Valutare: le parole nel tempo
Maria Cristina Mecenero
Se ripenso a come è andata con l’ultima classe che ho avuto (ora sono temporaneamente distaccata), metto a fuoco che la mia tendenza è ben lontana da ciò che si chiede ora di fare a chi insegna alle scuole primarie, ovvero adottare una pratica valutativa numerica, infatti sono portata più a dare lettere, cioè a stare nella relazione educativa e didattica attraverso le parole. Quell’anno avevo preparato una cassetta della posta in cui imbucavo missive per le bambine e i bambini delle mie due classi prime. E in questa pratica di scrittura, di scambio, di attesa e risposta si trova, per me, il cuore della questione.
Erano lettere in cui dicevo loro cose del tipo: Cara M., che belle cose mi hai dettato venerdì! E mi piace molto quando ti avvicini a raccontarmi qualcosa; Caro E., ho visto che ti piace leggere le frasi alla parete. E sei bravo, le leggi correttamente!; Cara E., come stai imparando in fretta l’italiano. Che bello!; Caro Mc., che piacere scoprire che sei spiritoso!
Si trattava di parole, di frasi, con le quali dicevo qualcosa di più profondo: che ero interessata a conoscerli, a capirli, sempre un po’ di più, che li osservavo.
Io sono nell’atteggiamento per cui tutto il processo è spostato verso l’insegnamento/apprendimento e non verso la valutazione: l’orientamento per me fondamentale è conoscere le bambine e i bambini e coinvolgerli nell’esperienza dell’imparare, tenendoli ancorati e inclusi, intensamente presenti. Per ancorarli ho bisogno il più possibile di sapere chi sono quelle bambine e quei bambini, come vivono, cosa succede a casa loro, cosa li muove che funziona, cosa crea intoppi; per includerli, perché cioè stiano nel gruppo che formiamo con una loro dignità e sapienza e in forte relazione gli uni con gli altri e con me, ho necessità di creare situazioni di contatto, di scambio, di sottili rimandi, di attenzione direi, riprendendo un termine di Simone Weil: Essa (l’attenzione) non ha effetti immediati; di qui le notti oscure e i doni gratuiti. Poiché l’intuizione è immediata non può che essere preceduta da una notte oscura (…). (Quaderni, volume primo, p. 371).
Conosco bene le notti oscure e i giorni illuminati: tutto infatti avviene per me maestra in un lavorio discorsivo che è profondamente valutativo e che sta da un’altra parte rispetto agli atti tecnici delle prove o alla compilazione dei documenti ufficiali. I giorni illuminati sono quelli in cui colloquio con le mamme o i papà delle bambine e dei bambini, a volte casualmente, a volte per scelta: è da un po’ di anni che i colloqui con i genitori vanno sempre più nella direzione di un’interlocuzione da cui io traggo linee e idee che traduco poi in proposte di attività o in una maggiore sensibilità a certi segnali che le piccole e i piccoli mandano. Per esempio, le rivelazioni che i genitori fanno sull’andamento dei rapporti tra compagne e compagni, diventano un’indicazione utile su come proseguire nei lavori in coppia o in gruppo, su come cioè creare combinazioni tra loro per evitare conflitti relazionali o, viceversa, provocare un conflitto cognitivo, utile per imparare.
Piccoli gesti, piccoli spostamenti. E una grande forza, quella del parlarsi, con le madri soprattutto, e anche con i padri. Ricordo di un bambino appena arrivato in Italia da un’altra nazione europea, era molto avanti nei processi di apprendimento della lingua, però si isolava molto, e giocava sempre seduto ai banchi da solo o al massimo con un compagno, spesso faceva strani versi, oppure si incantava con la colla stick che diventava un aeroplano, un ponte e altro ancora. La mamma un giorno ci raccontò che la tendenza a estraniarsi l’aveva anche alla scuola materna, nel suo paese di origine, e che a lei raccontava quasi mai di fatti, ma soprattutto di avventure fantastiche dei personaggi che più gli piacevano, Zorro in primis. Già dal giorno successivo al colloquio, Zorro prese parte a una delle storie inventate collettivamente, dato che per pura coincidenza stavamo lavorando con la s e la z: fu lui a proporlo e io colsi subito la palla al balzo. Da quel momento, quel bambino c’è stato di più nel gruppo, un po’ di più. E Zorro è stato incluso nell’alfabetiere murale.
