Claudio Canal
La vita della grande pedagogista in un volume di Renato Foschi pubblicato da Ediesse Il successo mondiale del suo metodo ne facilitò l’adattamento alle situazioni locali, dall’Olanda alla Nigeria Un progetto politico in cui la formazione non è serva del mercato, ma è destinata a liberare le bambine e i bambini
Si intravvede il mare dal cimitero di Noordwijk, cittadina a quaranta minuti da Amsterdam. Su una lapide semicircolare si possono leggere incise in italiano le parole: «Io prego i cari bambini che possono tutto di unirsi a me per la costruzione della pace negli uomini e nel mondo». Stava partendo per il Ghana a impiantare nuove scuole quando la morte la colse il 6 maggio 1953, Maria Montessori, che era nata il 31 agosto del 1870. A tre quarti d’ora d’auto, a Naarden, è sepolto il moravo Jan Amos Komensky, Comenio, morto tre secoli prima. Due giganti del pensiero e della pratica educativa muoiono in Olanda, lontani dai rispettivi paesi natali. Comenio avrebbe potuto morire in Svezia, a Londra, in Ungheria e Maria Montessori negli Stati Uniti, in India, a Barcellona. Un vero e proprio Labirinto del mondo e paradiso del cuore, come Comenio aveva intitolato un suo straordinario scritto utopico (pubblicato in Italia dalla Silvio Berlusconi Editore!). Sia l’uno che l’altra avevano trovato in Olanda la libertà di pensare e di operare.
Chi non sia nato ieri ricorderà il volto della Montessori stampato sulla banconota da 1000 lire. Dubito che sarebbe stata felice di apparire sulla merce universale e non si fa fatica a immaginare la sua reazione di fronte all’attuale miseria culturale della pedagogia governativa e paragovernativa, alla scuola trasformata in un’agenzia di rating, al delirio dell’ottimizzazione e dell’aziendalizzazione dei processi educativi, alla burocratizzazione nevrotica di docenti e strutture. Cosa potrebbe dire della cultura delle crocette, la quiztura che determina oggi la selezione degli insegnanti?
È un’impresa archeologica parlare oggi di Maria Montessori? Sì, per almeno due buone ragioni: lo strepitoso successo mondiale del suo metodo ne ha facilitato l’adattamento alla situazione locale, che sia l’India, gli Stati Uniti, la Nigeria o l’Olanda, e una continua evoluzione sulla traccia delle acquisizioni della psicopedagogia. La seconda banale ragione è che il mondo è cambiato e l’infanzia di oggi è profondamente diversa da quella da lei studiata: bambini e bambine spinti a coltivare il loro narcisismo, indotti, come gli adulti, al godimento immediato e replicabile all’infinito, selezionati sempre più in base alle loro prestazioni cognitive e alle loro capacità di sgomitamento competitivo, detto anche meritocrazia. Un’infanzia addestrata a diventare merce invece che eresia, quale essa è.
Ma è anche un gesto ribelle riparlare oggi di Maria Montessori. Per cui ben venga una nuova biografia critica, come quella pubblicata da Renato Foschi, Maria Montessori (Ediesse, pp. 204, euro 12). Accurata, estranea alla gergalità di molte pubblicazioni pedagogiche, con alcune novità storiografiche rispetto al rapporto del fascismo con Maria Montessori. Foschi sostiene giustamente che il suo progetto educativo sia un progetto politico in cui la formazione non sta in funzione del mercato e dei mercanti, come si pretende oggi, ma è destinata attraverso l’autoliberazione dei bambini e delle bambine alla trasformazione della società adulta verso una socialità più piena e pacifica. Detti così, sembrano principi incartati nei luoghi comuni universali, propellente della retorica istituzionale, mentre in Montessori sono invece impegno scientifico tradotto nella pratica educativa giorno dopo giorno. Per questo ci interessa proprio il versante biografico, come parabola di una vita che raccoglie le ambiguità e le contraddizioni del suo tempo per farne un accumulatore di energie di mutamento.
