Questi due brevi articoli di Fernando Gualdoni sono dedicati ai problemi dell’economia del Burkina Faso nel contesto della globalizzazione. Il Burkina è un paese laborioso e relativamente pacifico, la classe dirigente lascia a desiderare ma non è fra le più corrotte. Ciò nonostante, il Burkina non riesce a bastarsi economicamente e molti abitanti sono costretti all’emigrazione, per ragioni che vengono spiegate chiaramente in questi due articoli. Sono ragioni che chiamano in causa l’organizzazione mondiale del commercio e la prepotenza dei paesi più ricchi. I due articoli sono molto chiari e possono essere capiti anche da ragazzine/i di scuola media. Il primo riguarda la produzione di cotone, il secondo quella del riso; cotone e riso sono la base dell’economia del paese. Il cotone è di buona qualità e viene prodotto in abbondanza, ma sul mercato mondiale non regge la concorrenza con paesi che finanziano i loro produttori di cotone, gli Usa; il riso serve a sfamare la popolazione ma, non essendo prodotto in quantità sufficiente, deve essere integrato con l’importazione di riso dall’Asia, che fa concorrenza alla produzione locale, mettendola in crisi. Sono problemi che l’Italia povera di una volta non aveva e che oggi impediscono a molti paesi, come il Burkina Faso, di uscire dall’estrema povertà. Gli articoli sono tratti dall’inserto domenicale del quotidiano spagnolo El Pais dell’11 dic. 2005 e tradotti in italiano da Clara Jourdan.
Le ingiustizie del commercio mondiale aggravano la miseria di uno dei paesi più poveri del mondo
COTONE: CONCORRENZA SLEALE DEGLI STATI UNITI
La Confederazione dei Contadini del Faso non intende abbassare la guardia. Fino a un minuto prima che cominci, martedì 13 a Hong Kong, il vertice dell’Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO), gli agricoltori hanno in mente di raddoppiare la pressione sul governo affinché si faccia sentire dai paesi ricchi, in questo incontro, e ottenga un buon accordo. “L’Europa può alzare i suoi steccati giorno dopo giorno, ma noi continueremo ad andarci”, spiega Eloi Nombré, segretario dell’organizzazione. “Non lo capiscono, noi vogliamo vivere qui e del nostro lavoro, ma se non possiamo lo cercheremo da un’altra parte. È una questione di sopravvivenza, ma voi non lo capite, non volete vedere”, aggiunge, più rassegnato che arrabbiato.
Le parole del sindacalista ricordano le recenti immagini degli emigranti che scavalcano il reticolato a Ceuta e Melilla. Molti di loro erano contadini del Burkina Faso (prima, Alto Volta), del Mali, del Benin o del Chad, per citare il quartetto dei paesi dell’Africa subsahariana che si sono uniti per tentare di salvare la loro principale fonte di ricchezza, il cotone.
In Burkina, più dell’80% di una popolazione di 12 milioni lavora nell’agricoltura, un settore che rappresenta quasi la metà del prodotto interno lordo (PIL) e tra il 60% e il 70% delle entrate per esportazioni. La maggior parte, dai bambini agli uomini e donne la cui aspettativa di vita non arriva ai 50 anni, lavora nell’industria cotoniera. “Vogliamo produrre un cotone di qualità, ma il prezzo è talmente basso che non arriviamo a coprire i costi”, spiega Yibril Balboné nella località di Tenkodogo. Balboné è il presidente dell’Unione dei Produttori di Cotone della provincia di Boulgou, vicino al Togo.
La prima cosa che fanno i produttori quando gli si chiede a quali fattori attribuiscono la caduta dei prezzi, è indicare gli Stati Uniti. Washington concede ai suoi produttori di cotone sovvenzioni attorno ai 3.500 milioni di euro all’anno. Questi aiuti permettono a circa 25.000 cotonieri di esportare quasi il 70% della loro produzione nonostante abbiano costi di produzione molto superiori al prezzo di vendita della merce. Questo sistema, oltretutto, spinge i cotonieri statunitensi a piantarne di più e, aumentando l’offerta, il valore del prodotto si deprezza ancor più. Il sistema Usa provoca una caduta di più del 10% dei prezzi internazionali, secondo l’Onu, e toglie un punto percentuale (41 milioni di euro) al PIL del Burkina Faso.