Ascoltare, interloquire e rimandarci le nostre visioni dei bambini con le mamme e i papà è un’operazione sempre rivedibile, in cui io personalmente scelgo di stare con una grande attenzione al discorso che si svilupperà tra noi. So infatti che ciò che i genitori mi diranno della loro figlia e del loro figlio dipenderà da molti fattori in gioco – preoccupazioni, paure, aspettative, fiducia, ricerca, simpatia o antipatia che circola tra noi adulti – e che dal dialogo con loro io potrò trarre sempre buone informazioni e traiettorie per la mia attività di maestra. Questo circolo di parole e vissuti fa parte di un processo valutativo discorsivo in cui alla base c’è una condivisione di sapere su quel bambino, su quella bambina, e la conoscenza di lei o di lui a volte è l’unica chiave di volta per riuscire a insegnare qualcosa e per uscire dai blocchi o per orientarsi negli scacchi. E’ anche l’unica chiave di volta per avere più il senso di chi siamo insieme e delle reazioni emotive che si attraversano. In effetti i problemi che incontro a essere bilanciata verso certe bambine e bambini a volte sono collegati a genitori che non sanno o non riescono o non vogliono raccontare il loro figlio, la loro figlia.
E qui entriamo già nel campo delle notti oscure, in cui non dormo perché certi accadimenti difficili, o certe incomprensioni, certe disattenzioni da parte mia mi inquietano e ormai so che troverò pace quando sarò riuscita a fare accadere altro. Una notte oscura la ricordo per un bambino, amante del pallone e della matematica, ma non della scrittura: di colpo – verso le quattro della mattina – mi era venuta in mente sua madre che da tre o quattro lunedì mattina mi fermava davanti a scuola per dirmi che suo figlio ogni fine settimana non voleva fare i compiti, era svogliato, si distraeva. Improvvisamente, tra le coperte, il buio e i sogni, mettevo a fuoco che era il momento che io preparassi lavori individualizzati per lui, che in effetti non ce la faceva più a eseguire gli esercizi che davo di compito a tutti. Che fosse in difficoltà l’avevo compreso da un po’, infatti andavo a scuola per lui e un altro compagno un’ora in più alla settimana, gratuitamente, per capire meglio perché non riuscisse a imparare a leggere e a scrivere, ma non avevo ancora differenziato i compiti sistematicamente e solo quando mi sono ritornate in mente le parole della madre, ho fatto anche quel passo.
Immagino che Simone Weil quando parla di attenzione e notti oscure non intenda alla lettera le notti, ma momenti di opacità, in cui non si connettono creativamente i saperi che abbiamo di una data situazione di cui facciamo parte. Per me ci sono anche queste, letteralmente, e so che alcune maestre che conosco e fanno questo mestiere con passione portano le loro creature nei sogni, nei pensieri notturni, in cui si prosegue un dialogo interiore tessendo insieme parole di varia provenienza. E’ un’altra dimensione valutativa per me molto feconda sia sullo stato del processo di apprendimento delle bambine e dei bambini sia su possibili strade da seguire, anche non in relazione a un problema. Idee di lavoro che a volte riporto in classe dicendo “stanotte ho pensato che…” e che hanno preso forma a partire da ciò che mi hanno detto altre, altri che mi ritorna nella mente sottoforma di una pressione interiore a dare un ordine diverso a certi andamenti.
