Parla Amir Reza Koohestani, nome di punta del teatro iraniano, autore di «Dance on Glasses» magnifico testo su amore, conflitto tra maschile e femminile, fondamentalismi di ogni latitudine
Cristina Piccino
Amir Reza Koohestani Dance on Glasses lo ha scritto che aveva ventitré anni. Oggi di anni ne ha ventisette (è nato l’8 giugno del 1978) e il suo nome, insieme a quello della sua compagnia, ha fatto il giro del mondo. Da Shiraz, cittadina iraniana dove è nato e continua a vivere, Amir Reza, i suoi attori e le sue storie sono ora ospiti privilegiata nei cartelloni dei teatri internazionali, presenza «fissa» nei festival di tendenza e oggetto d’amore per la critica anche esigente. Al telefono Roma/Shiraz – è così che si svolge la nostra conversazione e dopo le parole di Mahmud Ahmadineyad, il presidente iraniano, su Olocausto e Israele non abbiamo potuto riparlare con Amir Reza – lui sorride. In realtà che le cose vadano veloci sembra esserci abituato, a cominciare da sé stesso che a sedici anni pubblicava già racconti sul giornale locale di Shiraz. Dopo è venuta la passione per il cinema, sono gli anni Novanta di Kiarostami e Makhmalbaf, Amir Reza prende lezioni di regia ma capisce presto che la macchina da presa non fa per lui. Nel 96 incontra il Mehr Theatre Group, che gli chiede una pièce a partire da una delle sue storie. Il primo lavoro è però del 99, And The Day Never Come. Poi arriveranno The Murmuring Tales, Dance on Glasses e il più recente Amid the Clouds. Nel frattempo Amir Reza ha anche adattato Experiences dello scrittore canadese Jacob Wren, ma questa è ancora un’altra storia. Dance on Glasses che è stato il punto di partenza della nostra conversazione (visto a Roma grazie all’infaticabile lavoro dell’associazione Cadmo che organizza Le vie dei festival, selezione di spettacoli fuori mercato), parla dell’amore. E dell’impossibilità di amare. Un ragazzo e una ragazza si fissano attraverso un lungo tavolo. Lui ama lei e vuole educarla, costringerla ai suoi desideri, alle sue visioni, a se stesso in quell’ansia di «controllo» che è spesso cuore subliminale o dichiarato di una relazione. Vuole che lei danzi, che si alleni e diventi perfetta. Lei fuggita di casa nell’Iran che lascia poco spazio alle ragazze ne cerca uno per sé. Come persona, coi suoi sogni e le sue incertezze. Il resto è un corpo a corpo doloroso anche per lo spettatore, che riguarda l’Iran del maschio «dominatore» e insieme i moti ambigui del sentimento nel mondo. Una danza sui vetri appunto. I due giovani attori sono bravissimi (Ali Moini e Sharare Mansourabadi), nella serata romana erano lontani da manie religiose, velo e quant’altro. Come Amir Reza Koohestani, che infatti ha dovuto lottare per questo suo lavoro non censurato ma comunque in patria guardato con sospetto. Lui però non cerca la polemica ma la consapevolezza, con l’energia determinata di una nuova generazione cresciuta dopo la rivoluzione e capace di conquistarsi un’identità indipendente. Persone che fanno per questo paura a tutti, agli integralisti dell’ occidente e ai fanatici come il presidente iraniano Ahmadinejad.
C’è qualcosa di autobiografico in «Dance on Glasses»?
Non proprio anche se molto rimanda a miei stati d’animo e a sentimenti personali… Quando ho cominciato a scrivere ho fatto diverse interviste a ragazze che come la protagonista erano fuggite di casa provando a elaborare qualcosa sulle loro esperienze. Gli incontri sono andati avanti circa un mese, e intanto scrivevo. Durante le prove ho continuato la mia ricerca, era molto importante per me arrivare in profondità. La danza che diventa lo spazio di comunicazione e di scontro tra i due personaggi, esprime un po’ il senso della vita. Mentre si danza ci si concentra su sé stessi, si cerca l’equilibrio e ci si sforza per conservarlo. La ragazza muovendosi sulla fila di bicchieri rovesciati è terrorizzata all’idea di cadere, e questo spavento e la continua tensione sono l’immagine della sua esistenza.
Chiameresti «Dance on Glasses» una storia d’amore?
