Concita de Gregorio
GENOVA – Christian ha 27 anni, dorme. Sono le due del pomeriggio ma ieri sera ha fatto tardi, si scusa sua madre. Al lavoro? «No, era con la sua ragazza a una festa di compleanno, l’ ho sentito rientrare che saranno state le tre». Parla piano per non svegliarlo, non vuole turbare l’ undicesima ora di sonno del primogenito. «E’ un bravissimo ragazzo, sa?». La casa è stretta e buia, vicolo del centro di Genova. Enzo, il padre, 58 anni, lavora al porto: gruista. I due piccoli sono a scuola: elementari a tempo pieno, letti a castello con disegni della Sirenetta, tv con lettore di dvd in camera. Anna Cademartori ha 51 anni, ne dimostra parecchi di più, nella vita ha cresciuto i figli e tenuto in ordine la casa. Campano in cinque coi 1800 euro del marito che finito il turno arrotonda con qualche lavoretto: torna a casa tutti i giorni alle otto di sera, esce alle sei del mattino. Anche Christian lavora, commesso in un negozio di noleggio video, e guadagna, certo, «ma poco, quei 500 euro che gli servono per i suoi bisogni». Caspita. Quali bisogni? «Le sigarette, la benzina della moto, la pizza con la fidanzata, le vacanze: sa, sono ragazzi». I sociologi la chiamano “famiglia tana”, quella di Christian la “sindrome del giovane adulto”. E’ stata la più grave malattia sociale degli ultimi vent’ anni del secolo, in Italia, ma non se ne parla quasi per niente: la generazione degli anni Ottanta è rimasta a vivere dai genitori. Sette giovani uomini su dieci fra i 25 e i 29 anni vivono attualmente nella cameretta dove sono stati fasciati da neonati. In alcune regioni 9 su 10, praticamente tutti. Le donne un po’ meno: la metà. 55 persone su 100 sotto i 34 anni non vivono ancora in coppia o non ci vivono più: se l’ hanno fatto, in un batter di ciglia, sono tornate a casa dei genitori. Quando si racconta questa storia, la più italiana di tutte, si attribuisce la colpa alla società: non c’ è lavoro, non ci sono case, gli affitti sono carissimi, questi ragazzi come fanno. E’ solo una parte di verità. L’ altra parte è, come si dice, culturale: vivere in casa a 25 e 30 anni è più comodo, consente di tenere il certo e scartare l’ incerto, evita rischi e responsabilità. Soprattutto: è possibile, è lecito, non è socialmente censurato. Puoi portare a casa la fidanzata e chiuderti in camera, uscire senza dire dove vai, tornare e aprire il frigorifero per servirti senza limite di quello che qualcun altro ci ha messo dentro pagandolo con soldi non tuoi. Non conosci una coda alle poste, non sai cosa sia una bolletta, ti dimentichi di spegnere la luce perché non sai quanto costa. Puoi «conciliare stili e esigenze di vita da single e di coppia prendendo soltanto gli aspetti più graditi di ciascun modello», dice Roberto Volpi, statistico, che alla “dittatura del figlio” dedica un intero capitolo del suo ultimo libro, La fine della famiglia (Mondadori). «Questo figlio resta in famiglia, se ne nutre in tutti i sensi, la piega ai propri bisogni senza in realtà essere chiamato a dar conto di alcunchè». Perché i genitori glielo lasciano fare? «Perché siamo di fronte ad un’ irresponsabilità non solo tollerata ma certificata: questi figli sono persone alle quali non si chiede di crescere, studiare, lavorare, metter su famiglia, fare la loro vita ed andarsene ma ben più modestamente di non fare troppi danni, di non cacciarsi nei guai, di non drogarsi, di non finire in galera o restare vittime di incidenti, insomma di non dare preoccupazioni ai genitori fino a che non si sentiranno pronti ad uscire di casa». Fino a che non lo vorranno, perché questo dicono le sentenze della Cassazione che obbligano le famiglie al mantenimento del figlio maggiorenne fino a che costui non abbia trovato un’ occupazione che lui stesso ritiene rispondente alle sue aspirazioni: appropriata a suo insindacabile giudizio. Questo dice la giurisprudenza e la legge che condannano i genitori del «figlio maggiorenne e convivente» a pagare i suoi debiti fino al pignoramento dei mobili perché si presume, articolo 513 del codice di procedura civile, che «i beni presenti nell’ abitazione appartengano al debitore fino a prova contraria». La prova contraria prevede un ricorso giudiziario dei genitori contro il figlio. Di solito pagano. Alle due e mezza la porta della cameretta di schiude. Ne escono un uomo coi soli pantaloni dei pigiama e un forte odore di fumo. Christian accenna