Sono anti-Bush, anti-guerra e poco indulgenti con i democratici che fanno il gioco dei repubblicani. Sono avvocate, pr, consulenti finanziarie, agiate e di sinistra. Sono le “codepink”, il movimento delle donne in rosa che sta scuotendo i palazzi di Washington. Appuntamento il 17 settembre a Capitol Hill
Irene Alison – Washington
Al 712 della Quinta strada a Washington c’è una casa con le tendine rosa. Alla finestra, uno striscione, rosa anche quello, lascia pochi dubbi sulle idee degli inquilini: “Basta scuse. Fuori dall’Iraq adesso!”.
Dietro la facciata di mattoni chiari, un gruppo di donne si sta preparando per un appuntamento importante: magliette rosa, cappellini rosa, rosa pure i boa di struzzo delle più frivole. E il pizzo dei guanti con cui, alti sulla propria testa, terranno i grandi cartelli su cui hanno scritto – nero su rosa – i loro slogan: “Don’t buy Bush’s war” e “Troops home now”.
È tutto pronto, o quasi, per la marcia di protesta che il 17 settembre – due giorni dopo l’atteso report del generale David Petraeus davanti al Congresso Usa sui “progressi” nella guerra in Iraq – le porterà ancora una volta davanti al Campidoglio.
Tra il 712 e i palazzi del potere, infatti, la distanza è breve. E, dal 2002, anno della loro nascita, non è passato giorno senza che le Codepink – movimento pacifista al femminile con base a Washington ma con 250 sottogruppi sparsi in tutti gli States – la percorressero per dimostrare, davanti alla Casa bianca o al Congresso, il loro impegno contro la guerra. Avvocatesse, pr, scrittrici, consulenti politiche: donne che hanno in comune l’ottimo curriculum professionale, una solida fede democratica e una vera ossessione per il rosa, le Codepink sono nate – “quasi per gioco” ricorda Medea Benjamin, avvocato per i diritti civili e co-fondatrice del gruppo – alla vigilia dell’invasione dell’Iraq, con l’intento di “contrastare il delirio securitario di un sistema politico machista e di spostare a sinistra l’asse del dibattito politico”.
Obiettivo non da poco, di fronte ai tamburi di guerra di un sistema mediatico compatto nel sostenere le ragioni dell’aggressione armata ai “nemici” degli Usa e a un governo impegnato a declinare le sfumature della paura in codici colorati. “L’amministrazione Bush si era appena inventata questa assurda gradazione dei livelli di allerta anti-terrorista: il giallo significava calma relativa, l’arancione preoccupazione, il rosso che potevi cominciare a tremare. Noi allora pensammo di rispondere con un “codice rosa”, un codice delle donne per dire che c’è una maniera non violenta per risolvere i conflitti”.
L’incontro-scontro con Rumsfeld
Dalle illuminate chiacchiere da salotto alla militanza attiva, per le Codepink il passo è stato breve. Ma l’impatto non dei più morbidi. “La nostra prima azione fu tentare di infiltrarci in Campidoglio mentre il segretario alla difesa Donald Rumsfeld esponeva le ragioni dell’invasione dell’Iraq. Volevamo porgli alcune semplici domande: è sicuro che non sia il petrolio il vero problema? Ci sa dire quanti civili moriranno in questa guerra? E quanti soldati? Con nostra grande sorpresa, arrivammo a un passo da lui e ci riuscimmo davvero. Ma la polizia ci portò via prima di ottenere una risposta…”. Oltre a una notte in cella, il risultato fu una foto in prima pagina sul Washington post e l’etichetta, appiccicata dai media, di “prime cittadine americane che avevano avuto il coraggio di opporsi al governo dopo l’11 settembre”. Niente male per quello che era cominciato come un gioco tra amiche.
In Italia, contro il Dal Molin
Da allora, in quasi sei anni di battaglie – da quella per l’impeachment di Bush all’ultima, per scongiurare un futuro attacco all’Iran, fino alla recente trasferta italiana per sostenere il comitato “No Dal Molin” nella sua lotta contro la nuova base militare Usa di Vicenza – le Codepink non sono riuscite ad ottenere il ritiro delle truppe dall’Iraq, ma qualche risposta alla fine l’hanno strappata.
Dopo aver bussato invano alle porte di molti senatori, aver trascorso svariati inverni al gelo di Pennsylvania avenue presidiando la Casa bianca ed essere state liquidate dai vari Bush, Condie e Rummie con un’alzata di spalle, le donne in rosa hanno cambiato strategia. “Certo – spiega Benjamin – i nostri avversari restano i repubblicani, ma ci siamo rese conto di avere molta più presa sui democratici: siamo la loro base, non possono dimenticarci. Bush e Cheney potevano voltarsi dall’altra parte, Hillary Clinton e Nancy Pelosi, invece, devono darci ascolto”.
