Dino Leon
Vedo che qualcuna obietta che il linguaggio della differenza è difficile e qualcun’altra: perché dovremmo rifiutare i finanziamenti europei? Il linguaggio è difficile perché nuovo, ma ne vale la pena, è illuminante e supremamente convincente per chi ha la pazienza e l’interesse di approfondire. Per quanto riguarda i finanziamenti europei, dico di sì, per le ragioni che risulteranno chiare alla fine di questo scritto.
Come la giustizia è l’utile del più forte, così il potere è un altro nome della violenza (Walter Benjamin). Io metterei come orizzonte della verbalizzazione del potere, non il “potere” sostantivo ma il verbo, come il poter essere. E come il francese “pouvoir partager”, intraducibile in italiano, che io sostituirei con “potere insieme”.
Oggi le donne “possono” e gli uomini hanno sempre meno potere perché la base è stata scalzata. Base è: la soggezione sul piano psicoculturale, e la violenza su quello materiale.
È chiaro per me che gli uomini “possono” al pari delle donne, ma non possono più rifiutarsi di atteggiarsi passivamente ignorando che la loro (reale) debolezza non solo è gradita alle donne (questa è la vera parità) ma è indispensabile al rapporto nella differenza. Il che significa che il “potere” sostantivo è finito.
Oggi per me il rifiuto del femminile si configura come ripugnanza del maschio ad atteggiarsi passivamente nei confronti dei suoi simili femminile. La ripugnanza origina nell’inconscio maschile e riguarda la sorte riservata ai vinti (alle donne vinte). Siccome le donne (almeno nel pensiero della differenza) non si tengono per vinte, i sessi non possono più ripugnarsi vicendevolmente. Eliminata la ripugnanza tra i sessi, le radici inconsce del potere si inaridiscono.
La residue paura femminile del conflitto coi maschi (VD 52/53) sul lavoro e non solo, anche nella coppia, maschi che esercitano le loro prerogative, non deve sorprendere, ma non appartiene più al presente.
Le donne hanno sempre avuto la loro cultura. Vorrei partire dall’Ordine simbolico della madre di Luisa (Editori Riuniti, Roma 1991: dieci anni fa!) nonché dal lavoro femminile, studiato da Lia e da altre con il di più relazionalem in interazione con un ambiente vecchio, costrittivo, gerarchico e manipolatore (vedi VD 52/53 e Daniel Cohen, I nostri tempi moderni, Einaudi, Torino 2001).
L’ordine simbolico materno si sa che cos’è e ne dirò subito. Il lavoro delle donne è femminile (e non maschile, anche se lo è stato e per molte ancora lo è), perché simbolicamente rivolto dalle donne a sé stesse. I “nuovi territori” (Lia) del lavoro femminile sono territori simbolici non riducibili al regno del lavoro maschile e Lia insiste proprio sul lavoro perché sa che il lavoro, come continua ad essere oggi, non serve per vivere: ciò che fa del lavoro, lavoro per vivere è il di più relazionale, insieme a molte altre cose femminili. Ma non ci siamo ancora, e perciò la lotta di donne nel lavoro.
Vengo al dibattito su Via Dogana, ai punti che mi hanno più interessato, scusandomi per lo schematismo.
Luisa – mi sembra – oscilla fra l’altro come “dio” e l’altro come “altra”. E decide: “il dio delle donne” (VD 48). Dio è “altro” da cui si passa poi all'”altro mondo”; la composizione dei due termini dà “donne dell’altro mondo” (VD 50/51). Chiara (Zamboni) rinomina Dio parlando di Etty Hillesum (VD 48) ed ecco introdotto il “Dio personale” (e il dissenso con Etty è chiaramente espresso).
Luisa insiste. “Dio è un nome che si può dare alla mancata corrispondenza del tutto col tutto, dell’essere coll’essere”. In altre parole, si riscopre il Tsim-Tsum cabalistico, dio che si ritira per lasciare posto alla creazione, qui del femminile): Sicché ben presto abbiamo che “Molte cose… che vengono praticate come discriminazione antifemminile, nascondono::: intraducibilità del desiderio femminile nei termini praticabili in questo mondo”. Si salva in questo pensiero solo la rete degli affetti, che io vedo come una specie di scala di Giacobbe per l’uomo che sale e la donna che scende (e viceversa).
