intervista a S. Cotoneschi, G. Giachi, G. Lisi, C. Lorimer, L. Puttini
La Scuola-Città Pestalozzi, fondata da Ernesto Codignola nell’immediato dopoguerra per educare i ragazzi all’autogestione e all’assunzione di responsabilità, resta una grande esperienza pedagogica. Elementari e medie insieme, con lo stesso collegio insegnanti. I laboratori del fare, il teatro, l’inglese fin dai primi anni. Intervista a Stefania Cotoneschi, Graziano Giachi, Gabriella Lisi, Cristina Lorimer, Luisa Puttini.
Luisa Puttini, Gabriella Lisi e Stefania Cotoneschi insegnano rispettivamente inglese, educazione tecnica e matematica alle medie; Cristina Lorimer e Graziano Giachi insegnano alle elementari, nell’Area linguistica e nell’Area scientifica.
La Scuola-Città Pestalozzi è un’esperienza particolare, nata con determinati obiettivi, in cui i rapporti con i ragazzi sono molto più personalizzati che in altre scuole. Ce la potete descrivere?
Gabriella Lisi. Sì, è vero. Ad esempio io, che insegno educazione tecnica, ho solo tre classi, mentre se insegnassi in un’altra scuola ne avrei sei, con tre ore di insegnamento in ciascuna. Quindi lavoro con meno classi e ho più ore da dedicare ad ognuna di esse, con un vantaggio notevole per la conoscenza dei ragazzi. Inoltre il rapporto insegnanti alunni è molto elevato (c’è una maggior quantità di personale rispetto alle scuole cosiddette normali) e l’organico è molto stabile. Lo stesso vale per i gruppi classe: può capitare che ci siano ragazzi che hanno fatto insieme dalla scuola materna fino alla terza media, in un arco di tempo che sfiora i dieci anni.
C’è da dire, però, che la stabilità non ha solo aspetti positivi; per i ragazzi il processo di crescita, che non è mai omogeneo e lineare ma avviene per salti e interruzioni, può comportare anche rapporti conflittuali o dinamiche negative che, se il gruppo classe non si spezza, possono diventare anche pesanti. Tocca allora all’insegnante individuare ed esplicitare questi momenti di rottura e conflitto, elaborandoli come momenti di differenziazione del ragazzo, facendoli diventare occasioni di crescita. E’ per questo che, quando costruiamo il curricolo, non riflettiamo solo sui contenuti disciplinari ma anche sull’aspetto relazionale del nostro lavoro.
Luisa Puttini. Infatti credo che possiamo dire di aver fatto un buon lavoro quando i nostri ragazzi, in terza media, dicono: “Basta, sono stufo, ho voglia di uscire, di cambiare, di proiettarmi”. E’ come in famiglia: se tutto è andato bene, i figli a un certo punto sentono il desiderio di andare. Se invece vogliono rimanere sotto l’ala protettrice vuol dire che forse qualcosa non è andato come doveva. E ogni tanto capita che qualche ragazzo si senta orfano all’idea di uscire di qui e provi un certo timore ad affrontare l’esterno, perché questo è comunque un ambiente più familiare e protetto, dove i rapporti sono più stretti che altrove e dove forse c’è un occhio particolarmente attento ai ragazzi che presentano difficoltà.
Gabriella. E’ come quando arriva il momento di salutarsi, a fine corso o con i ragazzi della scuola inglese con cui facciamo lo scambio; noi lo chiamiamo “il lacrimometro”: più piangono più è stato un successo. Una volta è capitato addirittura che l’ultimo giorno di scuola, la barista del bar di fronte, quando siamo andati a prendere il caffè, ci abbia chiesto: “Cos’è successo, quanti ne avete bocciati?”. E noi: “Bocciati? Perché?”. “Perché c’erano ragazzi di terza media che piangevano tanto, non smettevano più”. “Ma piangevano perché è finita la scuola e l’anno prossimo non saranno più insieme”. “No, non è possibile!”.
Luisa. Certo, non tutti, nell’arco degli otto anni di frequenza, crescono allo stesso modo. Alla fine del percorso qualcuno è cresciuto di più, qualcuno di meno. Perché da una parte questa è una scuola impegnativa, che fa tante proposte e impegna i ragazzi su tanti fronti, per cui chi ha buone capacità riesce a costruirsi delle competenze complesse e ad avere relazioni positive con l’esterno; però nello stesso tempo, è una scuola che si prende cura anche dei bambini che hanno difficoltà di apprendimento, che non riescono a stare fermi, seduti; alla fine del percorso anche loro sono scolarizzati. Magari non avranno interiorizzato grandi contenuti però sanno stare in classe, entrano ed escono all’ora giusta, intervengono in maniera coerente e non urlacchiano più. E ciò rappresenta veramente un successo educativo, anche se dal punto di vista dei “parametri normali” questi bambini sarebbero considerati insufficienti. Se invece consideriamo tutto il loro percorso possiamo dire che i risultati sono stati ottimi. Ovviamente non abbiamo la bacchetta magica e a volte può succedere che il successo non arrivi.
Gabriella. Tempo fa sono venute due professoresse del Ministero, che ad un certo punto ci hanno chiesto: “Ma voi, oltre a scegliere gli insegnanti vi scegliete anche gli alunni?”. E noi: “No, gli alunni non si scelgono”.
Cristina Lorimer. Infatti sono bambini assolutamente nella norma. E nella scelta seguiamo criteri assolutamente espliciti e pubblici: come utenza abbiamo i bambini del quartiere più qualcun altro da fuori, in genere fratello o cugino di un nostro ex alunno, quindi già motivato nella scelta. Per cui, come in tutte le scuole, capitano ragazzi buoni e disciplinati e altri molto indisciplinati e conflittuali; ragazzi che imparano subito e altri che hanno tempi molto più lunghi.
Gabriella. Non è infrequente, poi, che ci siano richieste di iscrizione di bambini portatori di disagi o handicap, anzi forse la cosa qui si verifica in percentuale maggiore che altrove perché la nostra è una scuola con una lunga tradizione di accoglienza; offre laboratori, progetti, ecc. Poi, anche i ragazzi più agitati e difficili, col passare del tempo perdono la loro carica conflittuale, forse perché in questa scuola, per esprimersi e ricevere gratificazioni, trovano delle opportunità e degli spazi diversi, che non sono soltanto quelli tradizionali del leggere, dello scrivere e del contare.
Ma quali sono le particolarità della scuola?
Gabriella. Potrei farti vari esempi in ordine sparso: per prima cosa, questa è una scuola senza campanella, ci autoregoliamo tutti sull’orologio. L’autoregolamentazione è uno degli obiettivi dell’educazione all’autonomia individuale, alla consapevolezza, anche nelle piccole cose.
