Elena Del Drago
“Autosabotage”, tre spari alla tempia intervallati dalla lettura di un testo. Tania Bruguera rilancia la sua provocazione di una ricerca politica annunciando il progetto di fondare un partito. “Mi interessa creare opere che abbiano un valore al di là del solo ambito estetico. In questo caso volevo racchiudere in un’azione il mio pensiero, ho pensato alla roulette russa”
Una pistola puntata alla tempia per tre volte durante una conferenza, tre spari intervallati dalla lettura di un testo preciso, lucido, politico. Invitata da Jota Castro all’interno del Fear Society, Pabellon de la Urgencia, di gran lunga uno dei più interessanti della Biennale veneziana (che fino a novembre presenterà diverse azioni di grande attualità in questa Italia della paura), Tania Bruguera, artista cubana che già in altre occasioni aveva mostrato al mondo la radicalità della sua arte, non ha deluso il pubblico attento intervenuto per l’occasione. Anzi, lo ha letteralmente terrorizzato, atterrito, mettendolo di fronte alla propria passività: nel caso in cui la sorte avesse previsto una pallottola per Tania Bruguera gli spettatori sarebbero stati responsabili nel migliore dei casi, (per l’amore dell’arte?) del ferimento di una donna.
La performance è molto forte da un punto di vista emotivo quindi lei la considererà riuscita. Ma spero che questa sia l’ultima volta che si sottopone ad un tale rischio.
Si, certamente. Ho eseguito la stessa performance a Parigi, lo scorso marzo, in occasione di un seminario al Jeu de Paume, però questa volta ho promesso: non ce ne sarà un’altra. Credo comunque che ne sia valsa la pena. La prima volta, a Parigi, avevo davanti a me un pubblico molto ristretto, così quando Jota Castro mi ha invitata ad intervenire in questo padiglione mi sono chiesta quale progetto potesse rispondere adeguatamente ad un evento come la Biennale, alla quale ho già presentato dei lavori due volte.
Effettivamente questa è la sua terza partecipazione alla Biennale di Venezia, dopo la magnifica installazione del 2003 che immergeva lo spettatore nel profumo del tè per parlargli di colonizzazione.
Nelle occasioni precedenti ho vissuto esperienze molto belle ed interessanti, ma ho anche avuto l’impressione che i lavori venissero visti fuori dal loro contesto. In questo caso, invece, volevo che il pubblico si fermasse a riflettere seriamente sul significato della nostra arte. Così mi è venuto in mente di riproporre questa performance che indaga su quanto deve fare un’artista che si voglia oggi definire politico.
La performance si intitola “Autosabotage”. Quali sono le regole etiche ed artistiche che dovrebbe seguire un autore impegnato?
Non uccidersi! Ma piuttosto portare alle estreme conseguenze le proprie scelte.
Ci sono, a suo parere, degli artisti che con intenti sociali perseguono la loro ricerca in modo così rigoroso come la sua performance suggerisce?
Ne sono convinta. Non voglio fare nomi ma conosco molti artisti che sviluppano le proprie idee senza compromessi, e ne pagano le conseguenze. Naturalmente non credo che ci sia un unico modo di costruire un discorso politico, ognuno può trovare il proprio. L’arte offre possibilità eterogenee, personalmente sono interessata solo all’esperienza reale, a quanto riguarda la realtà, a un tipo di lavoro che sia efficace anche al di là dell’ambito estetico. Un’opera insomma che interagisca con il pubblico non in modo statico, ma che faccia riflettere, creando delle situazioni.
L’idea del padiglione mi sembra adatta in rapporto alla sensazione di panico che pervade il nostro presente.
Credo però che questa diffusa sensazione di paura ce la stiamo lasciando alle spalle. Almeno nelle forme che hanno dominato l’era Bush di guerre e rifiuto del dialogo. Oggi prevale una tipologia di paura differente: abbiamo l’angoscia economica e il panico utilizzato dai governi per controllare le masse secondo una tecnica antica ma mai dismessa. Il problema è comprendere come la gente possa imparare a non essere spaventata.
È vero che sta progettando di fondare un nuovo partito politico?
Si, a Parigi, un partito per gli immigrati. In questo modo il mio lavoro artistico sarà davvero calato nella realtà. Perché agirà non solo sul piano simbolico, cercando di far pensare le persone, ma prenderà anche provvedimenti reali.
Insomma si vuole trasformare anche lei in un politico…
Spero di no, non mi piacciono molto. D’altra parte utilizzo gli strumenti della politica e del potere per il mio lavoro da tempo, come in questa performance, che credo sia riuscita anche da un punto di vista estetico: sa immobilizzare, scuotere, sedurre la gente.
Quanto è importante in questa performance il rapporto col pubblico e quanto invece è uno sforzo intimo?
Devo confessare che in questo caso è stato soprattutto un gesto egoista. Volevo racchiudere in un’azione ciò che penso. Se dico alle persone di farsi carico completamente delle proprie idee, devo farlo anche io, in prima persona. E per mostrarlo non potevo che scegliere un’azione, sono una performing artist e questo è il mio modo di comunicare. Poi mi sono chiesta qual è il gesto definitivo per un essere umano e mi è venuta l’idea della roulette russa.
Ma non le è sembrata eccessiva come scelta?
Si, soprattutto oggi che l’ho messa in atto. Nei giorni scorsi avevo fatto delle prove, puntato la pistola in aria, e quando la stavo per dirigere verso la mia tempia mi sono chiesta: “Ma perché sto facendo tutto questo”?