Con questa immagine di notti in bianco, parzialmente in bianco, voglio fare vedere con molta determinazione qualcosa di squilibrato: mentre la tendenza istituzionale e del discorso pedagogico presunto esperto è dare tutta l’importanza agli atti valutativi, per cui bisognerebbe fare solo ciò che è valutabile (e i test Invalsi e il portfolio sono ben rappresentativi di una cultura di questo tipo) – la forza del mio essere maestra mi deriva invece dalla pratica discorsiva e conversativa tra me e la bambina o il bambino, i genitori, le mie colleghe. Vorrei fare vedere l’altra storia della esperienza di valutazione e del suo viaggio che si dipana tra parole, senso e fiducia scambiati da un certo numero di persone (le colleghe, le bambine e i bambini, le mamme e i papà). Io mi prendo la libertà di seguire questa direzione, perché vedo che dà risultati. Faccio anche le cosiddette prove, poche, hanno una funzione, ma non è lì che si giocano le questioni importanti per me in rapporto alla costruzione del sapere.
In una classe che ho lasciato qualche anno fa, presa in terza (ripresa nel film-documentario L’amore che non scordo), la relazione era partita da una lettera che avevo scritto a quei bambini e a quelle bambine dopo poco tempo dall’inizio dell’anno, in cui avevo pensato a loro e li avevo nominati dicendo qualcosa di puntuale per ognuno. In quinta ho chiesto, alla fine dell’anno scolastico, di scrivere ai compagni e alle compagne, scegliendo chi volevano, per chiudere il nostro percorso: c’è chi ha scritto quindici facciate e chi, in particolare tre di loro, ha scritto una lettera in cui salutava uno a uno i compagni e le compagne con ben più di una frase. Quello che è passato tramite le lettere ha spostato la conclusione di quell’esperienza verso un piano che non è traducibile in una frase standardizzata, o comunque da riportare in un documento: era un rendere grazie per ciò che era accaduto tra loro; a volte erano dichiarazioni e affermazioni che cercavano di mettere a posto ferite che si erano procurate/i, a volte, pur mantenendo il filo di tensione conflittuale che viveva tra alcuni, voleva comunque essere un buon saluto perché ci lasciavamo. Il cerchio e quel tipo di scambio sottile iniziato anche con quella prima lettera che avevo scritto con piacere e trasportata dalla tensione ad ancorarmi io a loro in quel caso, ha avuto un grande eco in quella classe: ascoltando la parola scritta dei compagni e delle compagne avevano potuto conoscere aspetti degli altri che incuriosivano molto e intrigavano, per cui stavano per due/tre ore alla volta interamente nell’ascolto senza avere cedimenti, anche per più giorni alla settimana. Ciò che è accaduto al termine di quella quinta, che non aveva più da superare l’esame perché era il primo anno della sua abolizione, è collocabile una dimensione del sapere a cui io tengo molto insegnando italiano: sapere esserci attraverso la parola. Soprattutto di Denis, Bogdan e Ylenia, che hanno scritto volendo salutare tutti, dico che se la sono saputa cavare egregiamente, chiudendo con successo un percorso che era stato in alcuni periodi anche molto problematico con la lingua scritta.
Non mi è mai stato richiesto fino a ora di dare i numeri per valutare, ma mi è capitato di darli quando ho lavorato come maestra di italiano in due classi, che vuol dire in due gruppi molto diversi e con la metà del tempo rispetto a chi, in una scuola a tempo pieno, si occupa solo di una classe: ero letteralmente messa alla prova del limite della mia tenuta emotiva e fisica, per il carico e la complessità del lavoro. In tutto infatti mi dovevo occupare di 40 bambini, di cui 18 stranieri e due con disturbi importanti del comportamento, uno per ogni classe.
Non ambisco a dare i numeri, né per sfinimento, né per valutare. Ambisco a fare bene il mio mestiere: per questo continuerò a praticare l’uso della valutazione discorsiva.
