Intervista a Antonio Silvio Calò
realizzata da Paola Sabbatani, Lelia Serra
La straordinaria storia di una famiglia del trevigiano che di fronte alle tragedie del Mediterraneo decide di raddoppiare, da sei a dodici, il numero degli abitanti della loro casa; l’incredulità dei funzionari delle istituzioni e, poi, l’ostilità iniziale del vicinato; i sei giovani “rifugiati” che non bighellonano mai, che vanno a scuola e al doposcuola pomeridiano, che aiutano i vicini nel sabato, che fanno un tirocinio lavorativo; un “modello” che funziona. Intervista ad Antonio Silvio Calò.
Antonio Silvio Calò, insegnante di scuola media superiore, sposato con quattro figli, vive a Camalò, in provincia di Treviso. La sua esperienza di accoglienza è diventata famosa anche oltre i confini nazionali.
Ci piacerebbe che raccontasse dall’inizio come la vostra famiglia è arrivata a prendere questa decisione di accogliere rifugiati.
Nel 2015, marzo, aprile, si sono verificati una serie di eventi molti tragici uno dietro l’altro; il 18 ce n’è stato uno molto drammatico a Lampedusa con centinaia di morti. Di fronte a queste immagini, ma anche alle precedenti, devo esser sincero, quel giorno, il 18, lo ricordo come fosse adesso, ho detto no, basta, dobbiamo fare qualcosa. Ora non è che noi abbiamo tante cose. Abbiamo la casa. Ho proposto, mettiamo a disposizione la nostra casa. Mia moglie era d’accordissimo, ho consultato anche tutti i figli perché non avrei mai preso una decisione di questo genere, che comportava un tale cambiamento nella condivisione degli spazi della casa, senza il loro consenso.
Il 20 aprile o il 21, non ricordo, prima di recarmi in prefettura ho detto a mia moglie: “Vedrai che ci saranno altre famiglie che han già fatto questa scelta quindi potremo creare una rete, ci potranno consigliare su cosa fare e non fare”. Quando sono stato davanti al funzionario della prefettura subito c’è stato un qui pro quo: loro pensavano che noi avessimo una seconda o terza casa in cui ospitarli. Quando ho chiarito che sarebbero venuti a stare a casa nostra, la risposta è stata: “Ma lei è fuori completamente!”. E quando ho detto: “Ma ci saranno altre situazioni come la nostra…”, l’ispettrice mi ha risposto: “No, guardi, non c’è nessuna situazione di questo genere, né qui né a Treviso o nel Veneto… Io credo che lei sia il primo in Italia che fa questo tipo di accoglienza”. A quel punto ci sono rimasto anche male, avevo immaginato una situazione ben diversa. Anche perché quello voleva dire che non c’era neppure una legislazione in riferimento all’accoglienza familiare.
C’erano i centri di accoglienza ma non c’era la possibilità di accogliere immigrati per i privati?
Per i privati solo in caso di emergenza, come in quei giorni, poi è diventato tutto molto più difficile. Ci dovevamo appoggiare a qualcuno. Subito mi venne in mente una cooperativa di un ex profugo marocchino, ora italiano, venuto in Italia 23 anni fa, che in quel momento stava cominciando a far servizio presso la prefettura per i profughi. Questa persona, un carissimo amico con cui abbiamo fatto tante esperienze insieme, compreso un viaggio in Marocco, mi ha detto subito che ci saremmo potuti appoggiare a loro, mantenendo la massima libertà per fare quello che ci sembrava più opportuno. Questo è stato ad aprile. Poi a maggio il nostro parroco ha aperto la propria canonica a trentadue ragazzi. Era una situazione di emergenza e mia moglie andava praticamente tutti i giorni a insegnare un po’ di italiano. Io andavo appena potevo, soprattutto la sera, per capire com’era organizzata la cosa. Discutevo con loro, cercavo anche di comprendere soprattutto le motivazioni ma anche le aspettative che li spingevano a intraprendere questi viaggi incredibili. E quello ci è servito molto.
