Massimo M. Greco
Converrebbe anche ai maschi cominciare a mettere in discussione la propria identità. Alcuni hanno cominciato a farlo, sull’esempio delle femministe, mediante l’autocoscienza di gruppo e l’approccio autobiografico. Un resoconto in prima persona delle difficoltà incontrate quando i maschi cercano di parlare di se stessi.
“Sei amato solo dove puoi mostrarti debole senza provocare in risposta la forza”, Theodor W. Adorno.
Scrivo sui generi partendo da me stesso, dai vissuti con uomini e donne importanti nella formazione delle mie intenzionalità. Cercherò anche di seguire il consiglio di Robert Musil in L’uomo senza qualità: “Quei pensieri che fanno giganteschi passi sui trampoli e toccano l’esperienza solo con minuscole suole, destano a maggior ragione il sospetto di illegittimità”.
Autobiografie maschili
Le mie considerazioni nascono dal confronto con donne e uomini che hanno messo a tema la decostruzione dei significati che la tradizione attribuisce al maschile e al femminile. Su questi argomenti ho lavorato su di me, con gli altri e con le altre, soprattutto mediante l’autocoscienza di gruppo e l’approccio autobiografico.
La prima è una pratica che deriva dal femminismo e prevede la condivisione e il confronto in gruppo a partire da sé e dal proprio vissuto. Il secondo si rifà all’approccio autobiografico come metodologia di autoformazione: la scrittura di sé, individuale ma condivisa in gruppo, è orientata in questo ambito alla riflessione sui generi.
Negli ultimi decenni è diventata sempre più urgente la richiesta femminile di una decostruzione del modello maschile tradizionale, per lasciare spazio agli altri modi d’essere nel mondo. Questo genera in me ansie e resistenze: la costruzione della mia persona come “genere maschile” non è stata completata, oppure è stata ridotta a rovina, oppure abito il genere maschile come fosse rudere (sono di Roma…), oppure sono come quelle ville sull’Appia Antica costruite con il gusto della commistione fra architetture antiche e moderne.
Comunque sia, come si sosterrà questa struttura se leverò quella colonna antica, ereditata dai miei padri, che sembra reggere (così mi hanno convinto educazione, modelli e censure) l’integrità della mia persona?
Le dimensioni della violenza
Sul tema della violenza maschile contro le donne, insieme ad altri uomini, da soli e in gruppo, abbiamo preso posizione e ci siamo confrontati (vedi box), partendo dall’idea che il problema della violenza non riguardasse figure devianti, ma uomini che si muovono all’interno di categorie del maschile generalmente condivise.
Mi preme ora non tanto riportare le proposte emerse da queste iniziative, quanto una perplessità che sento nel constatare come, nonostante le attività avviate, ancora non si veda un coinvolgimento maschile forte, una messa in gioco di energie tali da avviare un processo di vera trasformazione.
Avverto insomma una resistenza maschile, nella coscienza e nelle emozioni, che sabota in me un maggiore impegno e in altri la disponibilità all’ascolto.”Violenza degli uomini contro le donne” evoca gravi abusi ma anche piccole prevaricazioni e di questi diversi ordini logici bisogna tenere conto, per non calibrare le proposte di cambiamento solo sugli stati d’eccezione.
E’ necessario poi riflettere anche sugli atteggiamenti che, come uomini, possiamo più o meno consapevolmente assumere verso il non-maschile, ovvero verso quelle condizioni in cui è proprio un maschio a compiere l’apostasia della religione tradizionale maschile, nei comportamenti (l’omosessuale, l’effeminato) o addirittura nel corpo (il travestito, il transessuale).
Quindi, la violenza si realizzerà in una dimensione materiale o immateriale: ad essere violata potrebbe essere l’integrità dell’altrui corpo, ma anche il suo campo d’autodeterminazione e libertà. Corpo, linguaggio, politica, prassi, cultura, spazi leciti e non leciti: le dimensioni dove rintracciare la mancanza di equità sono molteplici e intrecciate.
L’immobilità identitaria
Chiamati a interrogarsi sulle radici della violenza, alcuni uomini ne individuano il fondamento nella tradizione culturale, altri nel corredo biologico, altri ancora si tengono in equilibrio fra natura e cultura. Tutti quanti corriamo così il rischio di irrigidirci in un’immutabilità identitaria: testimoniamo senza accorgercene un’impotenza irriflessiva e non cogliamo l’opportunità di un apprendimento trasformativo.
Così, invece di stimolare un ripensamento, il discorso sulla violenza maschile diventa il solo ambito entro il quale come maschi riusciamo a fare ammenda. Quando però si cominciano a mettere in discussione le strutture profonde che stanno dietro la violenza, cade il senso di approvazione, autorevolezza e persino legittimazione politica da parte di non pochi uomini.
Come osserva Stefano Ciccone in Oltre la miseria del maschile: “Un uomo che sceglie di investire nella riflessione sulla propria identità sessuata appare ancora oggi, soprattutto nel nostro Paese, un po’ strano, mentre se questa scelta è dettata da una presa di responsabilità nei confronti della violenza o dell’oppressione verso le donne, la sua autorevolezza e la sua virilità ne vengono incrinate”.