Dell’imperatrice e altre faccende
di Vita Cosentino
Tutto capita nella “normalità” del fare scuola. Tutto ci attraversa. Nel bene e nel male, nel vecchio e nel nuovo, si tratta sempre di noi. Per questo racconto una storia che può sembrare minimalista, come la correzione di un compito in classe.
Ore 8,30 di un mercoledì di novembre. Una prima media: ragazzine e ragazzini di 11 anni. Entro con un pacco di fotocopie, che distribuisco. Su ognuna è riportata la poesia “Rio Bo” di Aldo Palazzeschi e una nota biografica dell’autore. Abbiamo lavorato un mese sul testo poetico e, come verifica, chiedo di fare un commento della poesia a cui aggiungere qualche notizia sull’autore. Si mettono subito a lavorare alacremente con vocabolario e foglietti vari.
Rio Bo
Tre casettine
dai tetti aguzzi,
un verde praticello,
un esiguo ruscello: Rio Bo,
un vigile cipresso.
Microscopico paese, è vero,
paese da nulla, ma però
C’è sempre di sopra una stella
che a un dipresso
occhieggia colla punta del cipresso
di Rio Bo.
Una stella innamorata?
Chi sa
se nemmeno ce l’ha
una grande città
Quel giorno tornai a casa con il mio pacco di compiti piena di curiosità, morivo dalla voglia di leggerli subito, avevano lavorato così concentrati/e e in silenzio. Non sapevo che mi attendeva una sorpresa, un lungo attraversamento di fasi interiori, la ricerca di una via d’uscita, insomma una vera prova, anche per me, l’insegnante. Seduta alla scrivania leggevo quei fogli, decifravo quelle calligrafie incerte, sempre più sgomenta pensavo che non avevano capito niente. Ma proprio niente! Di impulso afferrai la matita rossa e blu, (se ne trovano ancora) con l’intenzione di scrivere su più della metà dei compiti “interpretazione errata, gravemente insufficiente”. Non era forse questo il mio dovere di insegnante? Un compito in classe ha la sua importanza, anche nei confronti dei genitori.
Stavo attraversando la prima fase che poi ho chiamato “L’imperatrice”. L’insegnante -imperatrice unica e indiscussa proprietaria del sapere – conosce il testo, conosce anche l’apparato critico sul testo, è depositaria dell’interpretazione e tutto quello che si discosta dall’interpretazione “giusta” è errato, quindi va cancellato e non se ne tiene conto. La fase dell’imperatrice è quella che viene naturale per la concezione dell’insegnamento da cui proveniamo, inteso come trasmissione di nozioni dalla cattedra verso i banchi. La fase dell’imperatrice corrisponde all’essenza della valutazione classificatoria, che procede esattamente nel modo che ho descritto. Nel caso specifico però questa fase durò pochissimo, perché anche le più brave e i più bravi della classe, erano finiti nel mucchio del “gravemente insufficiente”. Ripensavo alle loro facce assorte, al sorriso che mi rivolgevano mentre mettevano il loro lavoro nelle mie mani… e io? Potevo non tener conto di tutto questo? No, non potevo correggere il compito come l’imperatrice.
Cominciò così la seconda fase, per me tormentatissima, che ho chiamato “Le concessioni dell’imperatrice”. I testi rimanevano totalmente errati, ai miei occhi apparivano irrimendiabili, niente poteva migliorarli, però l’imperatrice si piegava a prendere in considerazione quanto potesse concedere. Mi applicai allora a usare bilancini più convenienti, dilatando all’infinito la scala valutativa.