Così abbiamo dato la disponibilità alla prefettura da due a un massimo di sei persone. Ricordo che mia moglie disse che a quel punto, visto che ci eravamo decisi a quel salto, potevamo offrire la possibilità alle ragazze soprattutto, perché le ragazze, come purtroppo si sa, patiscono cose non di poco conto. Aggiunse: “Guarda, anche se arrivano già incinte, le prendiamo lo stesso perché in famiglia è tutta un’altra cosa rispetto a certi centri d’accoglienza”. A Treviso, però, in quei mesi, di ragazze non ne sono proprio arrivate. L’8 giugno del 2015 la prefettura mi ha telefonato per dirmi che avevano bisogno dei posti che avevamo offerto perché arrivavano sei ragazzi. La chiamata era stata verso le 12, alle 19 di sera erano già tutti qua. Quindi abbiamo dovuto preparare tutto: i letti, che sono arrivati contemporaneamente a loro, e tutto il resto. È stato veramente un momento particolarissimo: la nostra strada, come avete visto, è chiusa e ci si è infilata questa corriera che proveniva dalla Sicilia, con 50 persone, dietro c’era la polizia, e ne sono scesi questi sei con il loro sacchetto nero dell’immondizia dove avevano un cambio. È stato un momento particolare. Tutto il quartiere si era affacciato, gli sguardi di gran parte di loro erano un poco truci, ostili…
Di dove erano i ragazzi? E come è stato l’impatto?
I primi sei, dico primi e dopo spiegherò perché, erano due dal Gambia, due dal Ghana, due dalla Nigeria. Sì, l’inizio non è stato facile per niente. Perché abbiamo avuto minacce, offese pesanti dal quartiere e i primi 15 giorni i ragazzi sono rimasti chiusi in casa, non si sono neanche affacciati all’uscita. E chiaramente però è iniziata tutta una organizzazione della gestione perché era giugno, e io e mia moglie comunque dovevamo insegnare, i miei figli andavano a scuola, chi andava a lavorare, qualcuno doveva restare qua. Allora abbiamo pensato a una signora, Valentina, che avevamo incontrato in parrocchia durante quell’esperienza di accoglienza, una volontaria, che tra l’altro aveva perso il lavoro da poco, mamma di due figli. Io ho chiesto alla cooperativa che venisse assunta a tempo determinato con tutti i santi crismi.
Questo periodo che va da giugno ad agosto è stato come un tempo intermedio, una fase per poter guarire le ferite, spesso gravissime. E cercare anche di far capire ai ragazzi dove erano, in che mondo erano arrivati, cosa voleva dire vivere a Treviso, in provincia, e in Italia. Tenete presente che gli africani hanno moltissimi dialetti e non riuscivano a comunicare neanche fra di loro. La sera, che era il momento in cui ci trovavamo tutti, veniva anche da ridere perché per riuscire a comunicare tra di noi potevamo metterci anche mezz’ora solo per dire una cosa a tutti.
Comunque l’inizio, così difficile per tanti versi, è stato anche interessante perché, per altri versi, spontaneamente ci si sono affiancate altre persone per darci una mano: un giorno si è presentato un ex giornalista che non conoscevo dicendo: “Voglio fare qualcosa per voi, non voglio nulla”.
Aveva insegnato per tanti anni italiano in America, così si fermava qua per ore al pomeriggio con i ragazzi per insegnare loro la lingua italiana, ma anche per introdurli alla vita, ai costumi e alle tradizioni italiani. È stato utilissimo l’aiuto di Giovanni. Un pensionato che abita qui vicino, Valter, mi ha detto: “Professore, mi permette di fare qualcosa?”, “Guardi, qualsiasi cosa può essere utile”, e così ha messo su in poco tempo, insieme ai ragazzi, un orto straordinario nel giardino.
I sei ragazzi sono sempre rimasti gli stessi?
