di Federica Dragoni con introduzione di Federica Giardini
La Comunità di pratica e riflessione pedagogica e di ricerca storica (Marirì Martinengo, Laura Minguzzi, Marina Santini Luciana Tavernini) di Milano, continua la pratica dell’approfondimento della storia vivente, una storia che indaga sul vissuto interiore di ciascuna, passato o presente, e lo porta in superficie, convinta che dalle profondità del nostro essere vengano suggerimenti per un modo di “fare storia” a misura di donne e insieme in grado di registrare vita e pensiero di donne e uomini. Il mondo -parole e immagini che pulsa e si agita nelle nostre viscere, quasi sempre privo di voce- orienta anche su modalità temporali consone al sentire umano e all’esperienza quotidiana.
I testi di riferimento del nostro studio sono Donne in relazione di Maria Milagros Rivera Garretas (Liguori, Napoli 2007) e La voce del silenzio di Marirì Martinengo (ECIG, Genova 2005).
L’articolo di Federica Dragoni, Maria Zambrano: la donna e la storia, (presentato da Federica Giardini) apparso sull’ultimo DWF Femminismi d’Europa (2008, 2, pp. 69-67) conferma, con l’autorità della filosofa spagnola, la nostra ricerca e ci inserisce in una genealogia storiografica che “getta uno sguardo sull’interezza del vivere umano e sul valore stesso dell’esperienza”(p. 60).
È stata la stessa Federica Dragoni a proporre un lavoro su María Zambrano, una scelta che già diceva della finezza e attenzione con cui stava affrontando il suo percorso di studi. Qualità che ha continuato ad esercitare nelle ricerche, ha trovato la folla di testi disponibili dell’autrice e sull’autrice e ancora chiedeva indicazioni per meglio ripartire una bibliografia così articolata. Queste qualità le ritrovo ancora oggi, nel lavoro di scoperta e discussione che stiamo svolgendo insieme ad altre sulla forza ripensata per parte di donne. In Zambrano Federica ha trovato le parole per dire il valore politico di una certa inclinazione femminile all’attenzione, una postura che non si priva del vuoto del silenzio, conoscendone l’efficacia quando si sa fare osservazione della realtà. Ma, e anche, Zambrano che pensa la Storia, questo il tema della sua ricerca. È un tema di grande cogenza per il nostro presente, che chiama a un incontro di pensieri. Per almeno due motivi. La questione della storia per parte di donne appartiene, è il caso di dirlo, alla storia di DWF, incarnata dal lavoro che Annarita Buttafuoco pubblica sulla rivista tra il 1975, data di Il tempo ritrovato. Riflessioni sul mestiere di storica (1, 1975), e il 1993. Un lavoro, il suo, che si prolunga nel dibattito che da qualche anno insiste sulla questione se fare storia, e come, di quel periodo che, a partire dagli anni Settanta, sembra aver tracciato un solco profondissimo – nei due sensi dell’intensità ma anche dell’andamento lungo e sotterraneo – il periodo dei femminismi, del movimento e pensiero delle donne (v. Il femminismo degli anni Settanta, curato da Teresa Bertilotti e Anna Scattigno, Viella 2005). La complessità della questione è che non si tratta di un tempo che si fa ridurre negli argini della disciplina storica, un tempo incarnato in corpi e menti vive, che continua a scorrere al di sotto delle scansioni degli accadimenti istituiti, ma che continua pur sempre a scorrere e, dunque, con le sue metamorfosi deve fare i conti. Una delle linee di tensione, assieme a quella dell’utilità, rimessa in discussione, di una “storia separata”, è quella che corre tra il fare storia e le genealogie femminili, essendo queste l’incarnazione di legami simbolici che molto si affidano alla memoria, un’attività singolare che procede per elezioni e che tende a “ridare la vita che era stata attraverso la nostra stessa vita”, come dice Anna Rossi Doria – che tuttavia polemizza con il concetto di genealogia – nel suo testo introduttivo a A che punto è la