Certo, a volte può capitare qualche piccolo sforamento d’orario, ma fra di noi lo tolleriamo. E poi così i ragazzi non ci tolgono mai la parola di bocca, non succede che quando suona la campanella dell’intervallo tutti saltino fuori dai banchi; se poi c’è un discorso che li prende, se c’è un momento di scambio con l’insegnante scade l’ora e nessuno dice niente; ce ne accorgiamo perché arriva il collega a darci il cambio. Anche la mensa è autogestita ed è per questo che avviene in classe, per evitare l’enorme frastuono tipico delle sale mensa enormi, ma soprattutto, pur non essendo un’attività disciplinare, perché per noi rappresenta un momento educativo importante, che va gestito in prima persona dall’insegnante e non delegato a personale di serie B.
Luisa. Cerchiamo di dare alla scuola un’impronta democratica, partecipativa. Ad esempio ricordo che una volta, in prima media, il rappresentante dei ragazzi alzò la mano e disse: “Luisa, i miei compagni mi dicono di ricordarti che sarebbe ora di ricreazione”. Non me lo dissero in malo modo, non cominciarono a scalpitare, si rivolsero per via gerarchica al loro rappresentante il quale con molto garbo mi fece presente la cosa.
Gabriella. Faccio un altro esempio: quando finisce la giornata scolastica, io devo rimanere venti minuti nelle classi a mandar via i ragazzi, perché non se ne vogliono assolutamente andare, mentre quando suona la campana di solito nelle scuole tutti i ragazzi scattano fuori. Ecco, qui non suona nessuna campana, né quella tra una lezione e l’altra né quella di fine giornata scolastica.
Graziano Giachi. Inoltre non ci sono rigidità, posti inaccessibili o barriere fisiche. D’altronde la scuola è piccola e ciò favorisce questa permeabilità: i bambini sanno che ogni spazio, ogni angolo di questa scuola è anche loro. Qui, infatti non si parla mai di aule e palestre, ma di spazi, ed ogni spazio può essere flessibile e reinventabile in qualunque momento. Ovviamente un’organizzazione del genere ha i suoi pro e i suoi contro, ma per ora i vantaggi ci sembrano superiori agli svantaggi.
Detto ciò, questo non è un posto dove non si insegni, questo ci teniamo a sottolinearlo. Ci sono dei momenti in cui l’impegno richiesto ai bambini è grande, però il clima intorno a loro è diverso, più disteso, e questo fa sì che, forse, il momento dell’apprendimento abbia un minore impatto.
E’ per questo che si dà del tu alle insegnanti?
Gabriella. Sì, c’è questa forma familiare di rapporto, che però non significa mancanza di rispetto. All’inizio può sembrare una forzatura, in realtà poi, quando si è qui, viene naturale. Si inizia in prima elementare, con i bambini piccoli, che danno del tu alla maestra, la chiamano per nome, qualche volta si sbagliano e la chiamano mamma. Poi si prosegue con questo stile anche alle medie, perché alla base c’è l’idea di una comunità che, insieme all’istruzione (che certamente rimane il nostro primo obiettivo) cerca di imparare anche la convivenza, un’autoeducazione alla cittadinanza e alla democrazia; una democrazia però che rifugga dai formalismi.
Noi poi, dopo tanti anni, ce ne accorgiamo solo quando arriva un nuovo alunno, che avendo già introiettato uno stile di rapporto dove ci si dà del “lei” e le distanze nei confronti dell’insegnante sono maggiori, rimane sorpreso da questa forma di relazione più personale. A volte può capitare di essere fraintesi, e in quel caso si deve fare un po’ di fatica, ma comunque l’affermare una forma di rapporto più vicina, più colloquiale rimane un percorso interessante; in fondo il “lei” non è detto che sia un segno di rispetto, potrebbe essere più semplicemente indice di lontananza. Per esempio una volta un ragazzo proveniente da questa scuola, arrivato all’istituto superiore, ha detto al professore: “Qui ci trattate come alunni, a Scuola-Città venivamo trattati come persone”.
Quindi l’obiettivo di fondo, l’educazione alla cittadinanza, è rimasto?
Gabriella. Sì, l’educazione alla cittadinanza, alla democrazia, sono rimaste. E a Scuola-Città questo non è solo un progetto didattico (presente peraltro in tante altre scuole) ma è proprio un’aria che si respira. Certo, non ci sono più le forme strutturate di vita democratica delle origini, quando i ragazzi tra di loro eleggevano gli assessori e il sindaco, come se si trattasse di una città vera, però cerchiamo di mantenere delle forme di partecipazione autentica, reale. Per esempio i ragazzi eleggono il loro rappresentante di classe, dopodiché i rappresentanti delle otti classi (compresi quelli delle elementari) vanno a comporre il Consiglio dei Ragazzi, che si riunisce regolarmente, e di cui sono responsabili un collega e il direttore della scuola.
Cristina. Codignola pensava che dopo il fascismo, ci fosse la necessità di riformare i cittadini italiani, perciò aveva la visione di una scuola strutturata come una piccola città, in cui tutti sono importanti e hanno dei compiti e delle responsabilità verso la collettività. In tutti questi anni il nostro lavoro, frutto di continui confronti e discussioni, è stato proprio quello di adattare questa filosofia ai cambiamenti della società senza tradirne lo spirito, decidendo di volta in volta ciò che, pur essendo stato importante in quegli anni del dopoguerra, era in qualche modo superato e quello che invece doveva essere mantenuto e portato avanti.
Gabriella. Un altro elemento importante è che l’attività didattica è imperniata su una forma di progettazione e programmazione del lavoro che noi definiamo “leggera”, vale a dire che a partire da progetti molto complessi e strutturati, si cerca una progettazione imperniata su ipotesi di lavoro flessibili e aperte all’intervento dei ragazzi (anche se l’insegnante, in qualità di responsabile del progetto didattico ne mantiene saldamente le redini). Anche questo, secondo me, è democrazia perché se tutte le ipotesi di lavoro vengono decise dall’insegnante, si arriva al paradosso di negare i principi stessi ai quali tu vuoi educare i ragazzi.
Anche l’inglese è una particolarità di questa scuola. Viene insegnato già dalla prima elementare, quindi la nuova riforma della scuola ricalca praticamente quello che era già il vostro modello…
Luisa. Sì, è vero, a Scuola-Città la lingua inglese viene insegnata già a partire dalla prima elementare. Anche alle medie il monte ore è superiore rispetto alle altre scuole: sono quattro ore settimanali in prima e seconda media e cinque in terza. A queste, vanno aggiunte le ore di compresenza con le altre colleghe di lettere, di musica, ecc. e i gruppi opzionali del quarto biennio (seconda e terza media), dove si fa teatro e falegnameria in lingua inglese. Tra l’altro abbiamo sempre impiegato come docenti lettori di lingua madre, soprattutto nel primo biennio (prima e seconda elementare), perché contrariamente a quanto si potrebbe pensare, le competenze per insegnare ai bambini piccoli devono essere molto elevate, in quanto le attività sono soprattutto orali, prevedono il gioco, il mimo, la gestualità, e solo l’insegnante di lingua madre ha quella ricchezza, quel background che gli consente di proporre filastrocche, canzoni tradizionali, che magari uno che non è nativo non conosce. E poi, siccome la trasmissione avviene soprattutto per via orale, è importantissimo l’imprinting di una buona pronuncia, perché se si memorizzano dei suoni non corretti da bambini, sarà difficile eliminare gli errori da grandi.