Intorno ad agosto ho messo avanti una questione. Gli ho detto che se volevano stare qua con noi c’era un progetto da rispettare. Stare qua senza senso, no, non ci andava bene. A maggior ragione visto che il contesto è quello di una famiglia. Alla descrizione di questo progetto tre hanno risposto subito con entusiasmo, e tre hanno cominciato a nicchiare, a prendere tempo. A quel punto gli ho dato una data per sapere la loro risposta. La psicologa, Giulia, di grandissimo aiuto fin dall’inizio, mi aveva già segnalato che c’erano alcune questioni tra di loro, non tanto sul fatto di stare in famiglia. Tre di loro erano cattolici e tre musulmani e due di loro, i nigeriani, avevano un atteggiamento un po’ prepotente e di dominio nei confronti degli altri africani, quasi di superiorità, del tipo: “Noi siamo noi e voi siete altro”. Un atteggiamento che si ripercuoteva nella collaborazione. La psicologa stessa mi consigliò di “andare al dunque” con loro, perché quelle persone sarebbero potute diventare un grave elemento di disturbo, addirittura distruttivo.
Così quando è arrivato il giorno stabilito, loro mi hanno detto che non accettavano di restare, che era tropo impegnativo e che preferivano tornare ai centri di accoglienza.
Ma in cosa consiste questo progetto?
Il progetto è quello che è stato chiamato modello “sei più sei”. Intanto da settembre c’era l’obbligo della scuola. Ho detto ai ragazzi che non potevano restare in questo paese senza la conoscenza della lingua, assolutamente. Quindi l’obbligo della scuola, ma obbligo vero, non che uno va un giorno e l’altro no. Questa è la prima cosa. Poi avevo organizzato tutta la settimana e così è stato: lunedì, martedì, mercoledì e giovedì quattro ore di scuola, dalle 9 alle 13.
Questo dove?
Alla scuola media di Treviso. Sono stati inseriti a vari livelli perché due di loro erano analfabeti. In quanto musulmani avevano frequentato le scuole coraniche, avevano imparato a memoria le sure del Corano ma non erano in grado di scrivere in arabo. Era proprio tutto imparato a memoria, una dimensione orante come d’altronde è orante la loro lingua. Non è che esistono i vocabolari dei singoli dialetti o delle lingue in Africa. E quindi loro facevano quattro ore di scuola, di cui una di geografia e storia, una di matematica, una di inglese e una di italiano. Il lunedì e il mercoledì, al pomeriggio, veniva sempre Giovanni, l’insegnante di cui ho parlato prima, che riprendeva le questioni scolastiche, rimetteva in moto un po’ tutto e approfondiva. Poi il martedì pomeriggio avevano cinque ore con la psicologa. Tre ore di terapia di gruppo e due ore per i singoli, poi lei si fermava qua a cenare con noi e così è diventata una di famiglia, com’è successo anche con Giovanni.
Poi abbiamo pensato che fosse importante iscriverli anche ad attività sportive, quindi il giovedì pomeriggio due frequentavano gli allenamenti delle squadre di calcio dove giocavano anche i miei figli, mentre due facevano palestra qua. Il venerdì mattina li ho sempre lasciati andare in moschea, perché poi i tre ragazzi cristiani (i due nigeriani e un terzo) se n’erano andati via, e lo stesso giorno la Questura ce ne aveva mandati altri tre, musulmani anche loro.
Quindi ora sono sei musulmani…
E il gruppo da allora è rimasto lo stesso, dall’agosto del 2015.
Il venerdì pomeriggio e il sabato loro erano a disposizione della famiglia per tutta una serie di attività casalinghe, ma anche a disposizione delle famiglie della comunità del quartiere, nel senso che se c’era bisogno di spostare mobili o andare a tagliare la legna, o aiutare per il giardino; qua ci sono tante sagre, bisogna mettere su i capannoni e loro sono ragazzi giovani e forti… La domenica invece riposo per tutti.
Questo ha significato accompagnarli ed è stato veramente straordinario. Noi siamo diventati famiglia nel senso più globale del termine: i miei figli condividono tutto con loro, vestiti, mutande, scarpe, giacche, cravatte, tutto. Vivendo così insieme, hanno acquisito un minimo di lingua, anche se non allo stesso modo. Tre di loro parlano abbastanza bene l’italiano, e si fanno capire, altri tre hanno più problemi, certamente, però, insomma, adesso ci capiamo, la lingua comune è proprio l’italiano. Ma poi la cosa bella è che durante una settimana così organizzata, il vicinato praticamente non li vedeva mai. E non li vedeva soprattutto bighellonare, magari con il cellulare in mano, immagini che spesso e volentieri sono motivi di grande polemica. Questi ragazzi non hanno mai bighellonato. Questo secondo me è importantissimo.