Partecipare a un gruppo d’autocoscienza insomma sull’identità maschile vorrebbe dire apparire nel senso comune non-proprio-uomo. A nostro parere invece, biasimare la violenza senza mettere in discussione l’identità maschile non può bastare.
Riconoscersi oppressi
La richiesta delle donne di ripensare i ruoli è vista come unilaterale, senza coglierne l’aspetto di reciproca opportunità.Neghiamo così a noi stessi la possibilità di riconoscerci come oppressi, esiti di una pedagogia del maschile che ci costruisce con violenza morale e fisica.
Abbiamo infatti imparato perfino a incorporare i presupposti del maschile tradizionale, cioè a costruire il nostro corpo e le sue relazioni con il mondo in maniera tale che non fossero espressione di esperienze ed emozioni, ma solo strumenti.
Ci appelliamo alla Natura, ma forse difendiamo solo la nostra sicurezza psicologica e l’omertà delle emozioni, quando pensiamo che l’uomo vero non piange, non sente la stanchezza, controlla il suo eros ed è impenetrabile alle emozioni come una macchina da guerra.
In realtà, ciò che questi dispositivi culturali difendono, e quindi confermano, è una precarietà e un’insicurezza nell’essere corpo maschile. Anche quando siamo politicamente corretti, ci riserviamo spazi e comportamenti dove approfittare dei privilegi ereditati, per sfuggire a quel senso di incompletezza che, se pure attiene alla condizione umana, si articola in modo peculiare quando la si sperimenta dal punto di vista maschile.
La sacralità della Tradizione
Alcune volte una sensazione implicitamente mistica mi anima quando sono sulla difensiva su certi argomenti che riguardano il maschile. Difendo una tradizione che non può essere messa in discussione, e che vivo in modo rassicurante come un fluire metafisico e archetipico perché riferito ad un Uomo come è stato e come sarà sempre.
Trascendente e non verificabile, questo tabù è capace di sedare le angosce della libertà, dell’autodeterminazione, del cambiamento e della conseguente assunzione di rischio.Sto leggendo Adorno e con la spericolatezza del dilettante lo introduco nel discorso.
In Minima moralia l’esponente della Scuola di Francoforte individuava lucidamente una delle contraddizioni della società del Novecento: con la scusa di una natura indeformata, “là dove finge di essere umana, la società maschile educa nelle donne il proprio correttivo e rivela, attraverso questa limitazione, il suo volto di padrone spietato”, tornando così “a rigettare la dedizione femminile nella situazione della vittima sacrificale da cui ha liberato le donne”. Donna e uomo perdono così non solo “la possibilità oggettiva” ma anche “l’attitudine soggettiva” alla realizzazione di sé e al raggiungimento del piacere, che “appartiene solo al regno della libertà”.
Quella reciproca “dedizione illimitata di sé” di cui parla Adorno, alla base del piacere, è ostacolata tanto nella donna, quando è oppressa, quanto nel maschio, quando opprime, e viceversa.Perché la donna viene usata ancora oggi come vittima sacrificale dell’uomo? Quale è il sacrum facere nelle relazioni fra uomini e donne? Cosa c’è di sacro, maledetto e benedetto insieme, nei generi sessuati? Non so trovare risposte, ma mi domando quanto la violenza prevaricatrice maschile sia inevitabile e costitutiva del sacro.
Dietro potrebbe esserci un irrigidimento, una difesa, una paura del singolo, ma anche uno strumento politico per ottenere, in nome della salvaguardia del sacro, l’indiscutibile e conveniente statuto d’essere difensori d’una qualche verità, in questo caso della supremazia dell’Uomo sulla Donna.Il sacro è stato da sempre colonizzato da poteri che ne hanno usurpato il nome, che si sono autocertificati come unici garanti dell’esperienza religiosa caratterizzandola con simboli, codici e finalità moralisti, obbligati e indiscutibili.
Contro la violenza di questi poteri, anche nell’ambito delle relazioni fra i generi alcune voci chiedono l’abolizione del sacro , come se il sacro appartenesse in sé ed esclusivamente ad una civiltà da cambiare. Individuo anch’io l’artificiosità di molte fabbricazioni culturali attorno all’esperienza del sacro, ma pongo alla base della mia ricerca l’idea che il sacro non sia un attributo di qualcosa di esterno a noi, ma un’emozione interiore individuale, quand’anche raccontabile e condivisibile.
Esso entra in gioco quando si vuole proteggere qualcosa a cui si attribuisce grande valore, carattere di fondatività e estrema fragilità, in questo caso l’idea tradizionale del maschile. Allora l’interrogativo diventa come conservare la libertà di emozionarsi sacralmente senza procedere violentando la libertà dell’Altro, e con quali pratiche di libertà esprimere di volta in volta armonia e conflitto, predominanza e arrendevolezza, talento e incapacità.