Wanda Tommasi
Il 22 febbraio 2011 si è tenuto all’università di Verona un incontro su “Università e scuola: quali pratiche di libertà oggi?” L’iniziativa era promossa da alcune amiche di Diotima – Chiara Zamboni, Barbara Verzini, Diana Sartori e io -, legate per lavoro alla scuola o all’università, e vi hanno partecipato donne e uomini provenienti da realtà diverse, ma accomunati dal desiderio di dare voce al disagio che si vive attualmente in tali ambiti, in seguito a riforme distruttive, e al tempo stesso di trovare parole per far circolare pratiche libere e inventive che nonostante tutto esistono in tali realtà e di cui occorre ampliare lo spazio. Nelle brevi relazioni introduttive, hanno parlato alcune docenti e ricercatrici e uno studente dell’università, portavoce del movimento degli studenti “studiare con lentezza”, una docente di scuola superiore e un insegnante di una scuola privata di ispirazione anarchica. Esperienze diverse, ma che hanno potuto dialogare fra loro a partire dall’esigenza condivisa di dare respiro a pratiche di libertà in un momento storico in cui esse rischiano di essere seriamente minacciate.
E’ da poco tempo che è stata approvata la riforma dell’università. Con l’approvazione di tale legge, il movimento degli studenti e di buona parte dei ricercatori e dei docenti ha perso ovviamente una delle sue ragioni principali, la speranza di fermare una legge avversata da gran parte del mondo universitario. Tuttavia, la sola battaglia persa, come hanno detto le Madres di Plaza de Mayo, che di lotta ne sanno più di noi, è quella che noi abbandoniamo.
Quali prospettive si aprono ora per un movimento che era nato in occasione della protesta contro il DDL Gelmini? Già ora sono in corso, come ha ricordato nel suo intervento Manuel Gozzi, del movimento degli studenti, delle forme di movimento diverse rispetto alle mobilitazioni di massa, ai cortei e alle manifestazioni: per un mese gli studenti hanno avuto a disposizione un’aula dell’università – e ora stanno lottando per ottenerla di nuovo -, che è diventata un luogo vivo di relazioni e di sperimentazione di pratiche politiche. Alcune ricercatrici, come ha ricordato Federica De Cordova, oltre a vivere la protesta dei ricercatori come occasione di confronto politico con i colleghi e le colleghe, hanno cercato di sottrarre la pratica dei tirocini, fondamentale in una facoltà come Scienze della formazione, alla deriva burocratica e formale a cui essa sembra inevitabilmente avviata. Sono alcuni segnali di un movimento che non è cessato con l’approvazione della legge sull’università, ma che continua a dare i suoi frutti anche dopo.
Per chi come me è docente all’università ed ha avversato questa legge, rimangono aperte fondamentalmente due strade. La prima è stata indicata da Maria Rosaria Marella, docente di diritto privato a Perugia, in una lettera pubblicata sul “Manifesto” del 15 gennaio: Marella propone un impegno quotidiano per svuotare per quanto possibile la riforma del di dentro e scrive che “possiamo sperare che il tedio e l’indignazione che ciascuno proverà nel subire centinaia di astruse norme attuative risvegli sia pur tardivamente le coscienze”. Tuttavia temo che per molti non sarà così: non lo sarà ovviamente per coloro che erano favorevoli alla riforma, ma neppure per i molti che si assumeranno incarichi di amministrazione e di governo. Dopo l’approvazione di questa legge, le università, come al solito ma più del solito perché l’iter attuativo di questa riforma sarà particolarmente lungo e complicato, sono chiamate ad attivarsi per renderla operativa. Secondo la proposta riportata sopra, si tratta di non attivarsi, di vanificare nella sostanza le misure attuative.
La seconda strada è quella di non partecipare comunque alla presa in carico delle misure attuative, ma di tenere aperto lo scambio politico con chi, in buona fede, si attiva per farlo. E di riaprire la discussione politica ad ogni passaggio, ridiscutendo ad esempio i guasti del sistema dei crediti e del 3 più 2.