Questa fase, di solito, finisce con quei capolavori enigmatici, tipo “sufficiente meno meno meno meno”, “quasi mediocre”, “molto scarso” (che poi non si sa mai se “scarso” è sotto all’insufficiente oppure se è intermedio). Procede ugualmente con i voti, tipo 6 – – – -; 4++; ecc. Anche la fase delle concessioni dell’imperatrice si rivelava un disastro. Passarono dieci giorni, i compiti restavano ammonticchiati sulla scrivania. Ogni tanto li guardavo, ma non sapevo più come correggerli. Quel modello di valutazione classificatoria che permaneva nella mia testa, mi bloccava. Sapevo che non potevo usarlo, avrei combinato guasti profondi, pure non era facile uscirne: avevo bisogno di un criterio, di una misura condivisibile. Cosa fare di fronte a interpretazioni totalmente divergenti dal testo? In più all’inizio della prima media, con tre anni da passare insieme, nel loro primo avvicinamento a un testo poetico? Altre domande mi tormentavano. Provenivano dalla mia stessa vita, dal ricordo di quello che avevo desiderato per me, che avevo ostinatamente cercato per me. Potevo pretendere l'”interpretazione giusta” proprio io che avevo passato metà della vita a cercare di dare un’interpretazione libera ai testi, a cercare per me un pensiero libero? Ricordavo come alla loro età venissi indotta a compiacere la professoressa o il professore, e non a esprimere me stessa; come mi fosse chiesto di adattarmi a un linguaggio, a un mondo che non mi prevedeva. Fatica tremenda, che non riusciva mai, perché qualcosa dentro di me resisteva tenacemente. Potevo forse dimenticare la mia storia collettiva di donne nel femminismo, alla ricerca di una parola mia, che rimanesse vicina alla mia esperienza, fuori dalla trappola delle analisi totalizzanti? E cancellare anche la mia ricerca presente, per cui considero il lavoro intellettuale come dire qualcosa, scambiandola con altri, produrre un mezzo pensiero, senza più la pretesa di spiegare l’intera realtà?
Tutto questo aveva sì la forza di trattenermi e escludere sia la fase dell’imperatrice che quella delle concessioni dell’imperatrice, ma ancora non mi apriva strade. Quei compiti andavano pur corretti. Non volevo cavarmela con una scorciatoia tipo “sei politico”, cioè una sufficienza uguale per tutti. Si aspettavano da me un giudizio, qualcosa che li aiutasse ad andare avanti. Qual era il problema che sbarrava la strada? A loro? A me?
I compiti rimanevano sulla scrivania e erano diventati un’ossessione. Continuavo a chiedere a chiunque consigli su come comportarmi e una sera a cena l’idea arrivò. Un’amica mi disse: “Nella poesia, se esiste la licenza poetica, può esserci anche la licenza di interpretazione. Accetta tutto.”. Mi sembrò un ottimo consiglio, perché rimanere attaccata alla “giusta interpretazione” mi aveva portato in un vicolo cieco.
Ritrovai il coraggio di prendere in mano quei compiti e questa volta mi misi a leggerli con uno sguardo più libero, secondo il nuovo punto di vista per cui avrei accettato qualsiasi interpretazione, in nome della libertà di interpretazione.
Entrai così nella terza fase, che ho chiamato “L’altro è un soggetto”. Non guardando più i compiti dal punto di vista “del giusto e dello sbagliato”, vennero fuori cose molto interessanti: i testi finalmente incominciarono a parlarmi. In controluce emergevano profili di preadolescenti con tutto ciò che appassionava la loro vita presente. Capii finalmente il problema: avevano letto e apprezzato la poesia di Palazzeschi, filtrandola completamente attraverso la loro soggettività, senza riuscire a porre nessuna distanza fra sé e l’autore. Ero felice come può esserlo chi fa una grande scoperta. “La distanza” era un punto preciso su cui avremmo potuto lavorare nei giorni, nei mesi successivi, per trasformare il loro approccio a un testo poetico. Quelle loro frasi, che in un primo momento per me erano solo errori di interpretazione da sottolineare con la matita blu, in realtà, in questo ritorno di intelligenza, erano diventate un’esuberante, fin troppo esuberante, espressione di sé. E in questo modo assumevano senso compiuto. Riporto qualche esempio.
