di Katrin Kuntz
L’estate scorsa, mentre i taliban avanzavano verso Kabul, una giovane politica afgana ha organizzato una protesta davanti al ministero della difesa. È scesa in strada con un cartello di cartone su cui aveva scritto un messaggio rivolto agli abitanti delle province che stavano capitolando una dopo l’altra: “Siate forti”. Shagufa Noorzai, 29 anni, a quel tempo era una delle parlamentari più giovani dell’Afghanistan. Di lì a poco Noorzai ha dovuto lasciare Kabul per fuggire dai taliban. Per dieci giorni si è nascosta in casa di amici, poi è rimasta chiusa nel suo appartamento per un mese. I taliban l’hanno cercata e l’hanno quasi catturata. Una mattina, quando suo padre ha aperto la porta di casa, l’hanno picchiato e hanno rubato la macchina blindata di servizio usata ogni giorno dal suo autista per portarla al parlamento, che da quando i taliban hanno ripreso il potere non si è più riunito. Noorzai ha perso il suo ufficio, il lavoro e quindi il reddito, e infine anche il suo paese. Ormai vive ad Atene, in Grecia, ed è qui che ci racconta la sua storia.
Una mattina di poco tempo fa, Noorzai e altre politiche afgane hanno attraversato i sobborghi della capitale greca a bordo di un minibus. Due ore dopo, il veicolo si è fermato in una strada stretta vicino alla centralissima piazza Omonia. Le donne sono scese. Noorzai indossava un coloratissimo soprabito ricamato, un foulard e tacchi alti. Era arrivata al nuovo posto di lavoro: la sede della Rete delle parlamentari afgane. Il suo compito ora è far sentire la sua voce affinché certe cose non siano dimenticate. È entrata nell’edificio dove ha sede il parlamento afgano in esilio e si è diretta al secondo piano, dove un’organizzazione umanitaria greca, la rete Melissa, ha messo a disposizione uno spazio. Con lei c’erano più di venti donne che fino a poco tempo fa avevano un seggio nel parlamento di Kabul. Chiacchieravano in un’atmosfera rilassata.
C’erano donne giovani e meno giovani, alcune provenienti da famiglie politicamente in vista, altre rappresentavano le minoranze presenti in Afghanistan. Erano lì per discutere come responsabilizzare e dar voce da lontano alle loro connazionali. Sanno bene che in Afghanistan la libertà delle donne è sempre più limitata. E non hanno nessuna intenzione di arrendersi.
Un luogo centrale
Per le parlamentari che hanno dovuto lasciare Kabul, Atene è diventata un luogo importante e centrale. Fino a quando i taliban hanno preso il potere nell’agosto 2021, tra camera bassa e senato le donne occupavano 69 seggi. Circa un quarto di loro oggi vive in Grecia. La Bbc ne ha rintracciate altre nove che sono rimaste in Afghanistan ma vivono nascoste. Le altre sono andate in Albania o in Turchia. Di solito, quando scappano dal loro paese, queste parlamentari rimangono ad Atene solo qualche mese, prima di ottenere nuovi visti e proseguire alla volta degli Stati Uniti, del Canada o del Regno Unito.
È sorprendente, però, che tra tanti posti siano finite proprio qui. In fondo la Grecia sembra fare il possibile per tenere fuori i profughi: per le strade si vedono spesso senzatetto provenienti dalla Siria, e quanto agli afgani, quando tentano di entrare via mare dalla Turchia, è noto che la guardia costiera greca spinge molti dei loro gommoni in acque internazionali. A causa di quei respingimenti, che violano il diritto internazionale, il governo di Atene è stato criticato da vari paesi. Tuttavia, ha accettato di accogliere le deputate afgane. In Grecia c’è perfino chi sospetta che il governo le voglia usare come paravento. Al tempo stesso, varie organizzazioni greche si sono attivate per mettere in salvo le attiviste dopo caduta di Kabul. Tra loro c’è la rete Melissa, che ha stilato un elenco di 150 afgane influenti e le ha aiutate a lasciare il paese. È così che la maggioranza è arrivata ad Atene insieme ai familiari: in tutto, circa ottocento persone.
