Luisa Muraro
Chi ha letto Chiara Zamboni, Pubblici legami d’amore e d’amicizia (il manifesto 22 nov.2005, p. 10) si ricorderà che lei, dopo aver invitato il movimento omosessuale ad essere creativo di nuove forme di vita e di socialità, termina con una domanda: a chi affidiamo il riconoscimento che rende pubbliche queste nuove forme di convivenza e di socialità? Domanda difficile, commenta lei stessa e spiega brevemente perché. Io aggiungo un motivo ulteriore, forse sottinteso da lei. C’è il pericolo di esproprio dei propri desideri e della propria esperienza nel momento in cui si affida la loro interpretazione e realizzazione alla politica, intendo quella dei politici di professione, compresi i porta parola e rappresentanti vari, compresi i cosiddetti esperti e gli autori di libri di inchiesta, compresi i mezzi di comunicazione che si incaricano di rappresentare e di “portaparolare”. È come un grande dispositivo che s’impadronisce, a proprio uso e consumo, delle sofferenze che agitano le persone in carne e ossa. La democrazia, lo sappiamo, è sempre più finta, a prescindere dalla buona volontà delle persone.
Sulla strada dei diritti si perde qualcosa e forse si perde, in assoluto. Le donne possono essere equiparate in tutto e per tutto nel diritto agli uomini, la coppia omosessuale può essere equiparata in tutto e per tutto nel diritto a quella eterosessuale. Fatta questa operazione, la differenza diventa spesso una indifferenza, la gente si abitua, compresi gli interessati, con un effetto di entropia, cosa micidiale per la vita del desiderio. Oppure no, non si forma nessun’abitudine e c’è solo una tolleranza esteriore, nel qual caso la differenza negata entra nel reale che non riceve mediazioni, e cova per venir fuori come disprezzo, odio, risentimento, ecc.
Perché questi esiti deteriori? Seguendo il testo di Simone Weil da cui abbiamo tratto il “non credere di avere dei diritti” (Quaderni II, p. 41), la ragione è questa, che non possiamo legittimamente aspettarci che le cose avvengano secondo giustizia, così lei si esprime. E completa il suo pensiero affermando che “Bisogna essere riconoscenti se si viene trattati con giustizia”, un’idea così in contrasto con la mentalità dominante che bisogna fermarsi a pensarci, per coglierne il profondo significato.
Dunque, se la realtà è “ingiusta” nel senso che noi stessi, ammettiamolo, siamo spontaneamente ingiusti, credere di “raddrizzarla” con il diritto è una forzatura, aspettarsi che sia giusta, un (auto)inganno.
La Weil si sofferma sull’ipotesi di poter imporre a tutti il comportamento che fa uscire me e altre/i che sono nella mia situazione, dall’ingiustizia patita. Forse aveva in mente il comunismo e la sua lotta titanica, allora non ancora perduta, per eliminare l’ingiustizia sociale. Ma l’idea può estendersi anche all’ipotesi, oggi largamente ammessa, teorizzata e praticata, di una politica dei diritti. Si tratta, comunque, di affidare all’ordine della legge quello che rientra piuttosto nell’ordine della “gratitudine”, per usare la sua parola. Che cosa? Per fare qualche esempio: la possibilità di stare accanto alla persona amata che ha bisogno di assistenza, il bisogno di vedere comunemente rispettata la propria scelta sessuale, il desiderio di vivere insieme a bambini piccoli che crescono, l’aspirazione a consacrare la propria persona al servizio liturgico (che la Chiesa cattolica, come noto, non intende riconoscere alle donne e agli uomini omosessuali), ecc.
La Weil sembra dubitare che sia desiderabile prendere questa strada. Potrebbe comportare “conseguenze pericolose”, scrive e possiamo intuire quello che pensa. Si sa che la coercizione sociale che oltrepassa certi limiti, provoca un rigetto. Mi si potrebbe obiettare che i diritti degli omosessuali non obbligano all’omosessualità, ecc. No, certo, ma si può reagire malamente all’obbligo sociale di convivenza civile con omosessuali o, in seconda istanza, al giudizio negativo sulla propria intolleranza. E poi non c’è solo la coercizione sociale, c’è anche l’invasione delle cose “giuste” pensate e decise da altri, dall’alto, che intasano ogni spazio di libera emozione pensante, non so come dire. Secondo il filosofo Baudrillard, sarebbe questo che ha portato i francesi a rispondere NO al referendum sull’Europa.
Weil parla anche di “un cattivo modo di credere di non avere dei diritti”. Questa è l’altra faccia del suo pensiero. Se non sono trattata con giustizia, questo rispecchia la realtà di questo mondo, ma non significa che io allora debba rinunciare alla mia giusta esigenza di esistere e di contare. O, peggio, pensare che non sia giusta.
Qui si affaccia un’altra questione, sul come lottare contro l’esclusione senza ridursi alla mera richiesta di inclusione. Si tratta del credito da dare ai propri desideri e bisogni: su che cosa lo baso? Come lo misuro? Come lo sostengo nei confronti di chi mi tratta ingiustamente? Come lo difendo nei confronti di chi pretende di rappresentarmi? Ricordate la domanda difficile di Chiara Zamboni. Chi o che cosa risponderà alla mia giusta esigenza di riconoscimento, senza espropriarmi della mia esperienza e dei miei desideri? Senza assimilarmi a sé? Senza cancellarmi nell’insignificanza? Sappiamo che alcuni hanno risposto: ti risponderà la storia, intesa come progresso, come politica, come partito, come provvidenza, ecc. altri invece hanno avanzato la necessità di allargare l’orizzonte ad una visione utopica, altri ancora hanno parlato di Dio, della sua legge, della sua provvidenza, ecc., risposte che s’intrecciano variamente nella storia del pensiero.
Anche la politica dei diritti può essere vista come una risposta a questo problema, anzi, forse, la risposta che oggi va per la maggiore. Questa risposta gode di un favore che in parte è abusato. Molte e molti, infatti, che la condividono, sembrano ignorare o trascurano di pensare che i diritti comportano necessariamente un carico di doveri. I famosi Pacs sono dei contratti e comportano vincoli e obblighi che potrebbero diventare pesanti o addirittura insopportabili per l’una o l’altra delle due parti. Vero è che noi godiamo di molti diritti che sembrano senza controparte. Se però andiamo a guardare bene, ci accorgiamo che il loro rovescio non ricade su di noi ma su persone terze. Più privilegi che diritti, insomma. Impossibile trovare qui la giusta misura di quello che desidero essere e avere.
Il problema per me resta irrisolto e si congiunge, nella mia testa, con tutto il tema del passaggio dall’ordine dei rapporti di forza all’ordine della gratitudine, per usare una parola già usata qui, dove tu entri perché qualcuno (una infermiera…) ti fa entrare, passi perché qualcuno, un abitante del luogo, ti fa passare…