Poi in questo anno scolastico chiaramente sono venute fuori tutte le loro problematiche e la prima è proprio il perché sono venuti qua. La risposta è per lavorare. Le famiglie selezionano quello che ce la può fare. Lo mandano in questa avventura così dura, e una volta che è arrivato qui loro deve lavorare e mandare i soldi a casa. Se torna indietro senza un lavoro può addirittura venire rifiutato dalla famiglia; questi ragazzi vengono visti malissimo, perché su di loro sono stati investiti tutti i risparmi.
Quindi a giugno, quando è finita la scuola, ci siamo adoperati per garantire loro un futuro lavorativo. Com’è giusto che sia, nei confronti di tutte le persone.
Apro una parentesi, lo dico con tristezza qui nel mio piccolo studio, ma certamente penso e credo di aver ragione: l’africano si sente inferiore al bianco. Dopo cinquecento anni di schiavismo, colonizzazione politica, economica, l’africano nei confronti del bianco ha uno sguardo diverso, non si sente alla pari. In questi due anni abbiamo cercato sempre di far capire loro che sono uguali a noi e che tutti noi abbiamo doveri e diritti, tutti noi dobbiamo agire in un certo modo, assolutamente, ma c’è una grandissima difficoltà. Questo personalmente mi ha fatto riflettere molto. È stata ed è un’incredibile esperienza di tipo sociale, culturale, antropologico. Io la diversità la vedo come una ricchezza, noi tutti qua la viviamo come una ricchezza, però la diversità c’è e ha dei volti molto particolari. Per esempio, nel concreto, loro sono anche capaci di fare certe cose, ma le fanno appunto all’africana. Immaginare di inserire un’operatività di tipo africano in un contesto “nordest trevigiano”, senza tener conto delle diversità, vorrebbe dire fallimento sicuro e immediato.
Quindi mi sono messo in testa che ci doveva essere un periodo di almeno sei mesi in cui loro potessero fare un tirocinio professionalizzante e ho cercato un ente certificatore. Ho trovato l’Ascom, l’associazione commercianti, che è stata gentilissima, si è adoperata e ci ha garantito questo certificato. Noi, da parte nostra, siamo andati alla ricerca delle aziende. Anche qua il parroco e gli amici, tutte le persone che ci hanno accompagnato di volta in volta nella nostra esperienza, ci hanno dato una grossa mano. Abbiamo messo due condizioni fondamentali alle aziende. La prima è che quel tirocinio non andasse a portare via alcun tipo di possibilità a un italiano. Se accettavano il tirocinante nostro era perché non c’era nessun italiano che avrebbe potuto o voluto farlo. E la seconda cosa fondamentale, che quel tirocinio non andasse a occupare spazi convenienti a quell’azienda, del tipo cassintegrati, disoccupazione, cose di questo genere. E così nel giro di pochissimo tempo, nel giro di un mese, tutti i ragazzi sono partiti con un tirocinio. Anche qui apro una parentesi molto importante: ci sono tantissimi lavori che gli italiani non vogliono fare assolutamente. Questo va sottolineato perché tante volte sentiamo dire che ci portano via il lavoro. No, non è vero. Due di loro sono stati impiegati come lavapiatti e non si trovava un lavapiatti da nessuna parte. Tre, invece, sono stati accettati all’interno di una cooperativa biologica orticola, e anche là, sporcarsi le mani con la terra, piegati otto ore, con il freddo e compagnia bella, non trovavano nessuno. Quindi, anche qui, li hanno presi più che volentieri. E un altro, invece, è entrato in una falegnameria: questo tipo di lavoro era un po’ come stare a una catena “di montaggio”, per tagliare tutta una serie di pezzi particolari e occorreva essere precisi, però era un po’ ripetitivo, e anche là non c’era nessuno che lo volesse fare.
