di Emanuela Grigliè
Le città non sono neutre, anzi. Vengono plasmate per i bisogni di un cittadino tipo che però coincide quasi sempre con il maschio bianco eterosessuale di una certa età. Con la conseguenza che le necessità delle donne non vengono quasi mai prese in considerazione. Per esempio i bagni pubblici: pochini, ecco perché spesso le ragazzine una volta che hanno il ciclo smettono di frequentare i parchi. Anche lasciare le aree gioco senza strutture penalizza le bambine: i maschi tendono a essere più invadenti e trasformare ogni prato in un campo da calcio, spingendole ai margini. I mezzi di trasporto non sempre sono pensati per chi si trascina in giro un passeggino, a cominciare dagli “individualisti” monopattini e bike sharing. Marciapiedi sconnessi, strade poco illuminate, porte di uffici pubblici che pesano tonnellate.
La non considerazione delle donne nella pianificazione degli spazi urbani non è casuale, ma ripropone una struttura della società che si fonda sulla reclusione del femminile nell’ambiente domestico. E non tiene conto del fatto che le donne svolgono il 75% del lavoro non pagato di caregiving, assistendo bambini e genitori anziani con il risultato che il loro modo di navigare le città è molto differente – e molto meno lineare – di quello maschile. I loro viaggi sono a zig-zag, con tante tappe intermedie. Senza dimenticare che le donne in media guadagnano meno degli uomini e quindi per loro spostarsi con mezzi privati può essere proibitivo.
Ma progettare in modo più inclusivo si potrebbe, l’antidoto si chiama urbanistica di genere. «Ovvero includere la prospettiva femminile all’interno della progettazione. Non tanto per costruire città solo a misura di donna, ma inclusive per tutte e tutti», spiega Azzurra Muzzonigro, architetta, che insieme a Florencia Andreola, dottora di ricerca in Storia dell’architettura all’Università di Bologna, è autrice di Milano Atlante di Genere commissionato da Milano Urban Center (Comune di Milano e Triennale Milano), esito di due anni di osservazione della città di Milano da una prospettiva di genere.
La loro associazione si chiama «Sex and The City» e ha lo scopo di promuovere, attraverso una mappatura critica della città, contesti urbani sensibili più alle differenze che alle standardizzazioni. «Milano se la cava meglio del resto del Paese» dice Muzzonigro, «del resto qui il 50% delle donne lavora e questo significa che lo stereotipo “donna casalinga-uomo in ufficio” è meno applicato. Anche, perché, diciamolo, oggi Milano è economicamente inaccessibile a famiglie con meno di due stipendi. Emerge così una buona distribuzione di tutta una serie di servizi che sono anche abbastanza capillari, anche se dipendono in gran parte dal terzo settore e quindi tendenzialmente volatili. Ottimi esempi sono la rete antiviolenza, gestita dal comune mettendo insieme tanti soggetti diversi tra loro. Un modello decisamente da esportare». Sul fronte trasporti, dalla ricerca emerge che a Milano il 76% delle stazioni della metro ha l’ascensore. Male invece per quel che riguarda i consultori, che stanno sparendo e sono molti meno di quelli previsti per legge, così come gli asili pubblici dove i posti disponibili scarseggiano. Mentre il 50% delle donne intervistate ha dichiarato di sentirsi in pericolo di notte per le strade. Insomma, progressi da fare ce ne sono ancora parecchi.
E l’occhio è rivolto all’esempio delle città europee più virtuose in questo senso: Barcellona, Parigi e Berlino. Ma soprattutto Vienna, incoronata più volte la città più vivibile del mondo grazie anche al
progetto iniziato trent’anni fa per sviluppare quella che sulle rive del Danubio chiamano Fair Shared City, a misura di tutti, dove addirittura dal 1992 esiste l’Ufficio per le Donne, dedicato alla parità di genere e all’empowerment. Il primo progetto coordinato da questo dipartimento fu la Frauen-Werk-Stadt, un blocco di 360 appartamenti di nuova concezione, disegnati da Franziska Ullmann, Elsa
Prochazka, Gisela Podreka e Lieselotte Peretti, quattro architette selezionate attraverso un concorso riservato a sole donne. Motore dell’impresa la volontà di facilitare al massimo la vita quotidiana
delle donne con soluzioni abitative che si adattano alle varie fasi della vita di una famiglia, oltre a servizi e spazi comuni per agevolare la socialità e gli spostamenti a piedi.
C’è anche però chi obbietta che un approccio gender-specific possa consolidare in certi casi le già enormi differenze di genere, identificando la cura domestica come un lavoro da donne. Purtroppo l’architettura da sola non può certo cambiare tutto e portare a una più equa distribuzione dei compiti all’interno della famiglia, ma può sostenere chi se ne occupa rendendolo un po’ meno complicato.
(La Stampa, 4 marzo 2022)