storia delle donne in Italia (Viella 2003). Insomma, sembrerebbe che le genealogie – con la loro inclinazione all’anacronismo, al legare donne attraverso epoche tanto diverse, insieme al rimando che contengono a un tempo, quello della relazione tra madre e figlia, che contempla anche la ripetizione e non solo scansioni e avvicendamenti – portino il pensiero sul tempo, lontano, altrove, dalle esigenze della storiografia, della scrittura della Storia. Sembrerebbe quasi che la genealogia praticata per parte di donne operi piuttosto nel verso di una singolare destorificazione. Altro e tangente è il pensiero sulla storia aperto da quei non-soggetti di storia che sono le culture altre dall’Occidente: da Gayatri Chakravorty Spivak a Jack Goody, passando per Dipesh Chakrabarty, ritroviamo in queste voci la domanda su come fare storia rompendo il “sogno di potere di chi desidera chiudere il tempo fermandolo in un eterno presente”, come dice il testo poco sotto, quello dell’Occidente realizzato e dei suoi soggetti istituiti, monumentali. Il percorso che Federica Dragoni traccia attraverso l’opera di María Zambrano si presta a nutrire il pensiero sul fare storia, nel senso del nostro agire presente e nel senso dell’uso di una diversa ragione, capace di “distribuire luce nelle viscere”. (Federica Giardini) Leggere María Zambrano è in un primo momento disorientante perché ci troviamo di fronte ad una diversa modalità di fare filosofia volta a recuperare ed unire armoniosamente sentire e ragione, vita e pensiero. Quest’ultimo si rivela sempre frutto della concreta esperienza vissuta, del sentire che l’ha accompagnata e al contempo della riflessione teoretica sulla medesima. La ricchezza dell’opera zambraniana è data in tal senso dalla forza di un pensiero inteso essenzialmente come esercizio attento di ascolto, decifrazione e disfacimento della trama compatta del reale al fine di rivelarne i fili sommersi, nascosti o semplicemente dimenticati dal tempo. Seguire María Zambrano in questo cammino significa addentrarsi in un pensiero sempre incarnato in una soggettività concreta, in cui alla “pura forza definitoria del concetto” (Prezzo 1999, p. XIII) spesso si sostituisce la semplice e immediata chiarezza di un’immagine, di un simbolo, di una metafora che non definisce né spiega nulla, ma restituisce la realtà nel suo iniziale schiudersi al tempo, in quell’istante aurorale che Zambrano tenta costantemente di recuperare e far rivivere. Per questo, accostandoci a quella che è la riflessione zambraniana sulla Storia, credo sia importante partire da un’immagine, forse la più suggestiva tra quelle concepite da María Zambrano: l’Aurora, ora della fedele riapparizione della luce al termine della notte che inaugura ogni nuovo giorno. Come l’Aurora la Storia è per Zambrano continua nascita dell’uomo al tempo, ambito privilegiato di rivelazione dell’umano (Zambrano 2000b, pp. 29-30), “alba interminabile” che deve seguitare a compiersi in un cammino di costante apertura alla Speranza. Studiare la storia viene così a significare la possibilità di gettare uno sguardo sull’interezza del vivere umano e sul valore stesso dell’esperienza perché, scrive la filosofa andalusa: “sotto ai fatti storici continua a scorrere la corrente della vita che ha dato loro respiro” (Zambrano 2006, p. 90); il pensiero di Zambrano sulla storia è così un pensiero capace di indagare il concreto rapporto che l’uomo e la donna hanno costruito con il tempo e il suo scorrere a partire dalle diverse possibili modalità di abitare tale dimensione. A tal proposito c’è un’osservazione importante da fare: Zambrano lega costantemente assieme la storia collettiva con quella individuale, macrostoria e microstoria, creando un fecondo nesso e un continuo scambio tra “storiografia” e “biografia”. Questo è un elemento importante da considerare quando si indagano gli