Teresa Pansera
Il mio pensiero parte da circa sei anni fa quando, tornata a Milano dopo quindici anni vissuti sull’isola d’Elba, riprendo possesso dei miei 30 mq. tra l’inizio di via Padova e viale Monza e ci vado a vivere con mia figlia adolescente.
Il caseggiato ha tanti mini e mono locali che, quando me ne andai da Milano, erano abitati da vedove e signorine dai 70 anni in su, quasi tutto femminile. Al mio rientro scopro che quasi tutte le signore sono morte e le case sono abitate da tanti stranieri di tutte le etnie. Presto comincio a fare i conti con: sputi sulle scale, schiamazzi notturni di ubriachi, urla notturne delle prostitute, montagne di mobili e vari elettrodomestici abbandonati in cortile, raccolta differenziata non rispettata, tanta povertà.
Ritorno indietro di 50 anni quando accompagnavo mia mamma infermiera, allora si abitava in periferia, a fare iniezioni nelle case di persone veramente povere oserei dire disperate e mia mamma non voleva essere pagata. Io bambina vedevo quel degrado e vivevo i due locali dove abitavo come una reggia, un privilegio.
Mi sono subito data da fare, ho parlato con le persone italiane della casa le quali sostenevano “Io non sono razzista, ma…”. E la mia risposta è stata: “Ma… diamoci da fare! non permettiamo che il loro malessere che così si esprime ci sovrasti, parliamo con loro, coinvolgiamoli, non parliamo colpevolizzandoli, accusandoli”.
Ho incominciato con il chiamare l’Amsa per portare via le montagne di rifiuti ingombranti e insieme li abbiamo spostati fuori dal portone. Sono andata di casa in casa a portare il regolamento condominiale spiegando l’importanza di avere un ambiente sano e pulito e chiedendo loro di dare il loro contributo.
Lentamente le cose sono migliorate, anche gli italiani pur dandomi della pazza dovevano riconoscere che parlare e fare era meglio che lamentarsi e accusare.
Poi però mi sono resa conto che le persone cambiavano di frequente e bisognava sempre ricominciare da capo.
Ho poi partecipato a una fiaccolata che aveva nelle sue intenzioni dichiarate quella di smuovere le istituzioni per far cessare lo spaccio in zona. Del caseggiato siamo andati in quattro italiani, ma improvvisamente durante il tragitto sono incominciati slogan contro gli stranieri e contro il degrado che questi portano. Dagli slogan mi sono accorta che ero circondata da leghisti e siccome mi sono messa a discutere con un urlatore di slogan mi sono subito trovata circondata e additata come ribelle, non stavo al loro gioco. Tra insulti e imprecazioni me ne sono andata dal corteo.
I miei tentativi di convivere con immigrati sono falliti davanti ai “troppi fattori negativi”, cito dall’articolo di Luisa Muraro “L’accusa di razzismo: scorciatoia mentale, esonero morale, errore politico” (Via Dogana n. 92). Più che falliti mi hanno sfinita e gratificata. Quando me ne sono andata tutto è tornato com’era. Ho capito l’utilizzo dell’accusa di razzismo come scorciatoia, esonero, errore. In questa analisi mi sono ritrovata e finalmente ho fatto ordine tra i miei pensieri, i miei agiti, e gli indottrinamenti, ciò che decidono di farmi vedere e pensare. Leggendo l’articolo mi sono accorta della trappola nella quale è facile cadere e in parte anch’io sono caduta: “È errore politico, le popolazioni si sono opposte a ciò che è stato deciso sulla loro pelle senza che avessero avuto la possibilità di decidere di scegliere”. E ancora: non c’è solo il profitto capitalistico e, come Simone Weil sostiene, ci sono degli obblighi che abbiamo verso gli esseri umani.
Ciò mi porta a pensare quanto il senso politico del vivere è stato perso riducendolo a scorciatoie, furberie, appartenenze elettive, schieramenti.
Se da un lato l’analisi fatta da Luisa con argomentazioni nelle quali ritrovo le mie esperienze e i miei vissuti mette ordine e chiarezza nei miei pensieri, dall’altro lato il dire altolà ricominciamo da Rosarno mi catapulta sotto la mole mastodontica della politica e da questa mi sento schiacciata. In questi ultimi anni mi sono aggrappata agli “obblighi umani” a scuola come nella casa in cui abitavo.