Poi, all’interno della scuola, tutti gli insegnanti di lingua inglese hanno svolto una riflessione sulla metodologia e sui percorsi di insegnamento della materia e hanno steso un curriculum (cosa che peraltro si fa con tutte le materie) in cui si afferma che le lingue si apprendono meglio quando vengono stimolati e valorizzati tutti e cinque i sensi e quando sono coinvolte altre capacità, perché è giocando, facendo delle cose insieme, applicando la lingua in un contesto di comunicazione reale, durante la vita di tutti i giorni, che si creano delle specie di ganci a cui gli apprendimenti linguistici rimangono attaccati. Imparare esclusivamente sulla pagina scritta, sui libro di testo, forse non ha molta attinenza con la realtà di vita dei ragazzi. E’ per questo che in terza media avviene lo scambio con i corrispondenti inglesi: per dare ai ragazzi la possibilità di utilizzare la lingua in un contesto reale.
Cos’è questo scambio?
Luisa. E’ una lunga tradizione della scuola, presente già da quindici-sedici anni. I ragazzi sono in corrispondenza con gli studenti di una scuola inglese, la Oundle and Kingscliffe Middle School di Oundle nel Northamptonshire, un paesino inglese in mezzo alla campagna, e ogni anno gli allievi di questa scuola vengono otto giorni da noi, ospitati nelle famiglie, e la nostra terza media fa lo stesso: ogni anno andiamo otto giorni in Inghilterra da loro, sempre ospiti in famiglia (gli insegnanti vengono ospitati dai colleghi).
E’ un’esperienza molto forte, interessante: praticamente tutte le attività linguistiche in terza media sono finalizzate a questo scambio, poi all’esame i ragazzi portano argomenti legati all’esperienza complessiva. E ogni anno con questi ragazzi inglesi si instaurano relazioni personali per cui a volta può capitare che negli anni successivi i nostri ex alunni tornino in Inghilterra per conto proprio, mettendosi autonomamente in contatto con le famiglie.
L’insegnamento della lingua inglese a partire dalla prima elementare era già presente all’atto della fondazione di Scuola-Città?
Luisa. No, all’inizio l’inglese si cominciava in seconda elementare, poi abbiamo pensato che si potesse anticipare l’esperienza, privilegiando soprattutto il gioco e l’oralità. Infatti non si parla assolutamente di lingua scritta in prima elementare. Poi, piano piano, si comincia a riflettere anche sulla lingua, nel primo o nel secondo biennio, soprattutto quando l’esigenza nasce proprio dal gruppo classe; sono i bambini, di solito, che a furia di vedere determinate strutture linguistiche chiedono: “Ma questo qui cos’è? Perché funziona così? Perché qui è cambiato?”. Allora si prende spunto da queste domande per esplicitare i meccanismi linguistici e trovare le risposte insieme. Dalla quinta elementare in poi, invece, la riflessione sulla lingua diventa sempre più preminente. Abbiamo anche un’attività che chiamiamo “italese”, che prevede la compresenza degli insegnanti di inglese e di lettere, all’interno della quale si fa una riflessione linguistica e si comparano le strutture delle due lingue, mettendo in luce uguaglianze e differenze e facendo ipotesi sulle loro cause.
Poi, all’interno dei gruppi opzionali, c’è il gruppo di teatro, che allestisce uno spettacolo. Il gruppo opzionale ha una durata quadrimestrale, quindi il primo gruppo fa la performance alla fine del primo quadrimestre e il secondo alla fine del secondo quadrimestre. Quella del primo quadrimestre di solito è sempre allestita in tempo per essere rappresentato per gli studenti inglesi, che arrivano giusto a febbraio. Grazie a questo, i ragazzi lavorano con una motivazione forte, perché se non sono abbastanza bravi il pubblico inglese non capisce e non si diverte. Infatti quelli del primo gruppo sono generalmente più in tensione rispetto a quelli del secondo, che invece come pubblico hanno solamente le famiglie e gli amici.
I ragazzi del primo gruppo quest’anno hanno fatto una drammatizzazione di Cinderella, una Cenerentola rivisitata da Roald Dahl; in doppia versione, in inglese e in italiano, si sono fatti da soli la traduzione in versi in italiano.
Ma cosa cambia nel passaggio dalle elementari alle medie? Per esempio da più parti viene messo in luce che nella scuola italiana, mentre le elementari funzionano bene, le medie sono un disastro, e il passaggio per i ragazzini resta molto difficile…
Cristina. C’è da sottolineare che il modo in cui i bambini si relazionano tra loro alle elementari è molto diverso da quello con cui si relazionano alle medie. Alle medie il ragazzo è in una fase delicata e ci sono proprio modi diversi di affrontare il mondo e la vita. Le medie rappresentano anche un momento in cui si cerca la differenziazione dall’adulto. Mia figlia recentemente mi ha fatto una battuta: “Sai mamma, sono così contenta che tu insegni alle elementari perché io alle mie maestre volevo bene, invece ai professori delle medie nessuno vuole bene”. Quindi cambia proprio il tipo di relazione. Poi, in realtà, sappiamo che si creano rapporti molto significativi anche con gli insegnanti delle medie.
Stefania Cotoneschi. Effettivamente i ragazzi delle medie sono un’altra realtà, e il salto avviene proprio tra la quinta elementare e la prima media. Anche se a Scuola-Città lavoriamo in continuità e già in quinta elementare si comincia a preparare il passaggio alla scuola media, in questa fase si verificano delle discontinuità, sia a livello delle discipline che dell’organizzazione oraria, che incidono molto sul modo di lavorare con i ragazzi. I ritmi sono molto più incalzanti, ti impediscono di evadere dall’organizzazione rigida della giornata, perché sai che finisce l’ora e arriva il collega. Ci sono, sì, due ore consecutive della stessa materia, il che consentirebbe un certo respiro, però sono ore di cinquanta minuti per cui prima dell’intervallo di metà mattina se ne inserisce sempre una terza che ti costringe a dire: “Beh ragazzi, volevamo parlare anche di questo ma non ci riusciamo, ne parleremo domani”. E questo almeno io lo sento come un vincolo forte, che in certi momenti mi disturba. Mentre invece nella scuola elementare si cerca sempre di avere dei tempi un po’ più distesi.
E poi i ragazzi più grandi sono molto più dispersivi, molto più attratti da quello che succede fuori dalla scuola; le dinamiche fra loro diventano più delicate, viene fuori il discorso maschio-femmina, con tutto quello che comporta; inoltre sono molto più attenti alla considerazione dell’insegnante nei loro confronti. Bisogna stare molto attenti: è fondamentale che si sentano rispettati come persone. Mentre per i bambini piccoli il rispetto dell’insegnante è quasi implicito perché è rivestito di affetto, quindi passa per altri canali, nella scuola media bisogna veramente adottare delle strategie per far sentire loro che tu, insegnante, li rispetti, indipendentemente dai loro risultati scolastici.