elementi che, nella lettura zambraniana, connotano la storia come tragedia e sacrificio che sembra non possa aver fine. Se la cifra essenziale della Storia è infatti l’apertura al tempo e alle sue trasformazioni, in un orizzonte di cambiamento, fluidità e incompiutezza, quando la volontà dell’uomo decide di fermare il tempo la storia si dà come fatalità, cerchio magico in cui la vita che è libertà, eccedenza, danza, non può più scorrere. Come la Storia di un popolo si fa tragedia quando si trova bloccata entro il sogno di potere di quegli individui che desiderano chiudere il tempo, fermandolo in un eterno presente – questo è ciò che accade negli assolutismi di ogni epoca – così la vita individuale si trasforma in inferno quando si dimentica di rinnovarsi ogni giorno in un doppio movimento che, per Zambrano, costituisce la trama ultima della storia: voltarsi indietro per recuperare il proprio passato, “sciogliere le amarezze trattenute nella memoria, mettere allo scoperto le piaghe nascoste” (Zambrano 2000a, p. 65) per poi protendersi verso il futuro, verso l’aurora di una nuova nascita. Il tempo non si dà come linea retta che punta decisa verso il futuro in un moto lineare e continuo, ma è propriamente “curvilineo” e “molteplice” (Marruz 2007, p. 17); come ricorda Marruz procede in avanti per poi inabissarsi nuovamente in un passato che talvolta torna prepotentemente a far sentire la sua voce. Questo è lo stesso movimento discontinuo della vita, un trascorrere che non può essere riassorbito in alcun movimento dialettico capace di ricomporre passato, presente e futuro in un’unità, poiché la vita è trascendenza inesauribile, continua eccedenza. A partire da questa peculiare modalità di intendere il tempo, per Zambrano si può cogliere la radice tragica di tutta la cultura occidentale. L’incapacità dell’uomo di tracciare un limite alla propria ansia di “fare” storia lo porta a credere di poter realizzare un Regno di perfezione in grado, paradossalmente, di far terminare la storia stessa perché “cominci la vita” (Zambrano 2001, p. 289), di bloccare il tempo, ricreando l’atemporalità di quel paradiso che l’uomo pone come sua origine. La violenza tragica della storia sta allora nel sogno di potere di personaggi – non più persone – che non accettano di attraversare le molteplici dimensioni del tempo, ma scelgono di creare un ordine nuovo attraverso l’uso di una Ragione in grado di sottomettere e ridurre ad unità la molteplice frammentarietà del reale; per questo, scrive Zambrano “l’assolutismo è un’immagine della creazione, ma al contrario. Creando fa il nulla: annulla il passato e nasconde il futuro. Un vero e proprio nodo che si vuole fare nel tempo. Per questo è un inferno” (Zambrano 2000b, p. 104). Qui l’individuo cessa di essere persona dotata di libertà per farsi personaggio, maschera tragica bloccata entro una storia apocrifa, fasulla da cui si può uscire solo accettando di ripercorrere gli inferni dimenticati del proprio tempo, svegliandosi dall’incubo introducendo quella discontinuità che caratterizza l’istante aurorale della nascita. Essere autenticamente persona significa infatti per Zambrano riscattare la tragicità della storia scendendo nelle entrañas, nelle viscere del tempo, del proprio tempo, aprendole nuovamente alla vita e al suo scorrere. La tragedia greca e, nello specifico, la triste vicenda di Edipo, diventano in tale prospettiva ambito privilegiato di riflessione per la filosofa andalusa che vede all’origine della tragedia un “mancato movimento”, un’incapacità di proseguire nel tempo la propria nascita. Edipo diventa emblema di colui che, ignorando la propria origine, l’oscuro mistero della propria provenienza, rimane attaccato a quella cecità iniziale che caratterizza il primo darsi dell’uomo al tempo; egli è invece chiamato, come ogni uomo e donna a compiere un movimento, a iniziare