Roberto Silvestri
Vado al cinema per vedere cose mai viste. Parola di Man Ray. Ottimo consiglio. E farebbe sensazione vedere, da stasera in tv, qualche film di Sembene Ousmane, lo scrittore e cineasta senegalese d’origine operaia, pioniere di un’arte africana indipendente, critica, saporita e di ricerca, morto sabato 9 giugno a 84 anni.
Susciterebbe salutari strepiti. Per i temi affrontati, per i set e gli sfondi inediti (l’«interno qualunque di una casa africana d’oggi» è l’invisibile per eccellenza, il tabù estremo nei canali tv intossicati d’esotismo), per il punto di vista appassionato, per la libertà con la quale, non senza humor sferzante, Sembene Ousmane fabbrica piaceri schermici e sgretola divieti e pregiudizi (religiosi, sessuali, politici).
I suoi film, per lo più cucinati (metafora che usava spesso) secondo collaudate tradizioni popolari (cioé mai noiosi, e, se realisti, «all’americana», alla Claude McKay) e in lingua wolof o diola, perché l’85% del suo pubblico è analfabeta, altro che francofono, sono interrogazioni complesse, senza risposte né proclami («denuncio i mali dei peggiori»), che rovesciavano astutamente i rapporti di potere bianco/nero; comunità/individuo; vecchio/giovane; uomo/donna, ricco/povero… Vediamole, queste sue interrogazioni: l’ipocrisia colposa dei cooperanti bianchi? Le noire de… (’66), primo lungo a soggetto subsahariano della storia e già premio Vigo. La corruzione nelle società postcoloniali? Le Mandat (’68). L’orrore aberrante delle tradizioni, quanto più ancestrali tanto più reazionarie? Emitai (’71). L’impotenza sessuale e politica della nuova élite al potere, al guinzaglio dell’Europa? Xala (’75). I crimini del fondamentalismo animista, islamista e cristiano nel continente nero? Ceddo (’77), il più censurato. Il perfido trattamento dei soldati africani usati prima come carne da macello e, vinto Hitler, massacrati se rivendicavano l’eguaglianza? Camp de Thiaroye (’87). L’Islam spiegato, da un ateo, ai neo-guerrafondai cristiani? Guelwaar (’92). Come le donne sfibrano il machismo e rifiutano le mutilazioni genitali (tollerate in 38 dei 54 stati del continente)? Faat Kiné – omaggio esplicito a Billy Wilder e Jerry Rawlings – e Moolaadè (2000 e 2004). Pensare a sinistra, per lui, come per Rossellini, è uno scavare continuo sotto la superficie della storia vincente, un’autopsia dallo sguardo plurale (Autopsia d’un cinema è il titolo dell’ultimo saggio). Con Sankara vivo il progetto della vita, la saga anticoloniale su Samory Touré che guidò la resistenza armata antifrancese si sarebbe realizzata. Ma con la Francia che controlla ormai il cinema del continente? Come Chaplin, come l’adorato von Stroheim, il pur omaggiato (dai transalpini) Sembene Ousmane (l’intera collezione in dvd è appena uscita), fu via via messo in condizione di non nuocere.
Se il nostro servizio pubblico tv (Fuori Orario escluso), ignaro delle responsabilità che ha, continuerà a rimuovere giocondamente tutto questo, come anche altri ricchi giacimenti culturali e il terzo cinema di cui il padre del cinema africano Sembene fu esponente radicale («né con Hollywood né col cinema borghese d’autore»), molto più grave è l’indifferenza euro-progressista verso la «nuova sinistra» del sud (si vedano i necrologi sbrigativi dei quotidiani «democratici» di ieri). Sembene, «soldato di De Gaulle», fu iscritto al Pcf dalla «guerra fredda» fino al 1960. Le posizioni razziste e neocoloniali del partito (e di Mosca) in Algeria lo costrinsero all’esodo, a inventare, prima di Berkeley e del ’68, con Franz Fanon e i panafricanisti al lavoro, W.E.B. Dubois (che incontra nel ’58), N’Krumah, Lumumba, Sankara, altri tragitti rivoluzionari più che comunisti (istantaneamente repressi) mentre la macchina di Thorez/Marchais imboccava il moderato viale del tramonto che conosciamo.
Nato l’1 gennaio 1923, Sembene è allevato da uno zio religioso, scrittore dilettante, Abdu Raxman Joop, che gli insegna l’arabo, il francese: «e a non farmi mai toubabizzare (colonizzare dall’uomo bianco), però non sono credente, credo soltanto nell’uomo». Autodidatta, «il mio training – diceva – l’ho fatto nell’università della strada», fa 36 mestieri, è pescatore a 15 anni, sarà metalmeccanico Citroen. Si trasferisce a Dakar, è tirailleur dal ’42 al ’45, leader sindacale, prima in patria poi a Marsiglia (dove arriva clandestino e per 10 anni è portuale). Partecipa negli anni ’50 ai cortei per Vietnam e Algeria liberi e ripudia la politica dell’assimilazione. Entra nel gruppo di Presence Africaine e, resosi conto che «in Africa, con i libri, si raggiungono poche persone», su consiglio di Sartre e Rouch studia cinema al Vgik di Mosca, e negli studi Gorki, maestri Donskoi e Gherassimov. Viaggia molto (Danimarca, Cina, Cuba…). Esordisce col corto Borom Sarret, ’62; seguono L’Empire Songhay (’63, mai distribuito), Niaye (’64), Polygamie e Problème de l’emploi (’69), Taw (un giovane diplomato, disoccupato a Dakar…) e i «lunghi» di cui abbiamo parlato. Premiato immediatamente nei festival internazionali, la sua celebre pipa non si perderà più un’edizione di Tunisi e Ouagadougou. «L’artista deve essere la bocca e le orecchie del popolo. Siamo i moderni griot, lo specchio che riflette e sintetizza i problemi, le lotte e le speranze del nostro popolo». Al «patriarca del cinema africano» fu conferito nel gennaio 2007 il premio Nonino (in giuria anche Ermanno Olmi e Morando Morandini), ma il cineasta era già malato e non venne.
Non amava i critici («non leggo mai cosa scrivono»), non amava le interviste («io parlo, loro pubblicano il libro e incassano i diritti»), non amava i giovani cineasti impertinenti (nel caso di Camp de Thiaroye) che lo rimproveravano di scippato un copione altrui. Ma le sue restano le fruste brechtiane messe più a segno contro lo sfruttamento e le ingiustizie di un continente che sa farsi molto male anche da solo. Opere più che realiste che aprirono la storia del cinema africano postcoloniale, ricominciando dallo stile fertile nouvelle vague, vivisezionando e combattendo con ogni mezzo necessario i mali dell’Africa «a sovranità limitata» che sono anche i nostri.