L’uomo ama la ragazza, e per questo cerca di rinchiuderla in una definizione che è anche l’immagine che vuole imporre del loro rapporto e di lei. Non pensavo di rappresentare Dance on Glasses in così tanti paesi e quando hanno cominciato a invitarmi ero convinto che il pubblico all’estero non avrebbe capito nulla. Invece lo spettacolo ha avuto sempre reazioni positive, e ovunque la gente vedeva nei due personaggi qualcosa della propria vita. La ragazza è fuggita dalla sua famiglia per essere indipendente. È una persona che cerca, che si muove anche affrontando situazioni non facili nel nostro paese. Il ragazzo vuole tenerla lì con sé, vuole che danzi, i loro sono movimenti di tipo diverso. Lei vuole qualcosa di più, lui si è fermato e sa usare solo il comando. Questa distanza in scena è il tavolo che c’è tra i due. Può riferirsi alla religione, alla vita sociale, alla politica in Iran ma anche altrove.
Pure se a un certo punto si parla di religione, e inoltre la protagonista si chiama Shiva.
È un nome femminile molto comune in Iran, e ha diversi significati. Ho anche pensato alla mitologia induista ma mi piaceva soprattutto il gioco di sovrimpressione tra il dio e la donna, quasi che la donna sia il dio e non in un vero e proprio culto. Non cercavo infatti una spiegazione, il dio che il ragazzo descrive è la visione di un danzatore ma è anche lei, Shiva, la ragazza che ha amato. L’aspetto religioso a questo punto non ha un significato chiaro, o forse sì, la religione riguarda la follia del protagonista. Mentre per me dovrebbe essere una forma del pensiero come lo sono gli ideali degli esseri umani, il desiderio che riguarda il modo di essere e di vivere. La visione del ragazzo è molto macho, è già la religione in forma di politica. E però è anche debole come lo è lei, e anzi per me la debolezza è la caratteristica più evidente dei personaggi sul palco. L’ossessione della religione oggi ha cambiato il nostro modo di vivere perché, appunto, la religione è divenuta uno strumento politico e sociale, e in questo il fondamentalismo riguarda qualsiasi cultura, l’occidente e l’oriente. Ero a Londra nei giorni dopo gli attentati in metropolitana e la percezione che si dava dei musulmani era terribile. Ma il punto è sempre lo stesso, la religione non dovrebbe essere mai configurata come punto di partenza per un discorso politico.
Cosa significa per te vivere in Iran oggi, specie dopo la vittoria di un conservatore come Ahmadinejad?
Chi è nato qui non ha quasi mai voglia di cambiare, e per me è lo stesso. Ho passato cinque mesi in Europa seguendo le tournée degli spettacoli e credo che non potrei ma viverci. Non mi piace il sistema sociale europeo, l’idea dell’ordine e della sicurezza che lo sovrasta, mi sembra che ci siano molti limiti anche nel modo di vivere. E in genere non credo che l’occidente sia migliore. Questo non vuol dire che in Iran tutto sia perfetto, anzi. Ma è pure vero che la società iraniana non è quanto si riesce a vedere dall’estero, l’Iran reale è molto più contraddittorio e non corrisponde alle immagini che offrono televisioni o giornali compresi i nostri. Penso che oggi sia un paese in grande movimento, c’è una scolarizzazione alta che riguarda anche le donne, e in fondo è anche il senso di Dance on Glasses, dove per me il personaggio femminile è comunque il più forte. Penso anche che in Iran stiamo vivendo un momento di grosso slancio, ci sono molti nuovi artisti visuali, o cineasti come Samira Makhmalbaf che ha la mia stessa età. Anche il pubblico del mio teatro appartiene alla mia generazione, credo che siamo un po’ speciali, siamo nati dopo la rivoluzione e la nostra infanzia coincide con la guerra tra Iran e Iraq. Poi siamo diventati adulti con Khatami costretti a confrontarci con una confusione generale e una società che sta cercando i propri valori.
E adesso?
Sono stato molto sorpreso dalla vittoria di Ahmadinejad che non avrei mai votato… Però la prima volta che ho sentito i suoi discorsi, cosa diceva sulla giustizia nel paese, il fatto anzi che la usasse come tema principale scagliandosi contro corruzione politica e privilegi, ho capito che avrebbe avuto una grande presa. Specie su quelle classi sociali più deboli, che sono anche rimaste fuori dalla cultura e da una certa elaborazione di modernità. Dunque sono più manipolabili e esposte al controllo.