos, li aiutiamo nel “capacity building”, cioè nel formare personale che diventi poi avvocato di questa causa. Quello che conta è cambiare le politiche governative, in direzione di un maggior rispetto dei diritti delle donne. Per questo il convegno di Gibuti è estremamente importante».
In Italia sarà presto discussa in Senato la legge già approvata dalla Camera che ribadisce la proibizione delle mutilazioni genitali femminili e predispone campagne informative nelle comunità di immigrati.