Tra le prime a laurearsi in medicina all’Università, con tesi Studio delle allucinazioni a carattere antagonistico, frequentazione critica del positivismo mascolino dei suoi maestri, più interessata alle ricerche dell’antropologo Léonce Manouvrier sul superiore valore del cervello femminile, impegnata a proporre una pedagogia riabilitativa e non solo ortopedica dei bambini deficienti o frenastenici, come si diceva allora. Come rappresentante italiana partecipa al Congresso Internazionale delle donne a Berlino e poi a Londra, nel 1899. Propugna pari salario a pari orario e delinea quell’eroismo femminile di cui sarà sempre personificazione e propugnatrice a sostegno delle «aspirazioni femministiche di libertà» e, pane al pane, contro gli uomini, «padroni, in senso barbaro, della vita sessuale». Hanno esplorato a fondo questo aspetto Valeria P. Babini e Luisa Lama in Una “donna nuova”. Il femminismo scientifico di Maria Montessori (FrancoAngeli 2010) a integrazione della fondamentale biografia della storica americana Rita Kramer mai tradotta in italiano, nella cui prefazione Anna Freud riconosce il suo debito verso l’italiana.
Nel 1902 si iscrive alla facoltà di filosofia dell’Università di Roma per seguire le lezioni di pedagogia di Luigi Credaro, poi ministro della pubblica istruzione. Gli anglomani vedrebbero qui in Maria Montessori una personalità multitasking, una mente policentrica che nel 1907 avvierà la prima Casa dei bambini nel quartiere popolare di San Lorenzo nella Roma «mazziniana» del sindaco Ernesto Nathan. Inizia a questo punto la felicità espansiva delle sue intuizioni pedagogiche che le verranno sempre più riconosciute internazionalmente anche quando saranno sottoposte a critica. In Italia sarà il mondo cattolico ufficiale a bastonarla perché non ritrova negli scritti e nella prassi montessoriana la colpa, il peccato originale da cui sarebbero segnati i bambini da redimere. Nonostante la sua collaborazione con le suore francescane e i suoi scritti sulla religiosità e sul rito della Messa, i pedagogisti cattolici le opporranno sempre la pedagogia delle sorelle Agazzi, più italiane e meno cosmopolite. In fondo, come nota Foschi, la religiosità di Maria Montessori sarà sempre segnata dalla teosofia, di cui era diventata formalmente seguace fin dal 1899 e che approfondirà negli anni trascorsi in India durante la seconda Guerra Mondiale. Il primo viaggio negli Stati Uniti nel 1913 dà il via alla montessorizzazione del mondo, per così dire, e alla leggenda vivente che lei stessa contribuirà ad alimentare con i suoi libri e le sue conferenze.
Il fascismo ne cercherà la collaborazione, è del 1924 la fondazione dell’Opera Nazionale Montessori, e la pedagogista non si tirerà indietro, illudendosi di condizionarlo. Romperà con il fascismo dieci anni dopo. La polizia segreta, l’Ovra, le starà sempre alle calcagna, come documenta Foschi, e terrà d’occhio soprattutto il figlio. Già, il figlio, Mario, dato alla luce nel 1898 con Giuseppe Montesano, suo collaboratore scientifico, con cui chiude la relazione. Impensabile allora poter proseguire la carriera scientifico-accademica avendo da nubile un figlio. Lo darà in affidamento e lo «recupererà» solo nel 1913. Marjan Schwegman, nella biografia pubblicata dal Mulino nel ’99, chiarisce bene come questo abbandono abbia dolorosamente gorgogliato dentro Maria inducendola a costruire una filosofia dell’irresponsabilità adulta verso i bambini che invece chiedono insistentemente uno sguardo di comprensione. Il figlio, che prenderà il cognome della madre, diventerà, invertendo i ruoli tradizionali, il suo alter ego, l’accompagnatore, la guida, il più fidato collaboratore della Grande Maestra.
Uno spreco della memoria ripescare Maria Montessori? Una religione scaduta la sua? Già nel 1953 Francesco De Bartolomeis (in Maria Montessori e la pedagogia scientifica, La Nuova Italia, ultima edizione 1999), curiosamente non citato in bibliografia da Foschi, rilevava che «la scienza a cui ella fa ricorso non è una forza capace di investire con mezzi critici e sperimentali tutti i problemi dell’educazione». Tuttavia, in un mondo iperpedagogizzato, in cui tutto viene insegnato – far l’amore, far l’orto, far da mangiare, fare lo scrittore… – la sua sollecitazione all’autoformazione come autoliberazione ci fa dire che non possiamo non dirci montessoriani.