un cammino di distacco dal fondo oscuro da cui proviene – anche se quest’ultimo non potrà mai essere abbandonato del tutto – perché radice della stessa esistenza umana. Edipo al contrario non compie alcun movimento, non riesce a giungere a una visione reale della propria storia perché non accetta la “passione della luce” (Prezzo 2006, pp. 39-42), il lento cammino da compiere per completare la nascita e arrivare ad essere pienamente persona, diventando così personaggio prigioniero di una storia che si fa cerchio magico, pura fatalità in cui può commettere solo errori: egli si rivela infatti incapace di comprendere il vero senso dell’enigma postogli dalla Sfinge. La risposta che egli dà, “l’uomo”, mostra infatti una conoscenza dell’universale, ossia del che cos’è l’uomo, senza però realmente conoscere chi egli sia, poiché ignora la sua origine. La sua conoscenza, simile a quella proposta successivamente dalla filosofia, è quella astratta, disincarnata e pretenziosamente universale che non fa i conti con il vissuto individuale da cui il singolo uomo proviene; in tal senso Edipo diventa in parte emblema della stessa vicenda dell’uomo occidentale: sogno di pieno possesso della realtà, di divinizzazione del personaggio “che assume la tragedia di dover essere re, con tutto quanto simboleggia senza essere nato prima di tutto come uomo; di dover essere saggio immerso nella cecità; di dover scoprire la natura delle cose, senza nemmeno conoscere se stesso” (Zambrano 2002, p. 106). Ancora una volta ci troviamo di fronte ad un profondo intreccio e intima connessione, messa in atto da Zambrano, tra storia individuale, la vicenda propria di Edipo, e la stessa storia collettiva della cultura occidentale che chiede di essere trasformata, da storia tragica in storia propriamente etica, finalmente umanizzata, in grado di accogliere in sé la Speranza. Anche a partire da questa brevissima esposizione su alcuni centrali elementi che caratterizzano la concezione zambraniana della storia, si intuisce come sia presente per la filosofa andalusa un doppio ordine, livello, che costituisce il darsi stesso della storia. La sua diversa modalità di fare filosofia arriva infatti a disfare quello che è stato il percorso dominante del pensiero occidentale: se quest’ultimo ci ha restituito l’immagine di una storia perfettamente visibile, comprensibile e razionale, come un grande arazzo in cui ogni filo si intreccia perfettamente con l’altro formando un disegno completo in ogni sua parte, Zambrano va invece a studiare il retro di questa immagine. Il suo sguardo dall’altro lato mira infatti a rinvenire i fili sommersi che non sono visibili nel disegno finale, ma che pure hanno svolto un ruolo importante nella sua costruzione. Questa attenta azione implica spesso la necessità di disfare parti del disegno per mostrare come ne sia stata possibile la realizzazione, i sacrifici e le vittime che vi si celano dietro. Il suo intento è pertanto quello di illustrare il rovescio di una Storia completamente e chiaramente visibile, lineare, volta verso un continuo progresso, per tracciare invece la storia delle viscere, di tutto quello che in questo cammino è rimasto celato, inespresso, privo di voce, divorato dalla furia di una ragione discorsiva che non ammette ombre. Trasformare la storia viene così a significare per Zambrano, la possibilità di creare un nuovo movimento capace di segnare un passaggio tra queste due diverse dimensioni, quella “sotterranea” e quella superiore, propriamente storica, che tuttavia si regge sulla precedente (Boella 1997). Perché il movimento sia possibile occorre che vi siano delle aperture, delle “porte” in grado di mettere in comunicazione queste diverse realtà aprendole ad un tempo nuovo. In tal senso è centrale la proposta zambraniana dell’uso di una diversa ragione, insieme materna, mediatrice, poetica in