L. è una ragazzina (che ho soprannominato “l’ecologa”) e scrive: “Questa poesia può avere molte interpretazioni: potrebbe essere un bosco, una città caotica a notte fonda, un piccolo paesino in cima alla montagna, ma – secondo me- è un bosco, per il semplice fatto che c’è un piccolo ruscello, un praticello verde e un vigile cipresso, cioè un cipresso che vigila, che sta attento a cosa succede nel bosco. Penso che sia un bosco perché – come è scritto negli ultimi quattro versi- una stella innamorata una grande città non ce l’ha, ma ce l’ha un bosco di notte. Questa poesia vuole comunicare di tenerci stretto il bosco perché è un luogo prezioso di serenità e tranquillità”.
S. è una ragazzina (che ho soprannominato “la cittadina”) e scrive: “Questa poesia parla di una città dove esistono tre case piccole dai tetti aguzzi, un prato verde e un piccolo ruscello. Rio Bo è un cipresso. Anche se è una piccolissima città, nel cielo c’è sempre una stella vicina che manda occhiate d’amore alla punta del cipresso. Che sia innamorata? Ma tutti si chiedono se nemmeno lei ha una grande città”.
D. è un ragazzo (che ho soprannominato “l’innamorato”) e scrive: “Secondo me, l’autore vuole, con questa poesia, rappresentare un piccolo paese con tre case dai tetti aguzzi, un praticello, un esiguo ruscello, un cipresso a cui una stella occhieggia. Perciò Rio Bo pensa che si sia innamorata di lui e allora si chiede se non abbia una casa la stella. La stella e il cipresso potrebbero essere paragonati a due persone”.
Più o meno i loro lavori procedevano in questo modo: dicevano molto di chi li aveva scritti e quasi niente dell’intento dell’autore. Ho potuto cominciare a correggere il compito quando ho accettato di confrontarmi con la loro soggettività, cioè con quello che avevano trovato, visto, sentito, apprezzato nella poesia. A pensarci bene, c’è qualcosa che a me piace nel rapporto con le nuove generazioni. A differenza di me alla loro età, non cercano di nascondersi, di mimetizzarsi nelle parole altrui. Sono orientati a esserci nel discorso, anche in maniera eccessiva come in questo caso, oppure a starne fuori.
Il senso della scuola è cambiato. Oggi è diventata centrale la soggettività: di chi insegna, di chi impara. La soggettività non sopporta metodi standardizzati di valutazione. É una per una. É un essere umano in carne ed ossa che sta percorrendo una strada di conoscenza che è anche una strada per precisare il senso di sé, per conquistare l’umanità e elementi di civiltà condivisa. É un ragazzo o una ragazza che vuole indicazioni, consigli, confronti, insomma vuole un giudizio che aiuti a pensare con la propria testa, a tentare letture del mondo in relazione con altri/e.
Io stessa, per arrivare alla fase “L’altro è un soggetto”, ho avuto bisogno che qualcuna mi dicesse: “Vai avanti!”, “Fai pure!”. Nell’Autoriforma della scuola da tempo pensiamo che l’unico vero cambiamento può partire da noi, ma che autorizzarsi a ridurre il peso e gli ambiti della valutazione classificatoria, per intraprendere una direzione radicalmente diversa, ma necessaria, nell’insegnamento e nella valutazione, non può essere un processo solitario. Solo se si condivide in relazioni forti, di fiducia e di stima, solo se si fa circolare pensiero e racconto di esperienze, ci si autorizza a praticare strade radicalmente nuove.
