Alberto Leiss
“Il maschio non ha il senso del bene e del male, non ha coscienza morale, che può nascere solo dalla capacità di comprendere gli altri…non ha fiducia nel suo Io inesistente, è costretto a essere competitivo per natura, è incapace di collaborare: ha bisogno di una guida e di un controllo esterni. Per questo ha istituito le autorità – preti, esperti, padroni, capi, ecc. – e il governo.” Così Valerie Solanas nel suo celebre “manifesto per l’eliminazione dei maschi”, alla voce “Autorità e governo”.
Considero, per un maschio, un esercizio utile la lettura e rilettura di questo testo “estremo”. Naturalmente in tale esercizio può svilupparsi anche una forma “estrema” di narcisismo masochistico tipicamente maschile, praticata – come direbbe Solanas – all’unico scopo di soddisfae l'”ossessionante desiderio di essere ammirati dalle donne”. Una donna molto intelligente mi ha detto recentemente che non metterebbe mai la “fiducia” nel rapporto con un uomo, e la cosa mi ha fatto riflettere.
Perché faccio queste premesse alla rinfusa?
Perché sento che è davvero molto difficile realizzare quel nuovo tipo di relazione politica tra uomini e donne – certo conflittuale, ma, appunto, una relazione che riconosce l’altro, anzi, per quanto ci riguarda, l’altra – sulla quale scommettono le amiche di “Via Dogana” per andare oltre il separatismo, consapevole, femminile, e quello – per lo più inconsapevole – maschile.
Tuttavia, tra tante cose negative che ci circondano, mi sembra di poter dire che va aumentando il numero di uomini che avvertono, se non altro, il bisogno di una sorta di “autocritica” pubblica del loro modo di intendere e praticare la politica, i rapporti con gli altri e con il mondo, e questa autocritica cerca di misurarsi con il pensiero della differenza sessuale.
Per esempio nell’ultimo libro di Marco Revelli (Oltre il Novecento. La politica, le ideologie e le insidie del lavoro – Einaudi, 2001), una delle “radici” del passaggio d’epoca tra fordismo e post-fordismo è individuata nella “rivoluzione femminile” che ha scardinato l’ordine familiare patriarcale e ha accompagnato il massiccio ingresso delle donne nel mercato del lavoro. Revelli cita i classici – le classiche – del femminismo americano degli anni ’70, ma anche Irigaray e Muraro, e quegli autori, come Marazzi, che hanno insistito sul cambiamento dei paradigmi linguistici – oltre che tecnologici e finanziari – del modo di lavorare e produrre mettendone in rilievo l’essere sessuato.
Per Revelli la “rivoluzione femminile” introduce nella produzione il “campo immenso dei “beni relazionali”, dell’interazione tra soggetti, della reciprocità e della cura, dove non si manipolano sostanze, ma universi simbolici, flussi di relazioni interpersonali, messaggi. E dove la materia prima non è il ferro o il cemento – gli ingredienti dell'”industria pesante” – ma sono desideri, bisogni, immagini, rappresentazioni mentali, o talvolta corpi, nuda vita, sentimenti…”
Passando poi a ragionare sui “peccati della politica” novecentesca, Revelli sviluppa una critica della figura del”militante” rivoluzionario quale conseguenza di quell’ideologia prometeica dell'”homo faber” che ha portato anche alle aberrazioni violente del comunismo. E’ chiaro che questo “homo” è proprio un uomo maschio: la possibilità di un superamento dei “peccati della politica” è vista nel sorgere “aurorale” di una figura di “uomo solidale” che si incarna nel “volontario”. Non più un “soldato”, ma un “civile”, non armato di un “che fare?” ( cioè di un “sapere organico e predittivo”), ma di una “sapere che cosa non si può più fare”. A partire da quella scissione tra ragione e passione, tra razionalità e emotività che sembra proprio essere una preorgativa dell’agire del movimento operaio novecentesco. Si evoca qui una pratica politica – “antagonista” all’ordine del mercato capitalistico – basata su uno “”stare nelle cose” senza trasformarsi in esse” – un “fare” gratuito e solidale, per “una forma di trasformazione dei rapporti sociali che si realizza direttamente nei comportamenti e non attraverso la mediazione di macchine, apparati, gesti produttivi” Non sono pochi – anche se non tutti dichiarati – i debiti di questa utopia al pensiero femminile.
Su alcuni di questi spunti tornerò brevemente.
Qui aggiungo che l’lelenco di citazioni di testi concettualmente contigui, per alcuni versi, a quello di Revelli potrebbe allungarsi in modo significativo. Se Massimo Ilardi dedica un controverso capitolo al “pensiero della differenza” nel suo Negli spazi vuoti della metropoli (Bollati Boringhieri, 1999) in un altro libro sui Movimenti nella città (Bollati Boringhieri, 2000) Vincenzo Ruggiero conclude la sua rassegna occupandosi dell’idea di “rivoluzione simbolica” contenuta nel “Sottosopra” E’ accaduto non per caso, e della pratica delle “vicine di casa” in Veneto. Anche qui ritroviamo l’idea di pratiche e teorie politiche caratterizzate dalla radicalità critica rispetto all’ordine dominante, ma anche dalla fine di ogni “teleologia”. A un certo punto Ruggiero cita un articolo del filosofo americano Richard Rorty – tradotto in Italia da “Micromega” nel primo numero del ’97 – in cui si proponeva una sorta di alleanza tra pragmatismo e “femminismo profetico”, proprio al fine di compiere una rivoluzione linguistica, e quindi anche politica e morale, senza l’ingombro di pretese verità universali. La proposta non piacque del tutto a Adriana Cavarero, anche se Rorty riconosceva al pensiero e alle pratiche del femminismo un ruolo altissimo, paragonabile a quello svolto nella storia della civiltà dall’Accademia platonica, o dalle prime riunioni cristiane, o alla “banda di fratelli” (Holderlin, Keats, Byron, Goethe, Shelley, Chamisso) che all’inizio dell’800 ha cambiato il modo di pensare in Europa.