Tutto sommato, un elemento positivo della situazione attuale, una volta che la legge sull’università è stata approvata, c’è: è il fatto che ora non siamo più “costretti” a difendere l’università così com’è. Nel periodo in cui ci si opponeva al DDL, uno degli intenti sacrosanti era quello di salvare l’università pubblica: per questo, andavano in secondo piano le molte critiche che si potevano e dovevano fare all’università così com’è. Ora, questa strettoia non c’è più; del resto, già prima, nel movimento dell’università, c’erano altri motivi, non riducibili solo all’opposizione alla legge Gelmini. I giovani protestavano per i tagli alle borse di studio, lottavano per il diritto allo studio e protestavano per un futuro incerto, di precariato a vita; i ricercatori e i docenti avevano ben presenti i difetti di un sistema di reclutamento e di avanzamento delle carriere spesso solo clientelare e i limiti di un sistema di valutazione dei docenti che vorrebbe essere qualitativo e che invece è solo quantitativo, burocratico, procedurale.
Docenti e studenti nell’università di oggi sono oppressi dalla quantità: gli studenti, dopo l’introduzione del 3 più 2 e del sistema dei crediti, sono come polli in batteria, costretti ad accumulare crediti senza avere il tempo di pensare; i docenti pure, dal momento che la loro ricerca è valutata solo in termini quantitativi, visto che la qualità della ricerca non è facilmente misurabile. L’invito implicito è quello di impartire e ricevere nozioni, lasciando ben poco spazio al sapere critico e alla discussione. Questi motivi di disagio non vengono affatto meno dopo l’approvazione della riforma dell’università, anzi acquistano un maggiore peso: va detto infatti che essi non sono imputabili solo a quest’ultima riforma, emanata da un governo di destra, ma vengono da più lontano, da leggi e procedure sostenute e approvate anche dalla sinistra.
In questa situazione, a me sembra che si debba puntare su ciò che ci sta a cuore: lottare per la qualità dell’insegnamento e della ricerca e per difendere il loro potenziale critico e creativo. Inoltre, è necessario liberarsi dalle strettoie quantitative, uscire dalla condizione di polli in batteria e dal linguaggio manageriale e aziendalistico che già da tempo imperversa in università. Ma questo ancora non basta: per acquistare spazio e respiro, occorre ampliare lo spazio delle pratiche di libertà, ampliarne l’orizzonte. Contro la deriva burocratica e quantitativa, è fondamentale dare la priorità alle relazioni vive e non farsi schiacciare dalle procedure. Sono importanti i luoghi di discussione libera e di sapere critico, sottratti al sistema dei crediti: penso ad esempio al laboratorio tesi di laurea, che da anni teniamo vivo Chiara Zamboni, io e altre docenti dell’università, insieme con diverse studentesse e studenti.
Comprensibilmente, visto che insegno all’università, mi sono dilungata soprattutto sulla situazione di quest’ultima. Tuttavia, nella discussione, è emerso molto anche il disagio dei docenti della scuola, da quella elementare a quella superiore: al senso di infelicità diffuso che trapelava da alcuni interventi ha fatto da contraltare l’esperienza libertaria e creativa della scuola anarchica “Kiskanu”, sintetizzata da Giulio Spiazzi. Il suo intervento era dissonante rispetto agli altri, che partivano dall’esperienza della scuola e dell’università statali: hanno aiutato a far dialogare fra loro queste due realtà così diverse un’osservazione di Laura Sebastio e una di Giannina Longobardi: qust’ultima ha ricordato come, secondo il movimento dell’autoriforma della scuola, l’istituzione statale non coincida automaticamente con il bene pubblico. La scuola libertaria “Kiskanu” è un esempio del fatto che le grandi invenzioni pedagogiche del Novecento sono venute dal di fuori rispetto all’istituzione statale, ultima in ordine di tempo quella di Don Milani. Si tratta allora di aprire spazi pubblici nella dimensione statale, con forme di contaminazione feconda che si sottraggano ai conflitti frontali.