Un altro aspetto importante di questa scuola è la collaborazione tra insegnanti. Io ad esempio quest’anno sono passata dalle elementari alle medie e devo dire che in questo passaggio mi sono sentita tutorata dai colleghi in modo sorprendente; e certo non è facile chiedere aiuto a un collega, magari dopo trent’anni di insegnamento: “Dimmi tu, perché io in questo caso non so che fare”. Ecco, qui è normale chiedere sostegno.
Cristina. Il fatto di non dover essere per forza perfetti in tutto, il poter esplicitare le proprie difficoltà è molto positivo, perché dà la possibilità ai colleghi di aiutarti, e questo è bello anche per chi ti aiuta; si instaura un diverso spirito di collaborazione tra insegnanti. Ad esempio può capitare che in una classe dei ragazzi entrino in contrasto con l’insegnante. Allora, ci sono due possibilità. O il tuo collega reagisce dicendo: “Ma no, con me non succede, con me è bravissimo”, e questo è ciò che accade normalmente nelle scuole tradizionali, e ti fa sentire proprio un’incapace, oppure ti rassicura: “Va bene, probabilmente in questo momento ci sono degli aspetti di quel ragazzo che ti mettono in difficoltà, magari ti sta sfidando -perché sono cose che capitano, fasi che si attraversano- me ne occupo di più io, in maniera che tu possa superare questo momento. Vediamo cosa possiamo fare insieme affinché la situazione si rilassi e tu possa lavorare meglio”. Ma questo parte dal presupposto di un lavoro collettivo, di uno scopo comune, e dal fatto di considerare i ragazzi come persone, con le loro differenze e conflittualità. E’ importante poter dire: “Questa cosa per me è difficile”, perché nessuno nasce avendo superato tutte le proprie difficoltà.
Stefania. Questa cosa vale anche per i ragazzi. Credo che, tutto sommato, non sia così comune accettare l’idea che una determinata cosa è difficile anche per l’insegnante. Qui è normale che un insegnante dica ai ragazzi: “Beh, non vi so rispondere subito. Cercheremo, vedremo insieme di affrontare questo problema”. Questo è molto educativo, secondo me.
Cristina. Così com’è educativo dire davanti ai ragazzi: “Ora chiediamo al collega” perché il messaggio è che la collaborazione va sempre incoraggiata. E questo vale sia per i rapporti fra persone ma anche fra discipline.
Come sono strutturati i laboratori?
Gabriella. I laboratori sono quattro, e sono caratterizzati per area disciplinare, c’è la falegnameria, che è più collegata all’area tecnica, la biblioteca e il giornale, più legati a quella linguistica, poi c’è il teatro, che investe l’area espressiva. Si comincia già in prima elementare, e i bambini li frequentano almeno una volta alla settimana; la stessa cosa succede alle medie: per alcune discipline, come educazione tecnica, educazione fisica, educazione musicale, ecc., il carico di ore e di classi è minore rispetto alle altre scuole per cui l’insegnante investe il resto del monte ore nei laboratori.
Ma sono una particolarità di questa scuola?
Luisa. So che ci sono molte altre scuole che fanno dei laboratori pomeridiani, soprattutto di teatro, ma sono in aggiunta al monte ore normale. Qui invece fanno parte dell’orario scolastico. Poi, esperienze come la cucina, la falegnameria non sono così comuni nelle scuole a conduzione normale, qui invece fanno parte del curricolo. Inoltre, di solito, i laboratori sono più diffusi nelle scuole superiori, perché hanno più flessibilità, maggiori disponibilità economiche e un organico più consistente rispetto alle scuole medie. Ci sono istituti, come il Volta o il Capponi, che svolgono alcune discipline in lingua straniera, ad esempio geografia in francese, e hanno in atto tanti scambi con l’estero, mentre invece nelle scuole medie di scambi se ne fanno assai pochi; c’è qualche soggiorno linguistico estivo con le varie organizzazioni, ma è tutta un’altra cosa, non è uno scambio, è semplicemente un viaggetto all’estero.
Questo non toglie che in tante scuole si facciano delle cose bellissime, molto significative.
Gabriella. C’è da dire che nella scuola -cosiddetta- a tempo pieno non c’era la distinzione tra tempo scolastico vero e proprio e doposcuola, era tutto integrato in tempo di scuola complessivo, quindi anche i laboratori avvenivano di mattina, poi, piano piano… Il modello che ci viene proposto al momento attuale invece abbassa il tempo scolastico propriamente detto e dà molto valore a quelle che sono considerate le discipline di base, cioè italiano, storia e geografia; ne consegue, per forza di cose, che a venir sacrificate saranno quelle discipline come educazione artistica, educazione musicale, che verranno sfilate dall’orario scolastico ed organizzate in laboratori pomeridiani facoltativi. Oltretutto, in questo modo sarà la famiglia a scegliere, anche perché spesso sono corsi a pagamento, organizzati dagli insegnanti ma anche da cooperative esterne. Allora, con l’idea di fare partecipare maggiormente la famiglia alle scelte scolastiche dei ragazzi, in realtà si privatizza un pezzo di scuola e si parcellizza una scelta familiare, che non avviene all’interno del confronto scuola-genitori e non si caratterizza più come un profilo dell’offerta scolastica.
Cristina. Anche per gli alunni questa scuola diventa problematica: puoi avere pochi soldi a patto di essere intelligente; uno non può avere pochi soldi e non essere talentuoso. Secondo me questo è un aspetto gravissimo. Infatti a me le borse di studio fanno venire un gran nervoso, è come dire: “Se non hai i soldi ti do la borsa di studio, a patto che tu sia molto bravo”. E quelli che sono medi, e che se avessero i soldi potrebbero fare anche loro il proprio percorso? A loro niente?
Alla fine, un atteggiamento che apparentemente sembra andare incontro alla gente, in realtà trasmette un messaggio diverso: “Noi vi vogliamo solo se siete il massimo”.
Invece da voi i laboratori come funzionano? Fanno parte dell’orario scolastico?
Graziano. Da noi cominciano già alle elementari. Man mano che il curricolo va avanti, i linguaggi specifici, tipici di ogni area, si trasformano e si adeguano all’età dei ragazzi. Ad esempio, per i bambini piccoli il teatro rappresenta uno spazio in cui poter drammatizzare, giocare, travestirsi, assumere ruoli; poi, da una certa classe in avanti, le competenze accumulate negli anni precedenti -la capacità di stare in scena, di drammatizzare le storie- vengono arricchite dai linguaggi specifici, parallelamente acquisiti, in questo caso l’inglese. Così i ragazzi possono fare una sintesi delle proprie conoscenze e fonderle in questa esperienza con maggiore naturalezza. Certo, anche nelle altre scuole si può fare una recita in inglese, non è questo il problema, è che qui a un certo punto appare come una cosa naturale. Così come è naturale che di alcune nozioni scientifiche o matematiche si possa verificare la significatività in un’esperienza concreta, fino al punto che anche competenze così distanti come la matematica o le scienze possono diventare occasioni per fare teatro. Ma, ripeto, con un elemento di naturalità che penso faccia la differenza. Perché ogni scuola può allestire uno spettacolo teatrale su Galileo, però la mancanza di artificiosità con cui in questa scuola si mettono insieme le competenze mi sembra un “in più”.