Forse a questo punto a chi legge è rimasta la curiosità di sapere come ho corretto quei compiti. In effetti di volta in volta c’è una soluzione da trovare. In quel caso sui loro fogli ho scritto un commento al loro commento: accettavo la loro interpretazione, ma la riferivo a loro stessi/e, e ponevo quella distanza che non erano riusciti/e a trovare. Quando ho restituito i compiti – e non c’è stato bisogno di valutarli gravemente insufficienti, perché nella valutazione è entrato anche quello che avevano sentito risuonare in loro della poesia -, insieme abbiamo cercato frasi, giri di frasi che tenessero conto di entrambe le soggettività: di sé e dell’autore.
Quella classe mi è rimasta nel cuore. Da quei primi incerti passi, nel corso dei tre anni di scuola media spiccò il volo a ali spiegate. Sì, insegnare si può.
Come valutare “cose” complesse
di Guido Armellini
Aggiungerei un piccolo episodio che mi sembra mettere in luce un aspetto importante della valutazione nella scuola: il rapporto tra l’aspetto burocratico-disciplinare-certificativo e quello relazionale. Qualche anno fa, dopo anni di insegnamento nel triennio, mi fu assegnata una seconda classe di biennio, tutta maschile. Era una classe estremamente movimentata ed esuberante, come spesso avviene nelle classi di soli adolescenti maschi, ma priva di qualsiasi interesse per lo studio e abituata a considerare le ore di italiano e storia come una piacevole pausa di relax tra una lezione e l’altra. Naturalmente mi sono prodigato con tutte le mie forze per coinvolgerli negli argomenti di studio e qualche piccolo risultato l’ho ottenuto: la battaglia era stimolante e divertente, i risultati sul piano scolastico assai scarsi.
Dopo alcuni mesi, il capoclasse (un ragazzone grosso, rubicondo ed estroverso) al mio arrivo in classe mi affronta dicendo: “Le devo dire una cosa: non siamo contenti di come lei lavora con noi, perché ci dà troppi compiti, ci dà voti troppo bassi: bisogna che cambi sistema!”. Era la prima volta che ricevevo dagli studenti un rilievo del genere, e rimasi stupito. Perciò, per cercare di capire, gli chiesi di farmi qualche esempio, ma, per quanto si sforzassero, gli studenti non riuscivano a mettere in campo nessun caso concreto. A un certo punto, nel mezzo della discussione, mi scappa detto: “… Del resto io con voi lavoro volentieri, in questa classe mi trovo bene”.
A questo punto scatta un’obiezione inattesa: “Ma come! Lei ha detto alla prof. tale che con noi si trova malissimo e che siamo una classe di somari”.
La prof. tale era una insegnante da loro odiata, e che li odiava. Io, alla tale, avevo effettivamente parlato, confermando che la classe era scolasticamente assai problematica, senza far cenno a questioni psicologiche e soggettive. Allora ho precisato: “Alla tale ho detto semplicemente che siete dei sommi lavativi, e lo penso veramente. Questo non toglie che con voi lavoro volentieri, mi siete molto simpatici e mi piace questa lotta quotidiana per cercare di farvi studiare almeno ogni tanto”.
Dopo questa precisazione, le obiezioni sui compiti e sui voti si sono dileguate, e abbiamo ripreso a combattere allegramente, come prima e meglio di prima.
Proporrei tre conclusioni.
La prima, ovvia, è che in una classe la valutazione è sempre reciproca: gli studenti valutano l’insegnante che li sta valutando. In entrambe le direzioni entrano in ballo molte variabili complesse: non solo la maggiore o minore competenza nelle discipline o nelle tecniche, ma tutto ciò che fa di un essere umano un essere umano. E la valutazione dell’insegnante sulla classe e sugli studenti è condizionata dalla valutazione della classe e degli studenti su di lui, e viceversa.