Insomma (sempre Luisa), “Se le donne non hanno potenza simbolica sufficiente per crearsi un altro mondo in cui stare”, tanto varrebbe cercare l’inclusione nel mondo maschile, nel quale beninteso per non starci la potenza simbolica c’è.
Difficile da accettare, ma rivelatore: c’era bisogno di questo pensiero. Dopo la cacciata dal paradiso terrestre, era giusto – perché inevitabile – che il patriarcato vincesse. Le due posizioni – questo mondo, altro mondo – sono state sempre naturalmente presenti nell’inconscio femminile. Ma ora c’è la potenza dell’ordine simbolico della madre. Vediamo. Ogni cultura può considerarsi come un insieme di sistemi simbolici (Lévi-Strauss): linguaggio, regole matrimoniali, lavoro e rapporti economico-patrimoniali, scienze e religione. Tutto questo, s’intende, rappresentato nell’ordine simbolico del padre che lo struttura secondo la sua legge (Lacan). Tutti i contenuti dei sistemi simbolici, ossia le istituzioni, sono fissati da chi ha il potere. In tutti i sistemi, salvo che in un uno, il linguaggio. Ma l’inconscio si struttura come un linguaggio (Lacan). Abbiamo dunque un inconscio femminile (senza arrivare a dire che tutto l’inconscio è simbolicamente femminile) e così anche un linguaggio femminile irriducibile (il pensiero della differenza). E quindi una cultura femminile: è l’ordine simbolico della madre che nasce dall’inconscio femminile e col suo linguaggio fa cultura.
È dunque superata o in via di superamento la spartizione, ben presente nel mito maschile, fra civiltà e cultura come maschili, natura e vita come femminili (Neumann). Lo stesso vale per i contenuti: i sistemi simbolici hanno ormai contenuti sia maschili sia femminili. Sono, quelli femminili, sotto gli occhi di tutti. Per i distratti elenco: l’autorità materna, le tracce inconsce dell’ordine matriarcale, la facilità di accedere ai lavori creativi maschili da parte di donne (mai visto niente di simile nei rapporti fra classi sociali, che sono un’istituzione tipicamente maschile), la schiacciante superiorità nei lavori scolastici, ecc. La parole è materna, la langue è materna. E non finirei più. Ci vuole un niente per far riaffiorare tutto ciò alla coscienza (femminile).
Secondo me, questo è l'”altro mondo”. Non è necessario sottomettersi al potere del fallo. I sessi sono due. Potenza dell’entrare e potenza del ricevere non sono potere sostantivo, sono poter insieme. E la potenza simbolica per non stare nell’ordine simbolico del padre è quella stessa che fa stare Lia e Luisa (Thelma e Louise) nell’ordine simbolico della madre. E se, accanto al Dio monoteista, legislatore fallito, si dà importanza alla vita spirituale mistica e interiore, e al Sé (Etty Hillesum), a cosa ci serve un altro mondo? Non siamo già sempre liberi/e?
Al desiderio incommensurabile femminile di assoluto (VD 54) corrisponde il desiderio perfettamente misurabile maschile in termini di potere sostantivo. Caduto quest’ultimo, anche il desiderio maschile diventa incommensurabile al potere, ma misurabile al/dal desiderio dell’altro/a.
Il pensiero della differenza fa da contenitore e metro femminile del tempo che scorre e gli dà senso. Secondo me, fa da contenitore perfino al simbolico della parità, dell’eguaglianza, della rappresentanza che acquista un senso meno volgare se diventa la scena di una rappresentanza sessuata. Si tratta, è vero, di concessioni politiche maschili, ma simbolicamente è una sorta di Tsim-Tsum paterno.
La condizione perché questo sia realtà è “poter insieme”. L’ordine simbolico del padre non ha da mettere radici nei territori simbolici del femminile. Ed è l’ordine simbolico della madre che mette radici. Prendiamo la pena di morte, istituzione tipica del maschile inteso come assoluto. Nessuno ormai negherebbe il rispetto dovuto al ventre che ha generato il “mostro”. Rispetto della vita è ordine simbolico della madre. La Bibbia ormai si legge come un libro dell’avventura umana al pari dell’Odissea. Anche questo leggere laico è ordine simbolico della madre. I sessi sono due. I sistemi simbolici sono due, di questo mondo. E per fortuna e per natura sono in conflitto, che si ricompone (quando può) nel rapporto duale, quello della reciproca differenza, con i corpi vicini.