E ancora, tornando in Italia, c’è il tentativo di Mario Alcaro di utilizzare il concetto di “ordine simbolico della madre” elaborato da Luisa Muraro per rivalutare i principi comunitari dei modi di vita radicati in alcune realtà del Mezzogiorno (Sull’identità meridionale, 1999). Infine, un testo comprato a caso in libreria: La terza donna. Il nuovo modello femminile, del filosofo-sociologo francese Gilles Lipovetsky (Frassinelli, 2000) che valorizza a suo modo la differenza rispetto all’uguaglianza. Vi si parla di una “rottura storica profonda nella costruzione dell’identità femminile come nei rapporti tra i sessi” e di una “rivoluzione senza precedenti nella socializzazione e nell’individualità del femminile, attraverso una diffusione generale del principio di libertà di decisione su se stesse e una nuova economia dei poteri femminili”. Tuttavia Lipovetsky – evidentemente lettore non rassegnato delle profezie di Solanas – si consola nelle ultime righe: la “crisi della virilità” è “più un’immagine letteraria che un fenomeno sociale di fondo: l’uomo è l’avvenire dell’uomo e il potere maschile l’orizzonte fisso e immobile dei tempi democratici”.
Eccoci al punto, fornito dall’intersezione di quelle tre parole: potere, democrazia e maschio. Un punto che certamente definisce in modo “fisso” l’idea corrente di politica, ma è altrettanto certo che quella fissità appare sempre più povera, un orizzonte affacciato su un abisso di senso, verrebbe da dire, non solo agli occhi dei più critici, ma anche a quelli del senso comune. Persino il presidente Ciampi, così in vena di dichiarazioni patriottiche, sente il bisogno di nominare, revellianamente, il ruolo prezioso, insostituibile, di quell'”altra politica” riassunta nella figura del “volontario”.
La discussione aperta dagli ultimi due numeri di questa rivista si avvantaggerebbe, credo, se lo sguardo non fosse troppo concentrato su ciò che avviene o non avviene all’interno di un ceto politico di cui il meno che si possa dire è che appare disorientato. D’altra parte la critica radicale della rappresentanza che ripete Lia Cigarini a noi maschi con una storia nella sinistra politica alle spalle, e una certa affezione alle libertà democratiche, qualche imbarazzo lo crea. La via di uscita che ho cercato di immaginare, per me innanzitutto, è un’idea di pratica politica che scelga la frequentazione del margine. Margine come luogo di sovrapposizione, materiale e mentale, tra i territori diversi costituiti dai sessi, dalle istituzioni e dalla realtà sociale, dalle genealogie concettuali, dalle memorie parallele, dai linguaggi del quotidiano e dei media. Da questi margini forse è possibile rileggere e rinominare ciò che ci appariva il “centro”. Parlamento e governo non come luoghi indifferenti – meglio un personale onesto che amministra bene invece di ladri incapaci – ma certo, nell’era della vittoria globale capitalistica, non più come mitica “stanza dei bottoni” da cui cambiare la società. Il mercato e l’impresa, invece, e i territori urbani (e pure campani – vedi il caso mucca pazza) investiti dalle nuove forme di produzione e consumo (e di rappresentazione mediatica), come i veri luoghi in cui è in gioco – subito – la partita della “rivoluzione simbolica” in corso.
Per quanto riguarda i maschi – i maschi di sinistra (e magari anche di destra)- c’è un lavoro sul proprio sé e la propria cultura politica da fare. Con Revelli mi piacerebbe discutere se non c’è proprio nulla da salvare nella storia e nella memoria del movimento operaio novecentesco. Non erano anche “volontari”, civili e aperti solidalmente al mondo – certo, non senza eccessi moralistici e fideistici – quegli operai specializzati resi liberi dalla dignità e qualità del loro lavoro e dall’appartenenza alla differenza comunista e socialista, e in molti casi cattolica?
Mi incuriosisce poi che intellettuali tanto distanti come Alcaro e Rorty, oltre a cercare – nel momento del pericolo – alleanze mentali con l’altro sesso, predichino il recupero delle idee di Dewey, un americano che molto ha pensato sui nessi tra scienza, coscienza, prassi e politica democratica.
Che cosa voglio dire? Che molto ci sarebbe da cercare, ripensare, scambiare e cambiare. A meno che in fondo non si creda al potere maschile come “orizzonte fisso e immobile” di questi “tempi democratici”, oppure non si accetti il minaccioso consiglio di Valerie agli “uomini ragionevoli”: non scalciare, non lottare, non sollevare penose proteste, ma starsene seduti col cuore in pace, rilassati, e goderci lo spettacolo (della vittoria totale femminile) abbandonandoci alla deriva verso la nostra fine.