Nell’ufficio della direttrice della rete Melissa, Noorzai, che ha fondato il parlamento in esilio insieme alla collega Nazifa Bek, racconta la sua storia. In modo fermo ma gentile, indica alle partecipanti dove sedersi. All’inizio ignora l’interprete. Ha la sicurezza di una donna che, in una società patriarcale, è riuscita ad arrivare molto in alto. «Vengo da una famiglia in cui gli ostacoli erano molti», racconta Noorzai: una famiglia pashtun dell’Helmand, una provincia molto conservatrice. I suoi genitori erano dipendenti pubblici: la madre lavorava a scuola, il padre nel settore agricolo. Entrambi l’hanno sostenuta mentre si faceva strada in politica, ricorda, «il problema erano i miei fratelli e sorelle, e i parenti». Quand’era più giovane Noorzai si è sentita spesso ripetere: «Non uscire così tardi», «Smetti di studiare e sposati! », «Questo le donne non possono farlo». Una volta, uno dei fratelli le ha addirittura offerto dei soldi perché abbandonasse gli studi. «Io però ho continuato a cercare di migliorare», racconta. Fin da bambina le piaceva leggere.
Dopo il diploma, ha seguito un corso da infermiera e accettato un lavoro con Medici senza frontiere. Si è iscritta a giurisprudenza e dal 2015 ha fatto la coordinatrice provinciale di un’organizzazione umanitaria locale attiva nella promozione dei diritti delle donne. Tra i suoi compiti rientrava l’organizzazione di laboratori per incoraggiare le donne ad avviare attività imprenditoriali a casa. Noorzai ha anche partecipato come osservatrice a processi contro uomini accusati di crimini contro le donne; è andata a parlare con giornalisti che raccontavano di quei reati da una prospettiva puramente maschile; ha anche discusso con mullah favorevoli al matrimonio forzato. «Il mio orizzonte si è allargato sempre più», dice, «e la mia rabbia è cresciuta».
Nell’Helmand Noorzai è diventata una celebrità, derisa e rispettata al tempo stesso. Qualcuno ha chiesto a suo padre se giudicasse la figlia adatta a rappresentare la provincia al parlamento nazionale. Ricorda di aver detto: «Non sono sicura». E il padre le ha risposto: «Almeno provaci». È cominciata allora quella che lei definisce «l’esperienza più forte della mia vita». Durante la campagna elettorale, tra le altre cose un attentatore suicida ha provato a farsi saltare in aria davanti a casa sua e un funzionario dell’ufficio elettorale le ha fatto capire che per assicurarsi più voti bastava passare due notti con lui, oppure dargli una bella somma di denaro. «Io però», dice Noorzai mentre gli occhi le si gonfiano di lacrime, «ce l’ho fatta senza mafia, senza soldi e senza diventare una vittima degli uomini».
La notte delle elezioni, per motivi di sicurezza, ha mandato la sua famiglia a casa di alcuni parenti. E così, nell’estate del 2018, a 26 anni, ha occupato il suo seggio nel parlamento di Kabul. In Afghanistan quell’evento ha fatto scalpore. Il suo ex ufficio è ancora visibile nelle foto su Facebook: sulla pesante scrivania di legno con decorazioni dorate spiccano pile di libri, un vaso di fiori e un computer portatile. Nelle foto Noorzai porta un foulard verde e rivolge alla camera uno sguardo disteso. All’epoca, ricorda, aveva tre segretarie e una guardia del corpo, per via delle minacce ricevute. «Nonostante questo», racconta, «ogni giorno ricevevo visitatori e mi occupavo dei loro problemi».