Sono state tutte esperienze molto belle, tolto quella della falegnameria perché poi c’è un stato un conflitto, c’era qualcuno dell’azienda che non accettava proprio la presenza di uno di colore e lui, da parte sua, è stato troppo rigido e incapace di adattarsi. Però tutte le altre cinque esperienze sono finite così bene che quando è terminato il tirocinio professionalizzante gli hanno rilasciato un certificato in cui si attestavano le competenze acquisite e hanno anche detto che li avrebbero assunti molto volentieri.
In cinque hanno ora un contratto di lavoro?
Sì, ma anche il sesto perché nel frattempo avevamo trovato la disponibilità di una tipografia dentro una cooperativa. Così anche il ragazzo che aveva lasciato la falegnameria si è inserito bene e dopo è stato assunto. Al momento tutti e sei sono sotto contratto di lavoro a tempo determinato.
Ma secondo lei quindi è un modello che si può diffondere?
Il nostro tentativo è far capire che l’Italia potrebbe elaborare un modello di accoglienza che poi è esportabile in tutta Europa e che non dico risolverebbe il problema, perché non voglio essere presuntuoso, ma certamente contribuirebbe notevolmente a risolverlo. La famiglia è l’eccezione che conferma la regola. E la regola sono dei nuclei di sei persone che vengono inserite in modo trasparente nel tessuto di un paese e di una città (per l’Italia la proposta è sei per ogni cinquemila abitanti). Se noi pensiamo che poi questi sei si inseriscono nella società e lasciano l’appartamento in cui possono andare a vivere altri sei, e così via, vien da chiedersi: “Signori, dov’è l’emergenza?”. Avremmo tutta una struttura perfetta capace di essere pronta per l’accoglienza e per l’emergenza. Quando poi il fenomeno storico viene meno si dismettono le varie strutture, ed è finito.
La domanda che faccio è: cosa volete fare di queste persone? Una volta che li avete accolti nella fase di prima accoglienza cosa volete fare? Domanda semplicissima, ma nessuno mi ha mai risposto.
Quindi lei propone un modello tipo casa famiglia?
Sì, sarebbe tipo casa famiglia, con un’équipe che segue i sei rifugiati -psicologo, medico, un avvocato, l’assistente sociale, e degli operatori/mediatori, un insegnante- esattamente come abbiamo fatto noi.
Però io ho immaginato che un’équipe di questo genere possa fare servizio a sei nuclei.
6×6 per un totale di 36 persone…
Esatto. In questo modo su un piano economico, l’equipe si autosostiene.
Un’equipe a tempo pieno, che si occupa di sei realtà e i cui componenti sono stipendiati, ovviamente regolarmente, dalle sei realtà…
Questa è la proposta che ho fatto e che ho presentato al Parlamento italiano ed europeo. Mi sono accorto, cioè, che i soldi che arrivano sono sufficienti per poterlo fare e lo dimostro con le cifre e i fatti.
Immaginiamo che siamo di fronte a un bilancio molto semplice da fare, perché sono trenta euro a persona, al giorno. Trenta per sei persone, per trenta giorni, totale: 5.400 euro. Ora, io il bilancio di sei persone ce l’ho già in casa: io, mia moglie e quattro figli. E io non ho 5.400 euro al mese, perché noi siamo due insegnanti, e quando arriviamo a 1.750 euro a testa è già tanto. Parliamoci chiaro e non prendiamoci in giro: ci sono margini per fare tutta una serie di operazioni per arrivare all’optimum in tutti i sensi. Allora noi abbiamo diviso: mille euro vanno per le spese alimentari. Cioè per la sussistenza viva. Perché intanto sono giovani, questi, e mangiano, eccome se mangiano. Se poi lavorano… Quindi, mille euro vanno di sicuro per il cibo. Divisi in trenta giorni sono cinque euro al giorno a persona, che mi sembra una cifra minima, infatti abbiamo messo a bilancio tra i mille e i milleduecento euro al mese.
Lei sta facendo un bilancio sulle sei persone?
Sì. Perché dopo io posso applicare le cifre al modulo e moltiplicarlo per sei.