Gabriella. In questo modo le competenze rientrano in circolo in continuazione. Qualche tempo fa una nostra collega ha accompagnato un gruppo di ragazzine a una puntata di Rai Educational dove si parlava dell’insegnamento dell’inglese nella scuola dell’obbligo. Ecco, si vedeva che queste ragazzine, alle quali non erano state assolutamente comunicate precedentemente le domande, erano molto tranquille, disinvolte; oltre alla competenza linguistica c’era una certa sicurezza, la mancanza di timore a parlare con degli estranei, in una situazione di quel tipo. In fondo, anche il teatro è un confronto con il pubblico. Che il pubblico sia la tua classe, le altre classi, i tuoi genitori o i bambini più piccoli, per i quali rappresenti la favola di Cappuccetto Rosso, non fa differenza. E poi il linguaggio teatrale, così complesso, è sempre un momento di ricerca di sé, che ha a che fare con la costruzione di un percorso di autostima. Quando vedo gli spettacoli che allestiscono i nostri ragazzi penso che non sarei in grado di fare nemmeno la metà di quello che riescono a fare loro, perché sono cose molto emozionanti, che fanno ridere, commuovono; fanno parti buffe, ironiche alcuni prendono in giro se stessi. Insomma, non è mica facile far ridere il pubblico con quello che stai facendo. Per esempio, hai visto qualche faccia stupita, qualche lampo di curiosità, quando sei entrato? Qui c’è gente che continuamente va e viene, è abitudine parlare, confrontarsi con gli estranei, con la gente che viene in visita. Secondo me questo è un pezzo di educazione che non si può realizzare né con un progetto né facendolo rientrare in un’area disciplinare, ma è frutto di un clima, di uno stile di vita.
Ritornando ai laboratori alle elementari: quindi non c’è il maestro unico?
Gabriella. E’ una delle linee originarie. La scuola è nata infatti con l’idea che, come si dice qui, non ci può essere il maestro tuttologo, esperto di tutte le discipline, e quindi è strutturata su insegnanti specializzati in aree, con una ricchezza di personale che non va però a discapito della relazione. Perché non è vero che più i bambini sono piccoli, meno è importante che l’insegnante abbia delle conoscenze.
E’ vero il contrario, soprattutto se pensiamo che quasi tutta la ricerca pedagogica più moderna identifica nei primi anni di scolarizzazione il periodo più delicato e difficile, ma anche più interessante per la costruzione delle conoscenze. Certo, per ottenere questi risultati deve essere potenziato il lavoro di equipe. Il problema, secondo me, è che per fare tutto questo, le ore destinate al lavoro di riflessione tra adulti sono tante e rientrano solo in parte nel calendario sindacale. E questa è una cosa difficile da accettare fuori di qui. D’altronde quello dell’insegnante che riflette sul proprio lavoro, che lo documenta, che si aggiorna e collabora a progetti di innovazione, è un profilo professionale molto impegnativo, indipendentemente dall’età dei bambini con cui lavora.
Ma con i maestri specializzati per aree la relazione non ne risente?
Graziano. La relazione insegnante-allievo, con un insegnante solo, ha alcune caratteristiche che sono ad esempio la chiarezza dei ruoli e l’individuazione di chi è il depositario delle conoscenze. Se gli adulti invece sono due, tre o quattro, la relazione si integra e il ragazzo impara che ogni insegnante è portatore di conoscenze specifiche. In questo modo la figura e la funzione dell’insegnante, cioè di colui che conduce l’apprendimento e il gruppo, facilitandone il lavoro, vengono identificate con più persone. Ma la relazione non viene sacrificata perché si riproduce con ognuna di queste figure che di volta in volta rivestono la funzione dell’insegnante. Teniamo conto che qui il lavoro di cura della relazione viene fatto in maniera molto accurata. Non è detto che la relazione si sviluppi meglio con un’unica figura adulta; non sono rari né infrequenti “accidenti” di percorso che la rendono difficile e problematica, e in questi casi, se il bambino ha un’unica figura di riferimento e si gioca tutta la relazione con lei…
Parlavate anche di un progetto sull’educazione affettiva…
Cristina. Sì, è un progetto che si articola in più settori, assunto da tutta la scuola attraverso una delibera del collegio docenti, che ha stabilito che la mia cattedra venisse dimezzata, in modo da potervi dedicare metà dell’orario. Quindi una parte del mio monte ore la passo in classe, nel tempo restante svolgo delle attività nelle classi che lo richiedono, in collaborazione con gli insegnanti, su vari temi relativi all’affettività.
E’ un lavoro che parte da Star bene insieme a scuola, un testo di Donata Francescato, colei che insieme ad altri ha portato in Italia questa metodologia, che noi abbiamo chiamato “educazione affettiva”. Il progetto vuole rendere migliore lo stare a scuola, a livello di relazioni, di modalità di ascolto e di confronto, perché siamo convinti che alla base di ogni apprendimento c’è la relazione. E se a scuola non si sta bene…
All’interno del progetto, abbiamo svolto varie attività: sulla differenza di genere, sui gruppi, sulla mediazione dei conflitti, a seconda degli interessi e delle problematiche espressi delle diverse classi. Con i bambini abbiamo fatto anche un lavoro sul “tempo del cerchio” (è una traduzione dal circle time inglese). Si tratta di una particolare modalità di espressione che aiuta i bambini a parlare dei loro problemi, delle cose che stanno loro a cuore o li preoccupano: si spostano i banchi e si mettono tutte le sedie in cerchio, dopodiché -queste le regole- tutti possono parlare o tacere, a seconda degli stati d’animo; ci si ascolta a vicenda, non ci si giudica, non si utilizza in altri contesti quello che lì viene detto. E’ un momento di condivisione di emozioni, preoccupazioni e paure. Per esempio, con i ragazzi di una classe abbiamo parlato di cosa significa avere i genitori separati, cosa si prova, quali sono le preoccupazioni, i dubbi; oppure di che cosa vuol dire avere dei fratelli o cosa accade quando te ne nasce uno nuovo. Sono temi che nascono dai bambini, che sono i reali protagonisti del progetto; l’insegnante è solo un coordinatore che al massimo fa il punto della situazione. Alle elementari cerchiamo di farlo almeno una volta ogni quindici giorni; alle medie invece un po’ più di rado perché c’è comunque meno tempo, però è un’esperienza molto significativa. Sempre con i ragazzi delle medie ci siamo incontrati una volta alla settimana per trattare temi di più largo respiro; in una classe abbiamo parlato di cosa significhi essere maschio e femmina, che cosa succede a quell’età, quali sono le fantasie, le preoccupazioni; in un’altra abbiamo lavorato sulla mediazione dei conflitti, affinché i ragazzi stessi imparino a diventare mediatori dei loro conflitti. E’ una modalità che abbiamo sperimentato per la prima volta e devo dire che è stata un’esperienza molto bella, sia per noi che per i ragazzi.