Conquiste vanificate
Ad Atene è venuta a trovare le politiche afgane in esilio una parlamentare europea, la tedesca Hannah Neumann, vicepresidente della sottocommissione diritti umani. Neumann si rivolge a loro da collega: «Questo è un parlamento eletto, dunque loro sono legislatrici a pieno titolo». Quando l’Unione europea discute di aiuti umanitari, dice Neumann, dovrebbe parlare con loro almeno tanto quanto con i taliban. Lei è venuta a sentire in che modo le parlamentari afghane ritengono che l’Europa dovrebbe comportarsi nei confronti del governo guidato dai taliban.
La prima a prendere la parola è Amena Afzali, ex ministra del lavoro nel governo di Hamid Karzai. Quando ha lasciato l’Afghanistan era senatrice: «Non so se parlare del paese al passato o al presente”, dice. «Eravamo un paese di persone molto istruite, di poeti, di scienziate, di menti geniali. I taliban hanno vanificato tutte le nostre conquiste». Per giunta, osserva, il paese ha enormi problemi economici, a cominciare dalla minaccia della carestia. «Vogliamo parlare anche per chi è rimasto in Afghanistan e soffre». Poi si fa avanti Malalai Ishaqzai, vestita completamente di bianco, e comincia un’accesa discussione sostenendo che l’occidente dovrebbe revocare le sanzioni contro l’Afghanistan affinché il governo possa ricominciare a pagare lo stipendio a medici e insegnanti. Invece Aziza Jalis sostiene la necessità di accelerare le evacuazioni: «Tutte quante abbiamo parenti rimasti in Afghanistan che non riescono a ottenere i documenti per partire», dice. A quelle parole una di loro, che è dovuta andar via senza la figlia, ancora priva delle carte necessarie, esce dalla sala in lacrime. A questo punto si alza Noorzai. «Chi di noi è qui in esilio», dice, «deve alzare la voce e protestare, perché serve a proteggere le donne rimaste in Afghanistan. Se il mondo tiene gli occhi puntati sulle afgane, i taliban non oseranno ucciderle».
La discussione dura due ore. Le donne parlano a voce alta, ogni tanto piangono insieme, finché una si alza in piedi con fare deciso e dichiara che le deputate sanno di non avere più potere ma i loro gesti, il loro modo di fare dimostrano che hanno fiducia in sé stesse. Hanno ancora reti solide: conoscono ambasciatori, organizzazioni umanitarie e hanno contatti con i governi. Certo, le addolora sentirsi così impotenti di fronte al disastro umanitario del loro paese. Giudicano un tradimento il ritiro delle potenze occidentali che le proteggevano. Una delle partecipanti riassume così la situazione: «Da una parte non ci ascoltano e dall’altra ci fanno fuori». In altre parole, l’Unione europea non sta facendo abbastanza per l’Afghanistan e intanto, nel paese, i taliban mettono a tacere le donne.
Al termine della riunione Noorzai si mette alla guida e ci conduce a Glyfada, il sobborgo di Atene dove le organizzazioni umanitarie le hanno messo a disposizione l’appartamento in cui abita insieme alla madre, alla sorella e a uno dei fratelli. Lungo il tragitto ci mostra al telefono alcune vecchie foto che la ritraggono – unica donna circondata da uomini – nel suo ufficio, mentre prende parte a ricevimenti ufficiali ma anche a manifestazioni di protesta di fronte al ministero della difesa. A quel tempo, per la sua campagna contro l’avanzata dei taliban, aveva scelto questo slogan: «La mia natura non accetta il silenzio».
È ormai sera quando Noorzai arriva a Glyfada. È il momento di uscire per la passeggiata quotidiana, tra negozi di lusso e ristoranti di sushi. Noorzai è giovane e sta cominciando una nuova vita. Ha chiesto un visto per il Canada, dove ha intenzione di frequentare l’università e forse aprire un sito dove vendere abiti tradizionali afgani. «Guardo avanti», dice. Ma il suo sguardo rimarrà per sempre rivolto anche al passato.
(Internazionale, 8 aprile 2022)