Nella piantagione di cotone diretta da Moussa Sanboné, non molto lontano da Tenkodogo, l’estrema povertà degli agricoltori africani si vede in tutta la sua crudezza. Volti tristi, stomaci vuoti, un unico cambio d’abito, malaria cronica e quasi nessun oggetto nelle case di fango che a malapena li riparano. Poco più di un centinaio di contadini hanno appena raccolto a mano l’ultimo carico di cotone dell’attuale campagna. Nel corso dell’anno hanno prodotto circa 170 tonnellate nei 124 ettari che coltivano collettivamente. Dopo aver pagato le sementi, i fertilizzanti e gli insetticidi che hanno acquistato a credito, resteranno circa 150 euro per famiglia.
Sanboné spiega che hanno venduto la produzione alla società Faso Coton, una delle tre imprese che lavorano ed esportano il cotone del Burkina Faso. Racconta che le tre società ogni anno fissano un prezzo unico per tutto il paese e che sono i suoi responsabili a dire agli agricoltori che per colpa delle sovvenzioni statunitensi non li possono pagare di più.
Faso Coton è una delle due imprese sorte in seguito alla privatizzazione dell’industria cotoniera strappata nel 1998 su istanza del Fondo Monetario Internazionale (FMI). Dalla Sofitex, fino ad allora monopolio statale, furono smembrate due società, Socoma e Faso Coton, e adesso le tre controllano rispettivamente le zone ovest, est e sud del paese.
Lo Stato mantiene ancora una partecipazione in Sofitex e i produttori hanno una quota di minoranza del capitale nelle tre imprese. “Le sovvenzioni statunitensi non sono le uniche responsabili del fatto che perdiamo soldi con la vendita del cotone, anche la rivalutazione dell’euro ci danneggia, dato che il franco africano è legato a quella divisa. L’ascesa dell’euro ha reso più care le nostre esportazioni”, dice il direttore esecutivo di Faso Coton, Koumpore Kambiré, nella sede della società a Ouagadougou, la capitale.
Kambiré afferma che l’impresa è in rosso da quando, due anni fa, completò la sua separazione da Sofitex. Spiega che sono gli azionisti di Faso Coton, tra i quali la multinazionale svizzera Paul Reinhart, a fornire il capitale perché l’impresa continui a funzionare. “Nessuna impresa cotoniera, almeno in Africa, guadagna soldi oggi. Ma cosa possono fare? Devono andare avanti, hanno bisogno del cotone”, dice Kambiré.
L’imprenditore riconosce che i produttori fanno un grande sforzo per mandare avanti l’industria cotoniera, e assicura che se il prezzo internazionale fosse più alto l’impresa pagherebbe di più i contadini. Sul tavolo ha la bozza delle basi per una nuova regolamentazione del settore che, secondo lui, cerca di dare maggiore partecipazione e benefici al produttore in tutti gli aspetti dell’attività. “Abbiamo molti problemi”, conclude Kambiré, “ma se almeno gli Usa eliminassero la politica dei sussidi avremmo l’opportunità di competere sul mercato in uguali condizioni”.
“Siamo consapevoli che ci sono molti problemi locali che danneggiano il produttore, ma non abbiamo i mezzi per lottare su due fronti contemporaneamente”, spiega Omer Kadaré, direttore dalla ong Oxfam in Burkina Faso. “La nostra campagna ha due gambe. La prima, sulla scena internazionale, è far prendere coscienza al mondo del danno che i sussidi statunitensi al cotone provocano alla gente di questo paese. La seconda, su scala locale, è aiutare i produttori locali a farsi sentire, a denunciare le cattive pratiche delle imprese e del governo, perché se un giorno eliminassero gli aiuti degli Usa, i benefici derivanti da questa misura raggiungano anche il contadino e non solo le imprese cotoniere e i politici”, conclude.
Nell’ufficio di Sériba Uattara, direttore generale del Commercio, c’è poco margine per parlare di politica. Lui è un tecnico e sa a menadito i mille passaggi impervi della complicata negoziazione commerciale, e farà parte della delegazione che andrà al vertice di Hong Kong. Uattara si rifiuta di pensare che non otterranno niente dall’incontro. “Gli Usa hanno già un giudizio contrario del WTO per le sovvenzioni al cotone, in seguito a una denuncia fatta dal Brasile. Sono obbligati a smantellare il loro sistema di aiuti. Ma anche così si ostinano a fare una proposta che per noi non va bene. La loro offerta di eliminare poco più della metà degli aiuti in poco più di 15 anni è inaccettabile”, spiega.