Lei dice che così si crea anche lavoro…
Noi abbiamo un’operatrice, Valentina, venuta fin dall’inizio, che ha fatto un lavoro straordinario e ha curato tutta la questione giuridica e quella sanitaria. Parentesi: sono stati accusati di essere portatori di malattie particolari, addirittura. Non potevano neanche uscire di casa perché ci avrebbero denunciati. Abbiamo fatto tutta la profilassi possibile e immaginabile, tutte le vaccinazioni del caso, oggi sono più sani di noi.
Quindi c’è una signora che c’è stata per tutto il primo anno tutti i giorni, poi quando i ragazzi hanno cominciato il tirocinio professionalizzante, chiaramente erano fuori per molte ore durante il giorno e non aveva più senso che stesse qui tutto il giorno. Questa persona era pagata 1.400 euro al mese, che coprivano anche i contributi. Quindi era proprio regolare. Tra l’altro, alla fine dell’esperienza che ha fatto nella nostra casa è stata assunta a tempo indeterminato nella cooperativa perché molto brava e questo m’ha fatto un enorme piacere.
Poi 450 euro vanno per la paghetta, perché 2,5 euro al giorno vengono dati ai ragazzi. Adesso non ricevono più niente perché nel momento in cui vengono assunti escono fuori dal sistema. Ma finché ci sono dentro, ricevono 2,5 euro al giorno (dei famosi trenta euro). Noi, per una questione di correttezza, abbiamo sempre pensato di dargli 25 euro ogni dieci giorni, in modo tale da dar loro la possibilità di fruirne al meglio. Tenete presente, precisazione fondamentale, che noi non abbiamo mai ricevuto soldi direttamente. I soldi arrivano tutti alla cooperativa. Questo bisogna dirlo. Noi non li abbiamo mai ricevuti. Io vado ogni volta in cooperativa, all’inizio del mese, e dico, ho bisogno di questa cifra. Di solito oscilla tra i 2.000 e i 1.500 euro.
Tutto il resto lo pagano direttamente loro, è un rapporto tra la cooperativa e le persone che offrono questi servizi.
Assolutamente. Allora, 450 euro vanno in paghetta. L’unica cosa che la famiglia ha chiesto è che le venga pagato il raddoppio delle bollette. Di fatto, il costo di luce, acqua, gas, immondizia, si è raddoppiato proprio. Abbiamo chiesto solo questo. Loro nel bilancio hanno messo 450 euro che vanno per bollette e spese nella casa. Poi, 300 euro vanno alla cooperativa per l’organizzazione, il commercialista, le questioni, diciamo così, burocratico-amministrative. Poi ci sono 300 euro che vanno per le spese sanitarie straordinarie, cioè loro, come tutti i cittadini italiani, hanno una copertura x, e dopo però certe spese se le devono pagare, problemi con i denti o altro. Come succede a noi. Poi c’è un’assicurazione, poi necessità di vario tipo, tra queste anche l’attività sportiva, che, alla fine, per quattro persone costa come minimo 1.200, 1.500 euro all’anno. Quindi vuol dire soldi. Iscrizione in una squadra di calcio, e la tuta, ecc., e queste sono spese che secondo me però sono importanti perché lo sport è importante. Poi 200 euro vanno per l’uso dell’auto e la benzina. Noi abbiamo messo a disposizione una macchina nostra, in più pagavamo Valentina che li portava in giro da tutte le parti. Era impensabile fare l’abbonamento al pullman per sei, una spesa enorme, quindi li veniva a prendere in macchina. Poi c’erano 500 euro che andavano all’insegnante, a Giovanni, nei 500 euro ci sono i soldi effettivi e chiaramente anche i contributi perché anche lui era assunto in regola (poi lui non ha voluto un soldo, ma questa è un’altra storia). Stessa cosa per la psicologa. Dal bilancio venivano messi 700 euro per lei, pagata come professionista e quindi in regola. Rimanevano 300 euro. Abbiamo immaginato che potessero essere utilizzati in vari modi. Ci sono le spese per l’avvocato, purtroppo bisogna pagare anche quello, con tutte queste cause, ricorsi, eccetera. Eventualmente, se resta qualcosa, lo mettiamo via per quando se ne andranno, quel piccolo aiuto che magari gli paga due o tre affitti di caparra. Questo è. Se fate i conti sono 5.400 euro.