grado di rischiarare, di “distribuire luce nelle viscere” (Boella 1998, p. 87), districandone gli oscuri nodi. La natura “mediatrice” di questa ragione permette di svolgere un ruolo maieutico sulla storia, in grado di “trattare con il tempo”, di “mediare” con esso per portarne nuovamente alla luce i fantasmi dimenticati. E in questo lento cammino di nuova apertura del tempo, Amore Memoria e Pietà si delineano come potenze mediatrici il cui comune tratto è dato dalla trascendenza da intendersi, secondo la formulazione zambraniana, come continuo movimento che porta ad un “oltre” raggiunto paradossalmente addentrandosi maggiormente nelle profondità di quel viscere celeste che è il cuore umano, perché non c’è paradiso che si apra per l’uomo che non passi per una discesa agli inferi della sua anima. Scrive infatti Zambrano che “ogni inferno terrestre è viscere di un cielo ultraterreno” (Zambrano 2006, p. 71). La storia della donna viene sicuramente per Zambrano a iscriversi in questo lato viscerale e sommerso che deve oggi poter essere riscattato e portato nuovamente alla luce, per arrivare così a tracciare “una storia delle viscere della storia” (Zambrano 2000b, p. 75) in grado di raccontarci un diverso modo di abitare il tempo. Quella che Zambrano definisce “la radice guerriera di tutta la cultura occidentale” (Zambrano 1997, p. 68) ossia la volontà prettamente maschile di dar vita ad un ordine finalizzato a sottomettere l’intera realtà entro il proprio sogno di potere, non è stato condiviso dalla donna che rappresenta invece una concreta differenza e una singolare modalità di stare nel tempo e di abitare la storia. La donna segue un diverso percorso, trovandosi spesso a sostare in una zona di confine nel tempo storico in cui manifesta la sua più profonda attitudine, quella di “essere per l’amore” (ivi, p. 70; Buttarelli 2004), figura aurorale capace di riunire in sé, tramite il suo agire silenzioso, mondi e logiche diverse. La sua forza sta infatti per Zambrano nella natura “mediatrice” che la contraddistingue e che la porta a vivere intensamente la realtà in cui si trova, accettando di patirne anche le prove più dure rimanendo fedele al proprio sentire che sempre la guida. La relazione che si crea tra donne e storia è così singolare perché la donna appartiene alla storia, al proprio tempo, ma al contempo lo trascende, agisce in esso in nome di una diversa logica di Amore e di Pietà, di quella pietà che è in primo luogo per Zambrano capacità di “trattare adeguatamente con l’altro” (Zambrano 2001b, p. 188), con quella realtà stessa che ci si offre, in termini orteghiani, come resistenza. Ancora una volta risulta maggiormente efficace far ricorso ad una delle metafore chiave con cui Zambrano esprime la presenza e l’azione della donna nel suo tempo: l’acqua, elemento capace di dar nuovamente vita ad una storia irretita nel sangue e nella fatalità. L’acqua diventa simbolo della concreta possibilità di aprire un varco nella compattezza granitica di una Storia che si fa simile ad un sogno in cui il tempo è sospeso e in cui non sembra darsi nessuna uscita; l’acqua ha infatti in sé la forza di aprire nuove vie di passaggio grazie ad un agire paziente e costante nel tempo. È grazie all’acqua che Antigone, nella suggestiva rilettura zambraniana, inizia a riscattare la storia di sangue della sua famiglia, disobbedendo al decreto di Creonte lavando il corpo di Polinice. Il sangue raggrumato sul corpo senza vita del fratello diventa infatti emblema di una storia in cui la vita non può più scorrere, storia sanguinosa che continua a chiedere sangue e sacrifici e di fronte alla quale Antigone porta quel “filo d’acqua” capace di dar nuova vita al passato della sua famiglia, bloccato in una spirale di violenza. L’Antigone zambraniana è immagine femminile di un diverso modo di vivere la storia, perché creatura che con il