Questa osservazione e la necessità di confronto fra realtà così diverse ha dato respiro a diversi interventi, che rischiavano altrimenti di cadere nel registro malinconico: ha valorizzato le iniziative della rete insegnanti della scuola superiore di Verona, di cui cui si è fatta portavoce Cristina Antonini, che hanno deciso quest’anno di non portare i loro studenti in gita di istruzione per reagire alla perdita di dignità degli insegnanti (è stata tolta loro la diaria precedentemente prevista), ma che nel contempo hanno proposto delle giornate di studio e di confronto sul senso di fare scuola e di elaborare sapere critico, aperte agli studenti superiori; ha fatto uscire gli studenti universitari dalla mera celebrazione delle iniziative messe in atto nel mese scorso grazie alla disponibilità di un’aula in università; ha costretto ricercatrici e docenti universitarie ad allargare lo sguardo oltre i confini dell’università stessa e delle sue strettoie attuali. Ci si è resi conto che quello che si vive nella scuola e nell’università è solo un frammento di qualcosa di più grande, di un attacco generalizzato, non imputabile solo alle leggi recenti, per quanto distruttive, un attacco al sapere critico e alla parola pensante. Allora, puntare proprio su ciò su cui si viene attaccati, sulla parola viva, sulla lingua materna, sul sapere critico, è la mossa da fare. Non chiudendosi nel proprio orticello, ma aprendo lo sguardo ad altre realtà, non rinserrandosi né in una malinconia autodistruttiva né nell’autocompiacimento per ciò che di buono si riesce a realizzare, si possono far entrare in contatto e in collisione fra loro esperienze e realtà diverse, la dimensione statale e istituzionale da una parte e quella privata e libertaria da un’altra, in una contaminazione feconda che non dimentichi che il pubblico non coincide con lo statale, ma con la scommessa politica che si riesce a far circolare in tutti gli ambiti, privati o pubblici che siano.
E’ stato illuminante un intervento di Monica Cerutti Giorgi, che, ricordando la propria esperienza di insegnante in una scuola svizzera, ha detto che non si deve fuggire dal sistema se non si è data una delega simbolica al sistema: piuttosto, se ci si mette al centro con autorità e con competenza simbolica, è il sistema che deve fare un passo indietro; Monica ha segnalato il pericolo della svendita delle proprie capacità simboliche e ha invitato a considerare le grandi risorse che sono nelle nostre mani, a patto che sappiamo assumercene l’autorità.
A tale proposito, Chiara Zamboni ha ricordato che tutto ciò che non è proibito né normato è libero: ci sono molti spazi di libertà, ad esempio nell’insegnamento universitario, ma bisogna appunto assumersene l’autorità. Se è vero che oggi, a livello istituzionale, sta prevalendo una concezione della cultura come strumento di ordine e non come elemento di trasformazione, è vero anche che il motivo per cui scuola e università sono sotto attacco è anche il loro punto di forza: essi sono luoghi di pensiero creativo. Oggi il pensiero critico e inventivo appare superfluo, anzi sembra di ostacolo per l’organizzazione: questa è la ragione per cui scuola e università sono attaccate, per normarle e per spegnerne il potenziale trasformativo, ma questa è anche la loro ricchezza e la loro forza, ciò con cui e per cui bisogna combattere.
L’intervento di Roberto Leone, docente dell’università di Verona, ha sottolineato l’attacco allo spirito critico e la deriva normativa e burocratica verso cui sono avviate già da tempo sia la scuola sia l’università: tuttavia, se da un lato il suo intervento sembrava una rievocazione nostalgica dei bei tempi andati, da un altro lato gli è stato fatto notare che le conquiste del passato non sono state ottenute senza grandi e ripetute lotte e contrattazioni; si tratta di lottare anche ora, come egli stesso ha riconosciuto necessario e possibile, visto che almeno nell’università ci sono ancora ampi margini di libertà e altri se ne possono guadagnare se si è capaci di riprendersi, oltre che la propria capacità di lotta, anche un po’ di immaginazione.
Si è discusso anche di come dare uno sbocco politico alla rabbia, un sentimento che molte e molti oggi provano di fronte a riforme varate nel più totale disprezzo delle pratiche e del sentire delle persone che nella scuola e nell’università studiano e lavorano. Le donne soprattutto sono poco abituate ad esprimere e a incanalare in modo fecondo la propria rabbia, un sentimento potenzialmente politico per il potenziale trasformativo che essa porta con sé: che cosa ce ne facciamo della rabbia? L’incontro del 22 febbraio è stata anche un’occasione per poter dare parole alla rabbia, per estrarne delle potenzialità trasformative, e per vedere che, dalle parole scambiate e condivise, può nascere una maggiore consapevolezza circa le risorse di libertà che già ora sono nelle nostre mani, a patto che sappiamo vederle e metterle in circolo.