“Il meno che pretendiamo è che gli Usa facciano un’offerta ragionevole. Non si può dare una dilazione di quasi 25 anni per eliminare gli aiuti”, conclude. “In ogni caso”, aggiunge Uattara, “noi abbiamo fatto le nostre concessioni; abbiamo accettato che il cotone, che per noi è speciale, si negozi all’interno dell’insieme delle misure per tutto il settore agricolo. Non possiamo fare di più. Che cosa possono chiederci ancora?”.
I produttori locali sono in svantaggio di fronte alle importazioni a basso prezzo dal sudest asiatico
RISO: UNA LIBERTA’ DI COMMERCIO LETALE
A Ouagadougou non c’è modo di trovare riso locale. Nella maggior parte dei negozi della capitale si possono vedere impilati sacchi da 5, 10 e persino 50 chili di riso proveniente da Tailandia, Vietnam, Pakistan e Stati Uniti. Del paese nordamericano si possono addirittura trovare confezioni di chicchi raccolti in California nel 1995. Sono i più a buon mercato, ovviamente. La maggior parte degli abitanti del Burkina Faso, tuttavia, si stupisce meno se gli si domanda perché l’aeroporto si trova nel centro della città che se si mette in discussione la mancanza di riso locale nei negozi.
Se non ce n’è è per una ragione molto semplice: il riso importato è più a buon mercato e il suo volume aumenta di più quando lo si cucina, per cui con meno quantità mangiano più persone e tutte restano soddisfatte. Dietro questa logica schiacciante si nasconde una questione chiave per la sicurezza alimentare del Burkina Faso: la sua incapacità di combinare politiche volte alla sopravvivenza della produzione locale con la necessità di importare il riso che manca per dare da mangiare a tutti.
“Non ce lo meritiamo. Perdiamo se cerchiamo di competere all’estero con il nostro cotone e perdiamo ugualmente se vogliamo costruire un’industria del riso come si deve”, dice Jacob Uedraogo, governatore della provincia di Bulgu, la zona in cui si produce più riso (il 15% del totale nazionale) e in cui 1700 famiglie vivono di questa coltivazione. “Noi abbiamo sempre dovuto mendicare per soddisfare i nostri bisogni. Prestiti del FMI o della Banca Mondiale, donazioni e aiuti di altri paesi e di organizzazioni internazionali… È ora di cominciare a vivere dei nostri mezzi, e lotteremo su tutti i fronti per riuscirci”.
Ciò che vogliono i produttori di riso è che il loro governo li aiuti e prenda misure che li proteggano dalla concorrenza estera. La richiesta va contro i principi dell’Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO) ed è l’opposto di ciò che sostengono i produttori di cotone del Burkina Faso, che nel vertice di Hong Kong cercano di ottenere che i paesi ricchi eliminino tali politiche di aiuto e protezione sleale. I produttori di riso avanzano varie ragioni per sostenere la loro petizione: il Burkina Faso è uno dei trenta paesi più poveri del pianeta, e ogni misura di protezione li aiuterebbe a essere meno dipendenti dalla fornitura estera di cibo e meno vulnerabili dalle oscillazioni dei prezzi.
Ridurre il divario
Tali misure non muoverebbero quasi un capello agli esportatori della Tailandia o del Vietnam, che collocherebbero il loro prodotto da un’altra parte. Inoltre, sostengono che loro non hanno mai potuto proteggere nessuna della loro industrie come hanno fatto i paesi avanzati, e che se non fanno così non riusciranno mai a ridurre un po’ il divario esistente tra loro, i paesi in via di sviluppo, e i paesi ricchi. In altre parole, i produttori di riso chiedono di essere esentati dal processo di liberalizzazione del commercio mondiale.
Issaka Uedraogo e Bikienga Bukari sono tecnici dell’Associazione dei Produttori di Riso della zona del Bagué, nella provincia del Bulgu. “Il riso importato è più a buon mercato e riempie di più, non possiamo colpevolizzare la popolazione se lo compra. Tutti siamo poveri. Il chilo di riso importato costa 250 franchi africani (38 centesimi di euro), mentre quello che produciamo qui costa dai 100 ai 150 franchi in più. È vero, inoltre, che il chicco di fuori si espande di più con la cottura e con un pugno di riso uguale mangiano più persone. Tuttavia il chicco locale è più nutriente, e mi creda, con la dieta che ha la gente qui, questa differenza non è da poco”, racconta Bukari. “Quello che pretendiamo”, postilla Uedraogo, “è che il governo prenda misure per difendere la produzione del nostro riso e garantire alla popolazione che almeno una parte di quello che consuma sia locale”.