A fianco di queste esperienze, c’è un’attività di sportello che si svolge il martedì nell’intervallo pranzo, durante il quale i ragazzi possono venire a parlare dello loro questioni; sono venuti singolarmente, a coppie, a gruppetti, a seconda delle necessità, oppure, a volte, anche su mio esplicito incoraggiamento: “Mi piacerebbe sapere cosa pensi a proposito di questo problema specifico”. Allora i ragazzi vengono e hanno la possibilità di parlare. Da parte nostra non c’è alcun atteggiamento di giudizio.
Inoltre, abbiamo organizzato degli incontri serali con i genitori, incentrati su temi che stavano loro a cuore: come parlare della guerra ai bambini, come usare la televisione, cosa significa l’autonomia, quanti soldi dare per la paghetta e se darla, come intervenire sui compiti, se aiutarli o meno. A volte emergono richieste di approfondimento su tematiche particolari, ad esempio cosa significa fare gruppo per un bambino; quali sono le aspettative che i bambini hanno dalle loro famiglie e dalla scuola. E’ importante tra l’altro segnalare che la gestione stessa degli incontri è stata di gruppo, i genitori si sono confrontati, aiutandosi e dandosi reciprocamente dei suggerimenti per cui in realtà il mio compito è stato più che altro quello di raccoglierli e rimetterli in circolo per renderli utilizzabili da tutti.
In questo progetto è prevista anche una forma di supporto agli insegnanti che desiderano impegnarsi in prima persona nelle proprie classi. Tutto questo lavoro, infine, ha portato alla stesura di una specie di curricolo dell’educazione affettiva.
Sono cose che si fanno anche in altre scuole?
Cristina. So che all’educazione all’affettività ci sono degli accenni anche nella riforma, ma non sappiamo come verrà messa in pratica. Nelle altre scuole è frequente che ci siano sportelli (forse più nelle scuole superiori) oppure la presenza di uno psicologo. Qui, la caratteristica particolare è che io svolgo sia la funzione di insegnante che di psicologa. All’inizio abbiamo avuto qualche perplessità perché temevamo una confusione di ruoli, in realtà, poi, proprio il fatto che i ragazzi mi conoscessero già ha fatto sì che non mi considerassero un’estranea.
Gabriella. Progetti di questo tipo vengono portati avanti anche nelle altre scuole, ma di solito hanno la caratteristica di essere in qualche modo “puntiformi”, di interessare cioè solo una determinata classe in un determinato anno, senza casomai ripetersi o estendersi a tutta la scuola; spesso, del resto, sono legati soprattutto a possibilità offerte dall’esterno, dal quartiere o da altri enti, e accolte da quel singolo insegnante o consiglio di classe. Invece per noi aderire a un progetto del genere significa investire tutta la scuola, partecipare tutti insieme ai lavori di preparazione e realizzazione, utilizzando parte del monte ore delle nostre discipline. In fondo, è un modo, anche per noi, di fare formazione interna, di crescere come insegnanti e di acquisire determinate competenze. Anche questa è una caratteristica di Scuola-Città; io, infatti, sono convinta che tutto ciò che ho imparato, come insegnante, l’ho appreso qui dentro dai miei colleghi. Teniamo presente che ora per chi vuole insegnare ci sono le lauree abilitanti, mentre ai miei tempi c’erano solo le lauree specialistiche, che non comprendevano affatto riflessioni sulla didattica e sui metodi di insegnamento.
Certo, anche noi iniziamo con esperimenti in classi pilota, che procedono poi per contaminazioni successive. Ad esempio, su quest’attività di educazione affettiva ha iniziato Cristina nella sua classe, anche in maniera un po’ spontanea, poi piano piano si sono aggregati anche gli altri insegnanti.
Cristina. Col tempo, addirittura è stato deciso di fare un laboratorio di adulti per mettere a punto un curricolo per l’educazione affettiva. Di qui il mio parziale distacco dalla classe per poter lavorare in tutte le altre. Quindi è stato un lavoro di maturazione collettiva, che peraltro ha presentato le difficoltà tipiche di un’attività nuova: “Ma questo cosa significa? Che dovremo fare meno matematica? Qual è il senso di questa cosa?”. Ci sono stati anche momenti di discussione piuttosto animata, come sempre quando le cose ti stanno a cuore, ma è stato comunque un percorso in cui la scuola è cresciuta. Perché l’aspetto importante della questione è che su un tema così nuovo per la scuola italiana, come l’educazione affettiva, ci siano già delle sperimentazioni in atto che hanno dato risultati positivi.
Gabriella. Riflettere sulla relazione è importante perché è un aspetto pervasivo, che va al di là delle materie e delle discipline, però io ho bisogno di un approfondimento costante anche rispetto al mio campo disciplinare, altrimenti mi sento scoperta. Se si insegna male la matematica, è ovvio che dopo si ha bisogno del momento di recupero psicologico. Per spiegare il mio lavoro mi piace usare una metafora: il paradigma della complessità è come andare in bicicletta, per stare in equilibrio bisogna muoversi, perché se si sta fermi si cade, e ci vogliono entrambi i piedi per pedalare.
Un altro aspetto che mi colpisce è che qui c’è una continuità forte tra elementari e medie. I ragazzi sono tutti qui, nei corridoi, si incontrano, si conoscono…
Luisa. Sì, c’è una continuità vera, anche fisica perché siamo nello stesso edificio. Ed è una continuità che riguarda anche gli insegnanti, perché fanno tutti parte dello stesso collegio docenti, per cui i contatti sono stretti, si lavora sempre insieme. Poi, nel cosiddetto biennio “cerniera” (quinta elementare e prima media), quasi tutti gli insegnanti delle medie cominciano a lavorare in compresenza coi maestri delle elementari. E comunque i ragazzi li incontriamo tutti i giorni nei corridoi, li vediamo muoversi, comportarsi nelle varie situazioni, i colleghi ce ne parlano, insomma li conosciamo già prima che arrivino nelle nostre classi.
Poi c’è una continuità di curricolo, un esempio particolare è la storia: i vari periodi storici non vengono ripetuti identici alle elementari e alle medie. Qui si comincia l’attività storica vera e propria a partire dalla quinta elementare, fino ad arrivare in terza, dove si fa anche il secondo dopoguerra, che di solito non si fa mai. In terza e quarta elementare, invece, si fa attività di storia in maniera più propedeutica, imparando a rendersi conto del valore del tempo, di che cosa significa il passaggio delle generazioni, il vissuto dei propri nonni e bisnonni…
Gabriella. Poi, quando in terza media studiano il secondo dopoguerra, lo fanno con un approccio di tipo progettuale; più che seguire il libro di testo raccolgono e utilizzano una serie di documentazioni e fonti storiche di vario genere: film, video, giornali, canzoni. I ragazzi vengono invitati anche a consultare le famiglie, visto che è un periodo di storia abbastanza recente…
Con i ragazzi usiamo spesso anche la metafora degli occhiali: “Proviamo a guardare, ad esplorare questa cosa con gli occhiali dell’italiano, della matematica, ecc., e vediamo cosa si può imparare”. Ma per poter fare questo bisogna avere davanti un oggetto concreto e non qualcosa di astratto, immateriale; non l’idea del bello ma casomai un giardino, perché poi l’attività è duplice: in primo luogo c’è l’elaborazione dell’immagine, delle sensazioni, che quel giardino rimanda, e successivamente la sua esplorazione attraverso i linguaggi disciplinari. Così, quando arrivano in prima media, i ragazzi hanno già l’idea di cosa fare con l’italiano, con la storia, con la matematica e sono essi stessi a formulare le ipotesi su quello che si può esplorare e imparare da un oggetto o da un ambiente. Ogni disciplina costituisce un metodo di analisi e di lettura del mondo che, da solo, è imperfetto. I vari linguaggi disciplinari vanno allora rimessi tutti insieme e ricollegati alla complessità dell’individuo, anche attraverso i percorsi delle emozioni e delle sensazioni fisiche; non dimentichiamo, infatti, che il primo approccio con la realtà, le prime conoscenze, avvengono attraverso i sensi.
