Maria Cristina Mecenero
Il film documentario L’amore che non scordo delle registe Manuela Vigorita e Daniela Ughetta è un frutto maturato dopo anni di politica delle donne e del movimento dell’Autoriforma. Credo che apra una stagione nuova e che Vita Cosentino l’abbia inaugurata avendo l’idea, quel giorno felice in cui ha messo insieme un’intuizione politica – fare un film sulle maestre e le bambine e i bambini – e le persone che potevano partecipare alla realizzazione.
Di scuola parliamo da anni, ma la potenza delle immagini, si sa, è tanta, e soprattutto lo è lo sguardo con cui sono entrate le registe nelle aule e quel titolo, trovato da una di loro, che rilancia a partire dall’amore e dal ricordo che ne abbiamo. Abbiamo ricordo di innumerevoli cose dentro di noi, e il simbolico ci insegna che molte possono rimanere nell’ombra, per vari motivi; poi può succedere, per altri motivi, che se ne riattivino alcune e che tutto dentro di noi prenda un’altra piega. E questa volta, attraverso un film-documentario, che entra nello spazio pubblico agendo di suo, l’altra piega si è propagata subito anche allo spazio collettivo. Eravamo in un momento in cui facevamo fatica a portare avanti riflessioni e pratica politica sulla scuola, per le fatiche derivate dai continui tentativi di riforma degli ultimi decenni e per la crisi del senso dell’agire politico. E poi arriva il film, coi giornali che ne parlano e le tante richieste che sia proiettato, visto, discusso, usato da associazioni, università, gruppi, singoli.
A chi viene a vederlo – e non si tratta solo di gente del settore – il film sembra restituire qualcosa di ciò che è stato quel periodo della vita, nelle biografie personali di ognuno, e di ciò che è oggi un’esperienza primaria, un’esperienza elementare. Un’esperienza infantile e di relazione – quella di tanti bambine e bambini delle scuole primarie – che ai più risulta invisibile, e che ha tutti i connotati per essere valutata come un’alta esperienza umana e di conoscenza. Il film sembra riattivare la curiosità verso ciò che si fa e si dice, ci si scambia dietro le quinte, di elaborato, complesso, profondo e sincero. Più che dietro le quinte, dietro la porta, a fianco di grandi uffici, istituzionali e non – banche, società dove tutto capita, nel disordine di un potere che non efficientizza, come vorrebbe, il tempo, le risorse, umane e non umane, che provoca scontentezze, paga chi sta al gioco, non chi mette senso umano e relazionale – a fianco di tutto questo qualcosa di un altro ordine si concretizza. E l’invito che se ne ricava è a saper vedere e riconoscere questo ordine, dentro di noi e fuori di noi, a ritornare a sapere quello che già sappiamo, perché lo abbiamo vissuto nella nostra infanzia e se siamo stati fortunati anche dopo; e ad andare avanti, a mostrare altri luoghi, le scuole medie per esempio – questo è l’invito che viene dal pubblico – cogliendo tutta la ricchezza che in essi c’è.
Sbendare i propri occhi, dare valore a ciò che ce l’ha, esserne capaci, perché sappiamo che è urgente per tutti ritrovare un filo, e farlo a partire da chi siamo e da ciò che abbiamo intorno. Fare in modo che le esperienze di senso, di qualità esistenziale, a portata di mano, vicine a noi ma rese invisibili, siano viste, riconosciute, sostenute. Prese ad esempio: ciò che le bambine e i bambini sono capaci di fare, insieme alle loro maestre e ai loro maestri, è stare con i piedi per terra e sapere anche volare alto, seguire piano piano una strada e avere fiducia, stare nell’amore del linguaggio, che è amore per la vita, cura di noi e degli altri. Ma per scorgere ciò che c’è, come hanno saputo fare le registe, è necessario uno sguardo pronto a cogliere il bello, che è poi il buono. Perché la bellezza non sta (solo) nella realtà che si presenta davanti a noi, ma (anche) negli occhi di chi la vede.
Quella che si vede nel film-documentario è la scuola di cui sono capaci bambine e bambini in Italia, quelle che si vedono sono esperienze molto concrete che abbiamo intorno a noi, e altre di quello stampo possiamo crearne, ad altre di quell’ordine – non solo nella scuola – magari già stiamo partecipando, ma non lo sapevamo. Scriveva George Eliot: “Il bene a venire del mondo dipende in parte da azioni di portata non storica; e se le cose, per voi e per me, non vanno così male come sarebbe stato possibile, lo dobbiamo in parte a tutti quelli che vissero con fede una vita nascosta…” (Middlemarch, Epilogo). Il film-documentario l’abbiamo voluto per questo: per dire la grandezza del quotidiano stare vicino all’infanzia, per raccontare di un ordine che esiste nella nostra società, è dentro quelle aule, un ordine delle relazioni, un ordine in cui è possibile che avvengano cambiamenti che hanno del miracoloso, evoluzioni che sono viaggi stellari, per poi tornare giù al centro della terra, nelle viscere delle cose che si imparano all’inizio, qualche volta anche tra fatiche e pianti e tra molti rilanci. Credo che nell’immersione nel quotidiano, nell’affettività, nella relazione a cui i bambini e le bambine ci chiamano, stia una delle caratteristiche dell’esperienza delle maestre, dei maestri, che determina grandi ricchezze dello scambio, attraverso mediazioni umane, che ogni giorno le bambine e i bambini riattualizzano, creano e ricreano, nell’incontro con i saperi e le discipline. Ma credo anche che quell’immersione complichi, da un certo punto di vista, il nostro rapporto con l’esperienza, nel senso che questo sprofondare, sorta di risucchio, di cattura, nell’intensità relazionale con i più piccoli non faccia comprendere prima di tutto a noi cosa c’è in gioco, cosa si guadagna, quali sono i risultati a cui si giunge. Una donna che ha visto il film mi ha detto: ma tu lo sapevi che i tuoi bambini scrivevano così bene. E io le ho risposto di no, ed è vero, io non lo sapevo, perché c’era anche tutto il resto, tutta la mia fatica a correggere le parti dei loro testi non venute così bene, tante altre cose che accadevano simultaneamente, e non c’era lo sguardo amoroso di altre, altri a cogliere.
Luisa Muraro, durante una delle proiezioni del film ha detto che fare civiltà oggi significa anche questo: “Quando troviamo qualcosa di prezioso, salvaguardiamolo. Questa cosa ha a che fare con lo splendore dell’infanzia. Nella scuola i bambini trovano quello che gli neghiamo da altre parti. Teniamo compagnia alle maestre e facciamo che nella società si parli di loro”. E ha invitato tutti a dedicare quel poco di tempo libero che si ha alla scuola: più collaborazione hanno le maestre, più hanno tempo da dedicare ai bambini. La vicinanza dà energia, dà forza.
C’è una parte della società italiana che continua a ben funzionare, a dedicare e a rigiocare amore e vita e a concretizzare un andamento delle cose in cui il presente e la crescita hanno un posto di valore. E c’è bellezza nei nostri occhi. Ne siamo ancora capaci, sì. Quello che le bambine e i bambini danno, moltiplicato e arricchito, fa parte di un agire relazionale che ha profondamente a che vedere con la nostra capacità di azione politica nel mondo, nella direzione della maturità umana. Lasciare essere l’altro, l’altra, fare un passo indietro per far fare un passo in avanti all’infanzia: noi che insegniamo siamo impegnati in questo, corpo e anima. E i bambini e le bambine siete voi, siamo tutti. Vale la pena di non dimenticarsene.