Il Burkina Faso produce annualmente circa la metà delle 200.000 tonnellate di riso di cui ha bisogno per nutrire la sua popolazione. Insieme al sorgo, il miglio e il granoturco, forma il quartetto delle colture su cui si basa la dieta. Tutte le terre del Bagué, a sud del paese e sulla riva orientale del fiume Volta Bianco, sono destinate alla coltivazione del riso. Bukari e Uedraogo raccontano che in quella zona negli anni Ottanta si costruirono canali per assicurare l’irrigazione delle terre. Furono finanziati con prestiti in un’epoca in cui i consulenti degli organismi multilaterali di credito consigliavano di patrocinare politiche di autoapprovvigionamento.
Le cose però sono cambiate, e quella tendenza è rimasta sfasata in un mondo che, dalla creazione del WTO nel 1995, decanta il libero commercio e lo smantellamento di ogni tipo di barriere, tariffarie o no. La economista Coné Asset, consulente di varie organizzazioni sociali del Burkina Faso, non discute il fatto che le tendenze cambino e nemmeno che quella attuale sia che ciascuno faccia ciò che sa fare meglio e al prezzo più basso, per essere competitivi. Ma ciò che non le pare logico è chiedere all’Africa di essere capace di adattarsi ai cambiamenti da un decennio all’altro, perché per questo ci vogliono fondi, formazione e attrezzature che non ha.
“L’impressione generalizzata della popolazione è che ci ingannano, che i paesi ricchi o in via di sviluppo ci vendono i prodotti che loro non vogliono”, dice Asset. “È terribilmente frustrante. I paesi sviluppati pur riconoscendo che la globalizzazione e il libero mercato hanno provocato squilibri, invece di cercare di correggerli fanno di tutto per acutizzarli. Molti politici del Nord dovrebbero passare un po’ di tempo qui, lavorare la terra e mangiare riso tailandese. Chissà che così conoscano l’empatia”, riflette.
Il governo sostiene che il principale problema del riso locale è nel sistema di distribuzione, mal organizzato e in poche mani, che è questo in fin dei conti a rendere più caro il prodotto. Dicono che anche volendo alzare le tariffe (doganali) per frenare l’ingresso del riso importato, gli accordi commerciali del paese con i suoi soci del resto dell’Africa glielo impediscono. Il direttore del Commercio del Burkina Faso, Sériba Uattara, spiega che si sta ancora studiando come eliminare il collo di bottiglia che rende caro il riso locale e, allo stesso tempo, come applicare misure di protezione che non pregiudichino i rapporti commerciali del paese.
Appoggio popolare
Alla ong Oxfam sostengono che il governo ha cominciato a prestare molta attenzione ai produttori di riso, quasi quanto ai produttori di cotone, dopo essersi reso conto che entrambi hanno un grande appoggio popolare.
In una piantagione di riso del Bagué, Lamussa Daboné e Apollinaire Sorghu sono grati della preoccupazione di tutti per la loro situazione. Loro due, con l’aiuto delle rispettive mogli e figli piccoli, stanno separando i chicchi di riso dalla pianta battendoli contro un arrugginito bidone di metallo, per poi metterli in sacchi da portare al compratore. Chi è il compratore? Lo stesso a cui devono le sementi, i fertilizzanti e le attrezzature che hanno potuto comperare. Gli portano tutto il riso che hanno prodotto e lui si tiene tutto quello che ci vuole per coprire il debito. Quello che avanza se lo tengono Daboné e Sorghu; una parte la consumeranno e l’altra, se resta qualcosa, cercheranno di barattarla con altri cibi, forse persino con un pezzo di carne.
La zona dove vivono Daboné e Sorghu è la più povera, se possibile, nella povertà generale del Burkina Faso. Si trovano a circa 300 chilometri dalla capitale e tutto quello che c’è tra loro e Ouagadougou è fame e malaria. L’unica cosa diversa lungo questa strada, la cui parte asfaltata è a pedaggio, è il villaggio di Beguedo: qui molte case hanno i muri di mattoni e il tetto di uralite, e questo rompe con il paesaggio di abitazioni di fango e granai di paglia. E, se non bastasse, hanno l’elettricità. La spiegazione è semplice: la maggior parte dei giovani del villaggio sono emigrati in massa in Italia e lì lavorano nelle piantagioni di pomodori. La Western Union ha aperto immediatamente il suo unico ufficio nel raggio di chilometri per ricevere i soldi che ogni mese, puntualmente, arrivano dal sud Italia.
(Traduzione di Clara Jourdan)