Ha ragione, ma ci dovrebbero essere sei realtà così…
Lei provi a pensare, 6+6+6; quanta gente potrebbe lavorare! Com’è possibile che non si accolga questa idea? Vi rendete conto, tutta gente giovane, o che perde il lavoro, che ha famiglia, che ha bisogno… possiamo fare tanto, qua! Eh, io poi divento furioso quando vedo dei ragazzi come loro che mi chiedono i soldi davanti ai supermercati. Sapendo bene, perché poi purtroppo lo so, che questi sono dentro una struttura che ha i soldi. Ma nessuno li impegna in nulla.
Sono parcheggiati…
È uno scandalo, non ho paura di dirlo. Ecco come ho cominciato a capire che c’era un imbroglio o comunque un vantaggio a non fargli fare nulla. Aggiungo un altro aspetto che non è un particolare da poco, soprattutto se riferito a un territorio di un certo tipo. Tutte le spese che andavamo a fare le abbiamo fatte con imprese a chilometro zero.
Quindi abbiamo mosso l’economia intorno a noi. Cioè, uno vende formaggi, siamo sempre andati da lui, lo stesso per il verduraio e per il fruttivendolo, e vi garantisco che ogni volta che andiamo sono centinaia di euro. Anche questo è muovere l’economia. Allora io mi domando: perché un simile modello non si può estendere non solo in Italia ma anche in Europa? Si creerebbero centinaia di posti di lavoro, altro che “portarne via”.
Adesso come sono considerati loro giuridicamente?
Adesso il progetto per me è concluso perché arrivare a un lavoro vuol dire autonomia. Purtroppo però c’è la questione giuridica, che è grave. Io mi appello a Minniti, al Presidente della Repubblica perché non è possibile che persone come loro (e io confido che ce ne siano tante altre che hanno fatto comunque un percorso diciamo di buon livello, che sono qua per vari motivi, da due o tre anni), persone su cui si sono impegnati tanti soldi per salvarli, giustamente, su cui si è investito per accoglierli, giustamente, sui quali si sono investiti tantissimi soldi per provare a inserirli all’interno di una struttura, dopo tre anni prendiamo e li rispediamo via? Ma che senso ha tutto ciò?
Vi dico questo perché, purtroppo, attualmente solo uno dei miei ragazzi ha avuto finalmente una “umanitaria”. Sapete che c’è la “politica”, l’”umanitaria”, e la cosiddetta “economica”. “Economica” è respingimento, tra virgolette. L’”umanitaria” dà la possibilità di stare due anni, nella “politica” ci sono vari livelli, da tre a cinque anni. Questo ragazzo finalmente ha ottenuto l’umanitaria, dopo un anno e mezzo finalmente è stato ascoltato da una commissione. Il colmo dei colmi è che poi questa commissione non sta a Treviso, ma da tutt’altra parte (nel nostro caso a Forlì). Va beh, non voglio entrare nel merito perché sarebbe lunga la cosa, ma almeno uno dei miei ragazzi ora ha un riconoscimento giuridico e può partire con un suo percorso che sarà lungo, però con sicurezze completamente diverse. Uno è stato respinto e quindi deve fare il primo ricorso. Gli altri sono già stati respinti anche nel primo appello e adesso hanno l’ultimo.
Ma adesso che hanno un lavoro?
