Ida Dominijanni
Dovendo scegliere fra la figlia morta e il marito che l’ha massacrata, Bushra Begum sceglie il marito. Lo denuncia ai carabinieri ma lo giustifica: è vero, ha ammazzato Hina, ma è un uomo buono, non è un violento, non le aveva mai torto un capello; era lei che “non si comportava bene, andava in giro, fumava”, era lei che s’inventava tutte quelle balle sulle botte, il taglierino, le molestie del padre. Quanto alla madre, mai avrebbe sospettato, partendo per il Pakistan, che sarebbe andata a finire così: che Hina fosse morta, e come, l’ha saputo – potenza del tam-tam – da una vicina a sua volta informata da una parente che vive a Brescia, e poi l’ha verificato – potenza della tecnologia – su Internet. Di tutto il suo racconto assurdo e cinico, parrà strano, è il particolare che mi ha colpito di più: vero o inventato che sia, rende l’idea di queste vite sospese tra comunità e mondo, locale e globale, arcaismi e modernità, in un disequilibrio in cui la legge sembra fuoricampo, in scacco e inappellabile.
La deposizione di Bushra completa il quadretto familiare della tragedia di Brescia (appaiata nel frattempo da quella di Elena Lonati strangolata dal sacrestano cingalese) e dà ragione a quante e quanti hanno, anzi abbiamo, puntato l’indice contro la sua matrice patriarcale, a contrasto con quanti lo puntavano piuttosto contro una presunta matrice “islamica”. Quale conferma migliore di una madre complice e autorizzatrice del marito assassino della figlia, per fotografare lo stampo patriarcale della vicenda? Le comunità islamiche italiane, dal canto loro (ma attenzione, sono le stesse che militano per l’equazione nazisti-israeliani, e dunque c’è poco, pochissimo da fidarsi), hanno condannato l’omicidio di Hina sostenendo che nessuna regola sharaitica può essere invocata come attenuante del padre, stante che “nel quadro giuridico e culturale musulmano la relazione della ragazza con il fidanzato italiano è considerata una grave colpa di fronte a Dio ma nessuna scuola di diritto islamico ha mai concesso agli uomini di fare giustizia con le proprie mani”. Non un delitto islamico dunque ma un delitto patriarcale. Che invece di autorizzarci a inchiodare l’alterità islamica con un giudizio razzista, dovrebbe spingerci ad affiancare nella condanna il massacro di Hina ai massacri di donne, anch’essi di impronta patriarcale, che quotidianamente insanguinano le pagine di cronaca nera della provincia (cattolica) italiana: io stessa, in Politica o quasi di martedì scorso, avevo rivolto questo invito.
Che è un invito, però, non a derubricare l’assassinio di Hina, ma viceversa a drammatizzare quelli nostrani che la cronaca gonfia e sgonfia nel giro di ventiquattr’ore. L’accentuazione della matrice patriarcale del caso-Hina suona invece, troppo spesso e da parte maschile, come una levata di scudi a difesa della comunità islamica, cui nulla consegue quanto ad analisi e condanne della violenza specifica di uomini su donne che sta (ri)prendendo piede nelle nostre società democratiche, laiche, libere e post-femministe. Ma il patriarcato non è una fatalità senza tempo e senza storia: è una struttura socio-simbolica, che si innesta su altre strutture sociali e culturali (islam compreso), e i cui destini dipendono dalle relazioni e dai conflitti fra donne, fra donne e uomini, nonché fra uomini. Nella sua inchiesta sulle pakistane in Val Trompia di giovedì scorso, Manuela Cartosio metteva bene in luce come la condizione delle giovani pakistane immigrate, anche in casi non estremi come quello di Hina, sia afflitta da cattivi rapporti fra madri e figlie e dalla mancanza di socializzazione e comunicazione fra donne: ed è certo su questo nodo che in primo luogo bisogna incidere per cambiare lo stato delle cose. Ma il secondo passo deve essere l’apertura di un conflitto maschile contro i comportamenti violenti maschili: nelle comunità immigrate e nella società italiana e trasversalmente fra le une e l’altra. Diversamente, la denuncia del patriarcato altrui non servirà a sottrarre le donne al ruolo di posta in gioco fra uomini che militano per lo “scontro di civiltà” ma anche fra quelli che militano per evitarlo.