Questo processo avviene anche per la matematica, che a prima vista sembrerebbe la materia più astratta e lontana dalla realtà: noi ricerchiamo situazioni concrete alle quali applicarla, affinché i ragazzi capiscano che anch’essa è uno strumento indispensabile per capire un pezzo di realtà, strumento senza il quale quell’oggetto o quella situazione ci risulterebbero incomprensibili.
Quindi la formazione viene vista come un intreccio di tutti i canali che l’uomo ha a disposizione per conoscere: quello intellettuale, quello emotivo, quello fisico, quello della fantasia. E quando un canale di apprendimento è bloccato, magari quello intellettuale, per rimetterlo in circolo bisogna agire su un altro. A volte per sbloccare un ragazzino in matematica conviene fare un po’ più di teatro…
Poi, fra l’altro, con questo metodo si costruiscono anche relazioni personali tra colleghi che non sono quelle di semplice condivisione del lavoro. Non siamo solo colleghi, qui c’è una comunità che lavora, che apprende insieme… E noi sperimentiamo ogni giorno che questo non solo è possibile, è anche molto stimolante.
Parlando di apprendimento attraverso canali sensoriali ed emotivi, che importanza può avere un giardino come il vostro?
Graziano. Qui c’è un ambiente naturale invidiabile, un labirinto naturale; per un bambino è un sogno poter scorrazzare in un arbusteto di questo tipo.
Ma era già annesso alla casa?
Graziano. No, questo giardino risulta, storicamente, dalla fusione del chiostro della chiesa di Santa Croce col giardino della famiglia Corsi, che abitava nell’edificio accanto, una famiglia ricca e importante di Firenze. In più, abbiamo utilizzato gli annessi di questa casa, le stalle, ecc. In un secondo momento, il Comune è intervenuto e ha trasformato anche l’abitazione nobiliare accanto in una scuola, la Vittorio Veneto, e ha reso utilizzabile il giardino. Infine, tre o quattro anni fa, il giardino ha subito un intelligente restauro strutturale che ha tenuto conto del disegno originale ottocentesco, però, nello stesso tempo, anche del fatto che attualmente è il giardino di una scuola. Allora sono stati inseriti campi esplorativi, vialetti, punti di gioco, di cui i bambini possono far parte senza sentirsi schiacciati dalla significatività del monumento, e nello stesso tempo, evitando di comportarsi come se fosse una landa di terra di cui fare quello che si vuole.
Cristina. Fra l’altro di questo giardino usufruisce anche la Vittorio Veneto, la scuola accanto, perché anch’essa vi si affaccia. Tra i ragazzi delle due scuole, quindi, ci sono momenti di incontro e, a volte, anche di scontro; c’è chi ritrova gli amici della materna, ma ci sono anche momenti di contrasto. Prima c’era una rete che divideva i rispettivi spazi, ora è stata tolta, per cui non ci sono più confini, è tutto aperto e si vive insieme, facendo i turni per i campi di calcio, ecc. Anche questo è un lavoro non da poco, continuamente da affinare.
Graziano. Inoltre nel giardino si affaccia una biblioteca comunale di quartiere per bambini; quindi anch’essa ne usufruisce, soprattutto in occasione di un concorso letterario che si tiene una volta all’anno.
Sentendo tutti i vostri discorsi, sembra che ogni insegnante si faccia carico della scuola in toto…
Stefania. E’ quello che ci ha permesso di andare avanti relativamente bene anche nel periodo in cui siamo stati senza direttore e proprio un insegnante si è fatto carico di tutto. Nella scuola, generalmente, ogni insegnante ha il suo pezzettino, magari anche importante, però sempre un pezzettino, e non ha il quadro intero della situazione. Da noi succede il contrario, un po’ perché la scuola è piccola, quindi più gestibile, e poi perché per ognuno di noi venire ad insegnare qui è stato il frutto di una scelta; scelta che non riguarda una singola materia, ma lo spirito e i metodi di un’intera scuola.
Ma quali sono le motivazioni che vi mandano avanti?
Cristina. Forse la possibilità di lavorare in gruppo. In questo senso la nuova riforma sta andando in direzione opposta perché con la proposta dell’insegnante prevalente si elimina l’opportunità di lavorare insieme. Noi addirittura abbiamo degli momenti extra scolastici in cui ci troviamo tra adulti per fare dei laboratori scientifici, linguistici, ecc., all’interno dei quali discutiamo sui contenuti delle nostre discipline e su come insegnarle. In questo modo, confrontandoci continuamente come gruppo, ci sosteniamo reciprocamente e l’entusiasmo gira; se qualcuno in un determinato momento si sente un po’ a traino ha sempre qualcun altro che lo sprona ad andare avanti. C’è una battuta molto divertente di una collega che è andata ad insegnare in un’altra scuola e parlando col direttore, ha detto: “Vengo da una casa e mi hai messo in un condominio”. Ora, questo è un pregio, ma per certi aspetti può essere un difetto perché se il primo momento di socializzazione è così accogliente magari i ragazzi… Però è anche vero che, come dicevano gli indiani, c’è tutta la vita per incontrare difficoltà, perché dobbiamo cominciare fin da piccoli?
Del resto i progetti nascono grazie al fatto che ci sono più insegnanti, che quindi possono avere momenti di compresenza e affrontare temi comuni da angolazioni diverse. E questo è un elemento che fa gruppo, che motiva moltissimo, perché ognuno sente che la propria parte è importante ai fini del tutto. La nostra forza nasce proprio dal fare delle cose insieme. Qui sei chiamato a partecipare alla vita della scuola nella sua interezza; non è un luogo dove fai le tue ore di lezione e te ne vai. Purtroppo anche questo è un aspetto in controtendenza: oggi vengono privilegiati il rendimento e l’iniziativa individuale e l’insegnante viene incoraggiato a fare solo la propria materia.
Gabriella. Ora una parte del nostro monte ore viene investito nel Centro Risorse, dove si fa documentazione della nostra sperimentazione, allo scopo di diffondere e rendere esportabili i nostri modelli anche ad altre scuole. E’ un modo di metterci al servizio della scuola, di non fare le cose solo per noi.