Sì, però il lavoro lo hanno solo da marzo. Prima stavano facendo un tirocinio professionalizzante, che è diverso. Adesso manca ancora uno, che dopo un anno e mezzo non è stato ancora chiamato, e spero che sia chiamato per il primo incontro in commissione. Nel momento in cui dovessero essere respinti con l’ultimo appello, loro diventerebbero clandestini o irregolari, e a quel punto avrebbero un mese o venti giorni di tempo, dipende da come viene formulata la cosa, per andarsene via autonomamente. Non è che noi li prendiamo e li portiamo indietro. Ora, spesso e volentieri, questo va detto, dietro a queste persone non c’è uno Stato, non hanno nessuno dietro, non c’è un’ambasciata, non c’è un consolato, non ci sono dei rapporti giuridici che permettano di difenderli. Nessuno si interessa a loro. Ma se questi profughi fossero francesi, tedeschi, spagnoli, ungheresi, noi ci comporteremmo così? Questa è una domanda che dovremmo farci. Ci comporteremmo così? Non credo proprio! Quindi approfittiamo del fatto che questi non hanno nulla. E poi cosa facciamo, prendiamo questa gente e la rimandiamo nel nulla? Ecco, questo è il discorso che con onestà dovremmo fare. Quindi la questione giuridica è complessa, ma non c’è stato nessuno sforzo, da parte dell’Italia, di dare valore a una cosa che potrebbe aiutare sul piano umano. Io sono contro la distinzione del profugo in serie A, B, C, uno è profugo e basta, inutile prendersi in giro. E quando arriva gli dovremmo fare una proposta seria all’interno di un progetto unico che vale per tutta Italia. Non può essere che se vengono da me vivono nell’inferno e se vanno da un altro vivono nel paradiso. Ci vuole un progetto unico che poi chiaramente si può adattare secondo le situazioni, però è unico. E lo si presenta a queste persone. Chi accetta fa un percorso che è quello che abbiamo descritto. Un modello del genere è stato testato, si è realizzato, è fattibile.
Perché non è preso in considerazione?
Per gli interessi in gioco. Guardate che sul business degli immigrati c’è gente che ci fa affari. Io non ho più paura, certe cose le dico fuori dei denti, le ho scritte. Se tu le vedi, non puoi sempre voltarti dall’altra parte. Ho scritto a Renzi quand’era premier, ho scritto alla Serracchiani, all’Anci, quando c’era Fassino, nessuno mi ha risposto. Invece mi hanno risposto Schultz, Junker e la Merkel. Sono andato a parlare all’Istituto italiano di Strasburgo di questo modello e quando sono tornato qualcuno mi ha anche detto: “Lei non può permettersi di andare a parlare in giro di queste cose”. Io non posso parlare? Ma stiamo scherzando?
Un mio amico giornalista mi ha anche detto un’altra cosa: “Professore, lei e la sua famiglia rompete. Ha capito? ”. “Per quale motivo?”, ho chiesto: “Lei rompe perché funziona”. Ecco, io penso che ci stiamo bruciando una possibilità.
Ma cosa dovrebbe fare il governo?
Semplice, il governo, con una forte dose di coraggio, lo ammetto, perché in ballo ci sono sempre i voti, faccia un decreto legge che imponga ai comuni inferiori ai 5.000 abitanti, che sono la stragrande maggioranza degli 8.000 e passa comuni italiani, di avere solo sei rifugiati. Attenzione, ogni 5.000 solo sei persone. Quelli che hanno 10.000 abitanti, ne avranno dodici, e avanti così in proporzione. Noi riteniamo che il modello 6+6 sia il più valido perché essendo pochi, il bilancio è molto semplice e non dà margini se non per guadagnare onestamente, per creare posti di lavoro anche, ma non per arricchirsi. E c’è anche la possibilità quindi di un controllo e di una trasparenza assoluti.
Ci diceva che ha un altro progetto. Perché è sconfortato?
No, no, proprio in forza di questo. È lo stesso progetto ma che si apre ulteriormente. C’è una grande solitudine nel mondo di oggi e ci vorrebbero luoghi che permettano di incontrarsi, di condividere un percorso, una strada insieme ad altre persone. Le più disparate, non soltanto i profughi. Ci sono due elementi fondamentali nella società di oggi, l’egoismo e la solitudine. Combattere questi due elementi lo possiamo fare solo ricreando uno spirito comunitario. E il progetto sarebbe questo, creare dei luoghi dove poter condividere e darsi una mano. Tantissima gente è proprio sola, abbandonata da tutto e da tutti. E far capire che c’è un qualcuno che ti accoglie comunque e sempre, non è una cosa da poco.
(a cura di Paola Sabbatani e Lelia Serra)
(UNA CITTÀ n. 239 / 2017 maggio)