La seconda conclusione verte su quella diversità di presupposti che fa della relazione tra insegnanti e studenti un’avventura accidentata e sorprendente. Può accadere, e accade spesso, che la stessa frase possa avere significati diversi per chi la pronuncia e per chi la ascolta. Ne possono nascere gravi fraintendimenti, ma anche imprevisti che danno informazioni importanti su ciascuno degli interlocutori. In questo caso in partenza io credevo davvero che gli studenti mi parlassero di compiti e di voti, ma i realtà loro volevano esprimere rabbia e dispiacere per un mio atteggiamento nei loro confronti. Quando il fraintendimento si è sciolto, siamo stati tutti più allegri e più fiduciosi.
La terza conclusione riguarda la natura stessa della valutazione. Quando se ne parla nella scuola, in genere si parla di dare dei voti, cioè di una valutazione classificatoria, che è una cosa molto diversa da quello che è successo quel giorno in quella classe. Questo tipo di valutazione ha alcune caratteristiche ben precise: istituisce una gerarchia, che è sanzionata da un premio o da una punizione, connessa all’idea di avere qualcosa se si è più bravi e di non averla se si è meno bravi; si basa su standard, cioè misura la convergenza verso qualcosa di prefissato; e ha la pretesa dell’oggettività.
Non credo che questo tipo di procedure sia da scartare, da bandire del tutto, ma è solo un aspetto della valutazione, e sicuramente non il più importante. Può essere valido per un tipo di valutazione molto tecnica, su conoscenze e competenze molto elementari. Per esempio: “Pierino non riconosce gli aggettivi”. Ma se procedo verso un livello più elevato, per esempio: “Pierino è abituato ad usare il metodo scientifico nell’affrontare un problema”, questo tipo di valutazione diventa assolutamente inadeguato. Se poi prendo in considerazione cose ancora più complesse e importanti, Cioè le relazioni, la valutazione che come essere umano do di un altro essere umano, su cose come il suo collaborare coi compagni e con me, sul suo essermi simpatico o antipatico, sul mio apprezzare o non apprezzare il suo modo di essere, il suo modo di muoversi, di vestire, di parlare, è chiaro che un procedimento di tipo classificatorio non solo è inutilizzabile, ma risulta inevitabilmente dannoso. Quanto più si va verso competenze, atteggiamenti, relazioni complesse e profonde, tanto meno vale l’oggettività, cioè la presunzione che il valutatore sia esterno a ciò che sta valutando.
Insomma se identifichiamo la valutazione con la classificazione andiamo incontro a due grossi guai: il primo è che si rischia di classificare tutto, e quindi di produrre guasti gravissimi sugli esseri umani valutati; il secondo è che non si lascia spazio all’altro tipo di valutazione, che invece è importantissimo. Solo se dedico una grande cura agli aspetti relazionali della valutazione posso dire: “Per questo compito ti do 5”, e non succede nulla di negativo.
Se mia moglie mi dice: “Le tue polpette non sono buone”, ma me lo dice con un certo tono e so che per il resto la mia persona le è gradita, questo giudizio mi dispiace ma sono in grado di tollerarlo, anzi, la prossima volta cercherò di cucinare meglio. Ma se con quelle parole lei mi significa indirettamente: “Tu non mi vai!”, la cosa rischia di rivelarsi irrimediabile. E’ chiaro che in ogni valutazione siamo totalmente implicati e responsabili (anche quando mia moglie mi dice: “Le tue polpette non mi piacciono” c’è dietro tutto l’essere umano), ma è diverso se ci limitiamo al campo ristretto della mia abilità culinaria o se spaziamo nel campo ampio e profondo delle nostre relazioni.
Da quello che ho detto credo che derivino conseguenze rispetto a questioni molto specifiche. Per esempio, non ci dovrebbero essere valutazioni classificatorie su aspetti ludici, etici, estetici della vita dei ragazzi e delle ragazze: quindi il credito formativo negli esami di stato andrebbe essere abolito; sono aspetti della vita che hanno il loro valore nell’essere gratuiti e non è giusto farli invadere dalla logica del mercato. In termini più generali non credo che, se si vogliono valutare competenze complesse, le si possano misurare con semplici somme aritmetiche di punteggi.