di Sabina Baral
Ho sempre pensato che la politica prima dovesse influenzare positivamente quella seconda, che prima o poi avrei dovuto agire la mia differenza femminile all’interno dei palazzi del potere, aprirmi un varco laddove gli uomini governano con le loro regole e le loro gerarchie. Oltre che una sfida per me stessa mi sembrava una necessità dettata proprio dall’amore che nutro per la politica.
Criticare le logiche perverse del potere – rimanendone fuori – mi pareva troppo semplicistico, un non volersi sporcare le mani per paura della contaminazione. Credevo che l’estraneità, in quanto donna, non potesse essermi concessa, solo quel tanto che basta per un pensiero autonomo.
Tutto questo fintanto che non mi sono sentita sommersa dagli ossessivi ritornelli delle quote, del 50 e 50 o giù di lì. Niente di più di questa litania politica ha scoraggiato il mio desiderio di esserci. Alcune donne hanno tentato di spiegarmi che per cambiare le cose devi essere presente in quei luoghi dove le decisioni si prendono e che quello delle quote era un sistema forse un po’ astratto e meccanicistico ma pur sempre un modo per esserci.
Mi colpisce la smania di questo volerci essere a tutti i costi e mi chiedo quanto non nasconda un bisogno un po’ esasperato di apparire, di essere visibili a tutti gli effetti, il timore di restare nell’ombra. Dovremmo confrontarci su che cosa intendiamo con esso, su quale sia un esserci capace di produrre senso nelle nostre esistenze. Io, per esempio, mi sto convincendo sempre di più che la mia responsabilità nei confronti del mondo la agisco se faccio un passo indietro; il mio esserci, oggi, equivale molto di più a un sottrarmi. Non tanto per una necessità di resistenza, direi piuttosto per un bisogno di infedeltà nei confronti dell’astrattezza di certa politica, per mantenere viva l’inquietudine e coltivare l’interrogazione.
Mai come in questo momento mi sento vicina a quella “società delle estranee” di cui parlava Virginia Woolf. Una volta l’avrei trovata a rischio di implosione, di autoreferenzialità mentre oggi la considero una possibilità concreta di ingerenza, di uno sguardo altro, di qualcosa di composito che non è bieco adeguamento all’esistente né un voltare le spalle a questo. A chi mi accusa di qualunquismo o peggio ancora di “debolismo” di pensiero, spiego che non si tratta di ciò. Oggi osare, essere coraggiosi, equivale, a mio avviso, ad avere la forza dell’essere presenti a se stessi. E per fare questo, per “essere lì con tutta me stessa” – per dirla con le parole di Hannah Arendt – non posso prestare il fianco (nemmeno per il più nobile degli obiettivi) a una politica che si riduce a mero tecnicismo, efficientista, che non riesce a dire alcun vissuto esperienziale. Una politica che arriva addirittura a negare il conflitto, nel caso delle quote il conflitto tra i sessi, per me così fecondo, così pieno di vibrante tensione. O peggio ancora decide di ingabbiare tale conflitto nelle maglie strette ed astratte di una legge che non tiene più conto della vita, delle sue lotte, dei suoi travagli, dei suoi variegati percorsi. Che senso può avere una politica che dimentica questa tensione feconda tra legge e vita? Per me nessuno.
Provo a spingermi un poco oltre e a chiedermi: dov’è finita l’immediatezza, quella spontaneità necessaria, che sa considerare i legami emotivi, quella spontaneità – per dirla ancora con Arendt – che è “capacità dell’essere umano di dare inizio con i propri mezzi a qualcosa di nuovo”, mediazione sempre in atto?
Interrogandomi e lasciandomi guidare da un libero fluire di pensieri mi tornano in mente le discussioni degli ultimi anni con altre donne a proposito della pratica del “partire da sé” e del mio timore, più volte espresso a riguardo, che la differenza sessuale rischiasse di essere confinata in un’identità chiusa. Oggi so che non è così. Ida Dominijanni su Micromega lo dice in maniera esemplare: la pratica del partire da sé mostra che “la differenza è un differire continuo dall’identità: è un differire delle donne dal neutro e dall’identità maschile, è un differire di ogni donna dall’identità di genere femminile, è infine un differire di ciascuna e ciascuno dalla propria stessa identità. Possiamo quindi pensare alla differenza come un’eccedenza, come uno scarto che si produce sempre fra un’identità riconoscibile e l’imprevisto irriducibile a quella identità. L’ordine simbolico tende a chiudere questo scarto, la politica della differenza consiste invece nel tenerlo aperto, nel nominarlo, nel dare parola a ciò che è imprevisto o taciuto”.
È questa continua riscrittura delle regole del pensare e del fare politico, questo guardare (che non viene mai meno) da un altrove uno dei motivi per cui mi sento più debitrice al pensiero della differenza sessuale. Ed è il solo modo, forse, che io conosca per rimanere fedele a una realtà che cambia, per essere e pensare con la mia propria identità dove io non sono accettando il cambiamento di me che ciò potrà comportare. “Si tratta di educare la propria immaginazione a visitare” – diceva ancora Hannah Arendt. Un monito che dovrebbe invitarci a rifiutare le rappresentazioni fasulle e i progetti forzati. Oggi mi sento di scommettere ancora una volta a favore di questa politica, le cui forme non ingabbiano la vita ma di questa sanno stare in ascolto.
(Via Dogana n. 82, settembre 2007)