Luisa. Io credo che questa scuola dia delle opportunità notevoli; siamo sempre al corrente della didattica più aggiornata, siamo coinvolti in progetti di vario tipo e collegati con vari enti, con l’università; abbiamo la possibilità di essere sempre a contatto con una scuola viva, proiettata in avanti, che raccoglie gli stimoli, le proposte e le sfide. Qualche tempo fa siamo stati scelti dall’università per portare avanti un progetto di educazione ambientale importante e innovativo. Un progetto che ci ha arricchiti sul versante della metodologia, e che poi abbiamo applicato anche in altri ambiti, in altri progetti. Inoltre, alcuni nostri insegnanti hanno collaborato anche con la facoltà di Scienza della formazione, su progetti di ricerca.
Un altro elemento importante è che la scuola noi la sentiamo come un vero e proprio luogo di cooperazione. Qui tra gli insegnanti non ci sono quelle distanze che puoi trovare ad esempio nelle scuole molto grandi, dove praticamente hai contatti solamente con i colleghi del tuo consiglio di classe e poco più. Qui ognuno si sente veramente parte di un gruppo, di cui fanno parte non solo i colleghi, ma anche i ragazzi, i genitori, il personale. E poi l’avere un organico arricchito rispetto alla normalità ci consente di avere più compresenze, di fare esperienze con gruppi più piccoli.
Infine, anche per me il Centro Risorse è importante, ci consente tutta una serie di opportunità e di scambi che fuori di qui è difficile trovare: oltre al lavoro di documentazione facciamo i formatori in corsi di aggiornamento con pacchetti formativi elaborati da noi, che andiamo a presentare nelle altre scuole; facciamo da tutor agli studenti e agli insegnanti in formazione, ecc.
Non c’è il rischio che una scuola così impostata con una sua storia particolare, non riproducibile altrove, resti veramente una cosa a sé?
Gabriella. Questa è una giusta osservazione. Ce l’hanno detto anche quelli del Ministero: “Non vi offendete, ma sembrate una scuola privata”.
Cristina. In realtà è una considerazione significativa, perché vuol dire che qui mettiamo tutta quella cura che di solito si trova solo nella scuola privata, dove l’utenza paga. C’è da dire che qui il numero di ragazzi è forzatamente limitato a causa degli ambienti ristretti. Ogni anno le domande di iscrizione alla prima elementare sono quasi il doppio dei posti disponibili. D’altra parte, una scuola sperimentale forse è giusto che sia piccola, perché deve appunto sperimentare, per poi rendere esportabili i propri modelli anche a scuole che hanno ben altri numeri.
Gabriella. A questo proposito, c’è da dire che noi cerchiamo di fare documentazione di ciò che è esportabile, proprio a livello di modelli di lavoro, stili di insegnamento, approcci metodologici. E’ per questo che ci siamo proposti anche come centro risorse per altre scuole e altri colleghi.
Cristina. Ultimamente abbiamo ricevuto qualche critica e stiamo riflettendo molto su come fare a mantenere il nostro impianto metodologico aumentando però il numero di alunni. Cerchiamo di andare verso l’esterno in modo che questa scuola sia veramente un laboratorio di ricerca.
Ma quanto conta la scuola nella vita di questi ragazzi?
Cristina. Restano a scuola otto ore e spesso nel tempo libero vanno a casa di questo o quel compagno, oppure rimangono qui a fare musica o attività in palestra. I bambini di sei, sette, otto anni, lavorano anche otto-nove ore al giorno.
Graziano. Questa scuola tende anche a rendere più fluido il passaggio tra l’esperienza familiare e quella scolastica. Una delle nostre preoccupazioni, infatti, è che la vita dei bambini qui a scuola sia in qualche modo in comunicazione con la vita familiare, quella del fine settimana. Che non significa dire: “Ci avete dimostrato la vostra fiducia scegliendo questa scuola; adesso, da qui in avanti ci pensiamo noi”. Ci pensiamo noi, ovviamente, per tutto quello che riguarda l’apprendimento ma, siccome la vita dei ragazzi non è fatta solo di questo ma anche di esperienze concrete, ci deve essere un continuum tra scuola e famiglia: un bambino di sei, sette anni sta otto ore a scuola, poi, alle 16.30, quando esce va in un posto completamente diverso, con modalità di rapporti differenti. E’ per questo, per rendere questo passaggio il più sereno possibile, che la scuola è aperta all’esterno, al quartiere, alle famiglie.
Quindi anche il rapporto con i genitori qui funziona bene? Altrove mi dicevano che ormai il genitore è diventato il sindacalista del ragazzo…
Cristina. Molto dipende dall’atteggiamento con cui ci si pone. Non tutti i genitori sono così collaborativi, alcuni ti mettono in difficoltà, però se si parte dal presupposto che stiamo lavorando insieme nell’interesse del ragazzo… Certo, se l’insegnante si pone con l’atteggiamento: “Ora ti dico tutte le cose brutte che ha fatto tuo figlio”, allora è chiaro che il genitore si mette subito sulla difensiva. Invece noi cerchiamo, nel limite del possibile, di dire: “Il ragazzo ha un problema. Cosa possiamo fare insieme per sostenerlo?”. Questo però significa cambiare totalmente visuale; ovviamente non sempre si riesce a instaurare un rapporto, capita il genitore che dice: “No, il problema è vostro, siete voi che sbagliate”. Poi ci sono genitori che telefonano, vengono qui, raccolgono materiali, trascorrono le serate in riunioni, fanno volontariato per tenere aperta la biblioteca di pomeriggio per consentire ai bambini lo scambio dei libri. E’ nata anche un’associazione molto attiva, il Gasc (Genitori di Alunni di Scuola-Città).
Inoltre, noi, come scuola abbiamo un progetto con una città brasiliana, Florianopolis, si chiama “Brasile è un aquilone”, che prevede uno scambio culturale e professionale fra insegnanti. Ebbene, i genitori hanno organizzato una giornata di festa, qui in giardino, per raccogliere finanziamenti e hanno fatto tutto loro: il banchino dei vestiti usati, i venditori di bibite, la sfida di pallavolo a pagamento.
Graziano. E alla fine abbiamo incassato 2.500 euro, che servono in parte per il sostegno economico al gemellaggio (questo progetto prevede anche un contributo economico perché le scuole brasiliane sono in condizioni di necessità materiale). Ecco, la gestione organizzativa di questo scambio è interamente in mano ai genitori.
Di nuovo torna questa cosa di assumersi oneri ed onori: il piacere di fare la festa ma anche la fatica di girare, telefonare, raccogliere materiali, passare le sere dopo cena a discutere.
Anche il modo in cui si sono mossi ora che la scuola versa in una situazione di difficoltà, nel rispetto del loro ruolo, nella consapevolezza della loro funzione, ci ha davvero meravigliato. Del resto la domanda è comune: “Che cosa possiamo fare, ognuno nel proprio ruolo, affinché la crescita dei vostri figli sia il più armonica e positiva possibile?”. E se la domanda è comune e condivisa anche le risposte saranno più omogenee. Certo, magari pure dialettiche, però a favore di una sintesi e non di uno scontro.