suo gesto pietoso offre un sacrificio in grado di farle compiere un viaggio, mossa da Amore e da Pietà, per le zone infernali della storia umana, senza rimanere prigioniera in esse, ma trascendendole, riscattandole, dandogli un tempo e una luce nuova. L’Antigone zambraniana infatti non muore suicida nella sua tomba, ma continua a vivere in un tempo liminale, di confine tra la vita e la morte, in cui dialoga con tutti i personaggi della sua storia, entra in relazione con i diversi vissuti familiari che, amorosamente, districa e dipana assumendoli su di sé. Sono le creature come Antigone, la passione che esse incarnano, che attraversano ogni tempo e ricordano, con il loro sacrificio, la doppia struttura della storia, il suo essere metaforicamente formata dall’incrocio di due legni al cui centro, “patiscono il loro supplizio le vittime propiziatorie della storia umana” (Zambrano 2001a, p. 80). Sono queste vittime al centro della croce che permettono alla storia di muoversi, di non rimanere bloccata, di non consolidarsi in una realtà fissa e immutabile. Riconoscere il valore ultimo di questa storia viscerale, fatta di passione, deve per Zambrano poter portare a reintegrare questa essenziale esperienza nella superficie degli eventi, rivelando come il sacrificio della voci sommerse di tutti i tempi abbia contribuito ad aprire la possibilità dello schiudersi di una nuova vita storica (Boella 1997). Solo scoprendo il senso ultimo del sacrificio nella storia, dandogli un senso, la storia può aprirsi nuovamente alla speranza; solo gettando uno sguardo nella profondità degli eventi, riconoscendone le vittorie e i fallimenti, si intuisce come la storia non sia solo costruita ed edificata dalle grandi azioni dell’uomo, ma anche dalla passione di chi ne rimane ai margini. La donna per lungo tempo è stata nella storia una forza nascosta, sotterranea, viscerale, ma insieme creatrice e particolarmente attiva proprio in quei tempi di crisi che richiedono una trasformazione, un mutamento, una nuova apertura ad un presente in grado di ospitare in sé la novità della speranza. La donna può così agire nel proprio tempo orientandolo e guidandolo al cambiamento; in tale prospettiva la forza femminile sta, in parte, proprio nella sua mai completa visibilità, nell’essere quell’elemento viscerale della storia che compie un movimento di salita e comparsa al tempo per poi tornare nuovamente nei suoi inferni sotterranei, in fedeltà a quell’ “altro mondo” che sorregge e vivifica l’intera struttura del reale. La ragione poetica proposta da Zambrano può giungere a riscattare queste silenziose storie di donne che, legate fedelmente all’anima e al proprio sentire, non hanno partecipato all’avventura maschile dello spirito, della conquista della realtà. La riscoperta di questa differenza femminile di abitare la storia diventa così, per Zambrano, cifra ed emblema di una nuova e diversa possibilità di fare filosofia capace di concepire il sapere come frutto di un cammino personale nella concretezza della propria esperienza. Un sapere finalmente incarnato, capace di congiungere insieme sentire e ragione, anima e spirito, viene così ad essere al contempo il cammino indicato dalla filosofia per fare della storia una continua aurora, nascita perenne dell’uomo al tempo nella ricerca di una nuova libertà. Per questo la stessa invisibilità della donna sul piano storico, pubblico e politico deve per Zambrano poter essere riscattata al fine di portare nuovamente alla luce la ricchezza simbolica ed espressiva di un universo che spesso ci ha lasciato testimonianza di una “diversa maniera di creare” (Laurenzi 2005, p. 22). La donna ha infatti scoperto una differente modalità di partecipare alla creazione, alla libertà, seguendo la silenziosa via dell’Amore che la rende creatura aurorale, perché capace dell’ “offerta consapevole di sé che prelude