E la dimostrazione sembra venire dal recente cambiamento, in materia di Iraq, della posizione della senatrice Clinton. Una metamorfosi di cui, come ha recentemente sostenuto il New York Times, le Codepink – con la loro campagna “Listen Hillary!” – sarebbero tra le maggiori ispiratrici.
In controtendenza con il voto a sostegno dell’invasione dato nel 2002, Hillary – che nel maggio 2007 ha votato a favore del calendario per il ritiro delle truppe e contro il rifinanziamento della missione in Iraq – ha infatti finalmente espresso, all’inizio di agosto, la sua volontà di porre fine alla guerra “non l’anno prossimo, non il mese prossimo, ma oggi”. Segno che, probabilmente, il pedinamento messo in atto dalle Codepink – che ne hanno seguito con striscioni e picchetti tutto l’itinerario pre-elettorale – ha dato i suoi frutti.
“Hillary resta una conservatrice”
Ma per le attiviste, i conti con la senatrice non sono ancora chiusi. “Le sue ultime dichiarazioni hanno convinto l’opinione pubblica che riporterà i soldati a casa. Ma, per quanto ci riguarda – chiarisce Benjamin – Hillary resta una conservatrice, sotto la sua presidenza l’America continuerà a comportarsi come un impero e probabilmente, centinaia e centinaia di soldati continueranno a restare in Iraq anche molto tempo dopo il suo insediamento. Dovrebbe scusarsi per il suo voto del 2002 come ha fatto John Edwards, ma non credo che lo farà: da donna e da democratica cerca di compensare la sua presunta debolezza dimostrando di essere “dura” su temi come la sicurezza nazionale”.
Lungi dall’abbatterlo, anche le candidate donne sembrano adattarsi alle regole del gioco del “sistema machista”: “Nel nostro paese c’è un ristretto gruppo di persone molto conservatrici che veicolano attraverso i media l’idea che i democratici non siano in grado di provvedere alla sicurezza del paese, spostando l’asse del dibattito politico sempre più a destra. Ormai i democratici hanno più paura di dimostrarsi deboli con i terroristi che dei terroristi stessi. Per questo finiscono col fare dichiarazioni come quelle di Hillary, Obama e Edwards sull’Iran: “in caso di minaccia nessuna opzione è esclusa””.
Più che gli ideali, ad ispirare la campagna elettorale del partito dell’asinello, sarebbero dunque, secondo le Codepink, alcuni incubi ricorrenti. “I candidati democratici sono preoccupatissimi di un nuovo attacco terroristico prima delle elezioni: temono di essere accusati di non essere stati previdenti, di aver fatto morire altri soldati perché non avevano l’equipaggiamento necessario o di aver provocato un ampliamento della crisi in Medioriente ritirando le truppe. Per questo non hanno il coraggio di votare contro la legge per il controllo della corrispondenza o contro il rifinanziamento della guerra”. Una corsa all’inseguimento delle paranoie stimolate nell’elettorato dalla retorica repubblicana della war-on-terror, per la quale i democratici sarebbero disposti anche a lasciare indietro la loro base.
Gli incubi dell’asinello
“Nel nostro sistema chi vince prende tutto. I democratici sanno che la loro base non basta, quindi la danno per scontata pur di strappare voti a destra. Ma così accrescono la percentuale di elettori che preferiscono votare per persone alternative come ad esempio Ralph Nader, rischiando di consegnare le elezioni ai repubblicani”.
Proprio per questo, dopo aver fatto recapitare a Cheney migliaia di slip rosa con sopra elencati gli articoli della costituzione violati manipolando le informazioni sulle armi di distruzione di massa ed essersi infiltrate in decine di apparizioni pubbliche di Condoleezza Rice gridando “Basta omicidi, basta torture e basta bugie” e chiedendo la chiusura di Guantanamo, le pink ladies hanno rivolto le loro attenzioni agli uomini, e alle donne, del loro partito.
“In cambio dei compromessi sulla guerra, il nuovo Congresso a maggioranza democratica non ha ottenuto niente: sono riusciti a diminuire pochissimo le spese per l’istruzione superiore, hanno esteso in maniera irrisoria i confini dell’assistenza sanitaria pubblica e, in compenso, non sono riusciti a chiudere Guantanamo e hanno contribuito all’ulteriore contrazione delle nostre libertà civili approvando la legge per il controllo della corrispondenza”. Un nuovo fronte di battaglia che è costato alle Codepink qualche tentativo di strumentalizzazione – “ai media repubblicani fa comodo mostrare il dissenso interno alla sinistra” – e un bel ritorno di immagine: “Improvvisamente, abbiamo tutti i riflettori addosso, probabilmente perché la maggior parte dell’opinione pubblica è ormai contro la guerra e molti giornali e tv hanno assunto una posizione più critica”.
Di certo, quando il 17 settembre marceranno compatte sul Campidoglio avvolte nei loro boa rosa confetto, sarà difficile che passino inosservate.