un saluto e passandosi una mano nei capelli ricci si chiude in bagno. «Suo padre ed io avremmo voluto che andasse all’ università, certo che lo avremmo mantenuto, ma lui ha preferito lavorare. Sa, per avere un po’ di autonomia. Ci sono stati anche dei momenti di crisi con il papà, è stato quando il ragazzo frequentava cattive compagnie, le droghe, eravamo così preoccupati, sparivano i soldi dal portafogli ma io preferivo non dire niente a mio marito perché magari perdeva la calma. Ci sono i piccoli, in casa, non voglio che assistano alle scenate, se posso evito». E la fidanzata? «Anche lei lavora ma guadagna poco, 400 euro. Hanno la stessa età. Non se la sentono di andare a vivere da soli, è presto». A 27 anni, con 1000 euro al mese in due, non se la sentono. D’ altra parte godono, nella casa di lui, «della loro privacy» come dice Anna che è buffo sentir parlare in inglese. Lei alla loro età aveva un figlio di 3 anni e la privacy non sapeva cosa fosse. Giampiero Dalla Zuanna, demografo, insegna Teoria della popolazione all’ Università di Padova. Controlla le cifre, dice che la crisi demografica (1 figlio virgola 2 per ogni donna, una delle percentuali più basse del mondo, ora leggermente in crescita per l’ apporto degli immigrati) non si deve al fatto che «gli italiani non vogliono figli ma che vogliono, per così dire, troppo bene a quelli che hanno». Nel Nord Europa la “protezione” dei figli coincide con lo stimolo della loro autonomia, «da noi c’ è una proiezione sui figli dei genitori che si prolungano in loro, pensano che sia loro compito assicurargli condizioni di vita migliori di quelle di origine». Di dovergli comprare una casa, per esempio, o pagare un affitto. Aspettare che se la sentano. Il danno culturale sul giovane adulto a cui la madre lava e stira le camicie e rifà il letto ogni giorno senza chiedergli, per esempio, almeno un contributo alle spese domestiche come in quasi tutti i paesi d’ Europa è normale fare in età ben più precoce (al compimento della maggiore età in Germania, al ventesimo anno in Spagna) si traduce in «un’ idea sbilanciata di genere». Vuol dire che si mette in moto una deresponsabilizzazione per cui il figlio maschio abituato a questo trattamento si aspetterà poi che la donna un giorno al suo fianco si comporti come sua madre. Che lo svegli la mattina, che gli prepari da mangiare, che lavi e stiri per lui. Un vero spaventosissimo ritorno al passato, ma c’ è di più. Ancora De Zuanna: «La bassa fecondità non dipende dall’ assenza di un figlio, che riguarda solo il 20% delle donne oggi quarantenni, ma dalla carenza di secondi e terzi figli. Gli studi ci dicono che le coppie più propense ad avere secondi e terzi figli sono quelle che hanno un maggiore bilanciamento di genere». E’ ovvio, è un’ esperienza di senso comune: puoi affrontare un impegno più oneroso se hai accanto qualcuno che ti aiuta. I secondi e i terzi figli arrivano più facilmente nelle coppie dove a cucinare, passare lo straccio, preparare la colazione per tutti e a rileggere i compiti sono sia lui che lei, indifferentemente. Non c’ è bisogno di arrivare agli standard di pari opportunità della Catalogna, dove è esentasse l’ acquisto della lavatrice che riconosce le impronte digitali e che non si mette in moto se non sono alternativamente quelle dell’ uomo e della donna. «Basterebbe ricominciare dalla scuola». Certo la scuola, la scuola e la famiglia: dietro ogni persona c’ è una madre che propone un modello. Se è una madre che accudisce il figlio fino a trent’ anni fa un danno – sappiamo ora – anche demografico: mancheranno al conto, fra qualche anno, i secondo e terzogeniti del suo “bambino”. «Però sono ottimista, vedo che nelle ultime generazioni il fenomeno rallenta: escono un po’ prima di casa, e comunque non è detto che l’ autonomia coincida con l’ andare a vivere da soli. In Danimarca escono dalla casa paterna a 20 anni ed hanno comunque il primo figlio a 27», conclude Dalla Zuanna. In quei sette anni, in ogni caso, i danesi intanto si arrangiano. Frequentano la vita. Christian esce dal bagno, sono le tre e mezza, prende il casco e il giubbotto, dice «vado». Sua madre lo guarda amorevole senza chiedergli dove. D’ altra parte è una bella giornata, c’ è il sole. Adesso che è rimasta sola chiede scusa ma «devo andare che è tardi». Non ha ancora fatto la spesa per la cena, fra un’ ora escono i piccoli da scuola. (3 – continua)