l’atto creatore” (Dobner 2005, p. 9). Se l’origine della violenza europea è da rintracciarsi per Zambrano nella decisa adorazione di quel Dio veterotestamentario capace di creare il mondo dal nulla, la donna invece ci restituisce con il suo agire, un diverso modo di intendere la creazione. La donna non crea dal nulla, scegliendo di edificare un mondo perfetto, ideale, utopico, ma costruisce ponti di speranza partendo dalla concretezza della realtà in cui si trova a vivere, rimanendo fedele a quella materia dura e resistente che può essere trasformata e vivificata solo se la si percorre dall’interno. Allora, lo stare nella passività, atteggiamento che Zambrano lega all’esistenza della donna, diventa il primo passo da compiere per poter realmente creare una storia nuova; infatti, se “il primo modo di fare i conti con una realtà umana è sopportarla, subirla semplicemente” (Zambrano 2000b, p. 8), questa è la via in grado di portare successivamente l’uomo a prendere piena coscienza di essa. Partire dalla passività per poi giungere a trasformare, attivamente, la propria storia in cammino aurorale che ogni giorno si schiude, senza mai consumarsi, promessa di una verità che non si realizza mai del tutto; cammino di apertura a quella Speranza che si fa così emblema stesso dell’agire della donna nella storia: C’è una speranza, infatti, che non spera nulla, che si alimenta della propria incertezza: la speranza creatrice, quella che estrae la sua stessa forza dal vuoto, dall’avversità, dall’opposizione, senza per questo opporsi a nulla senza lanciarsi in alcun tipo di guerra. È la speranza che crea restando sospesa, senza ignorarla, al di sopra della realtà, quella che fa emergere la realtà ancora inedita, la parola non detta: la speranza rivelatrice, che nasce dal congiungersi di tutti i passi già indicati, perfezionati e accordati all’estremo, che nasce dal sacrificio che nulla spera di immediato ma che è gioiosamente consapevole del suo certo, superato, compimento. È la speranza che cresce nel deserto che si libera dell’aspettarci in quanto nulla si aspetta a tempo determinato, la speranza liberata delle infinità senza termine che abbraccia e attraversa l’intera estensione delle epoche. (Zambrano 1992, p. 118)
Riferimenti bibliografici
Opere di María Zambrano:
Zambrano, María (1992) I beati (1990), Milano: Feltrinelli
Zambrano, María (1997) All’ombra del dio sconosciuto. Antigone, Eloisa, Diotima (1995), Milano: Pratiche editrice
Zambrano, María (2000a) Delirio e destino (1989), Milano: Raffaello Cortina
Zambrano, María (2000b) Persona e democrazia. La storia sacrificale (1958), Milano: Mondatori
Zambrano, María (2001a) La tomba di Antigone (1967), Milano: La Tartaruga
Zambrano, María (2001b), L’uomo e il divino (1955 ), Roma: Edizioni Lavoro
Zambiano, María (2002), Il sogno creatore (1965), Milano: Mondadori
Zambrano, María (2006) La Spagna di Galdós. La vita umana salvata dalla storia (1960), Genova-Milano: Marietti Letteratura critica:
Boella, Laura (1997) La passione della storia, in aut-aut, n. 279, pp. 25-38 Boella, Laura (1998) “María Zambrano”, in Cuori pensanti, Mantova: Tre Lune
Buttarelli, Annarosa (2004) Una filosofa innamorata. María Zambrano e i suoi insegnamenti, Milano: Mondadori
Dobner, C. (2005) Dalla penombra toccata dall’allegria. María Zambrano la donna «filosofo», Roma: OCD
Laurenzi, Elena (2005) Il sapere dell’anima. María Zambrano e José Ortega y Gasset, in Il pensiero di María Zambrano, a cura di L. Silvestri, Udine: Forum, pp. 11-27
Marruz, F. G. (2007) La spada intatta di María Zambrano, Genova – Milano: Marietti
Prezzo, Rossella (1999) Il cominciamento, introduzione all’edizione italiana a M. Zambrano, Verso un sapere dell’anima, Milano: Raffaello Cortina, pp. VII-XXIV.
Prezzo, Rossella (2006) Pensare in un’altra luce. L’opera aperta di María Zambrano, Milano: Raffaello Cortina