di Luisa Pogliana
Una notizia si aggira in questi giorni sulla stampa e in rete. Possiamo sintetizzarla come fa, per esempio, uno di questi quotidiani: «Una ricerca Usa su 22 mila imprese dice che nei Cda dove le donne sono almeno tre su dieci la quota di utile aumenta del 6%.» (vedi qui: Così le donne al comando fanno crescere l’utile dell’azienda – Corriere.it).
Quello che stupisce è lo stupore con cui questo risultato viene riferito. In realtà abbiamo una ricerca, per quanto enorme, che dice cose già dette e documentate ampiamente da più di un decennio (ci ricordiamo Womenomics?). È il fondamento su cui si basano molte attività di donne d’azienda per promuovere le carriere femminili.
E sono note anche le supposte ragioni. «Le manager sono consapevoli di essere guardate a vista e quindi danno sempre il massimo. Lavorano di più. Mediamente sono molto preparate perché devono dimostrare di meritare un posto che è stato affidato loro grazie a una legge» dice Daniela del Boca nell’articolo citato. Ma più interessante nel suo commento è l’ultima frase: «Il loro arrivo scardina dinamiche di potere tanto consolidate quanto controproducenti. Penso per esempio alla corruzione». È questo l’elemento essenziale su cui ragionare.
“Potere” è una parola ambivalente, tra dominio e possibilità. Ma poiché nello spazio pubblico il potere è da sempre degli uomini, ha finito per cristallizzarsi in codici maschili: comando, controllo, dominio, arbitrio, autoreferenzialità. Molte donne però hanno cominciato ad assumere i ruoli decisionali alti senza adeguarsi a questa cultura, fondandosi invece sul loro punto di vista diverso.
Il punto di svolta è stata la scelta di guidare l’azienda tenendosi fuori dalle logiche di potere. Logiche che portano a conservare lo status quo, perché finalizzate al proprio potere personale anche a scapito dello sviluppo aziendale. Di conseguenza queste donne guardano criticamente i modelli manageriali che ne derivano.
Mentre negli uomini più forte è la tendenza a riferirsi agli schemi sperimentati e a ragionare per teorie, le donne più spesso maturano le decisioni tarandosi sulla situazione reale che hanno davanti. Non è una riduttiva questione di pragmatismo, è un modo di pensare libero da pregiudizi, che parte dalla propria visione e si misura con la realtà: attento alla specificità, alle circostanze, al contesto umano e affettivo. E accetta il rischio di provare a cambiare.
Così sono state realizzate nuove politiche cambiando alcuni cardini della cultura manageriale, che hanno portato benefici imprevisti all’azienda e a chi vi lavora.
Non possiamo qui darne conto, ma citiamo solo un orientamento che ricorre spesso. Per esempio, si costruisce la crescita professionale e decisionale di tutto il gruppo di lavoro, passando da un’organizzazione fondata sul controllo a una fondata sulla fiducia e l’autonomia di chi lavora. Si esce dallo schema gerarchico capo-collaboratore e si fa leva sulla responsabilizzazione diffusa. Si creano le condizioni perché possano esperimersi le potenzialità di tutti. Lo sviluppo dell’azienda passa anche dallo sviluppo di chi vi lavora.
Quello che comunque possiamo cogliere nelle diverse politiche di queste manager è un concetto di fondo. L’azienda è intesa come un luogo in cui convergono soggetti diversi con interessi diversi, ma di tutti bisogna tenere conto perché tutti contribuiscono a creare il valore dell’azienda. Al management compete trovare un’area di ragionevole equilibrio tra questi diversi interessi.
Possiamo dire che è un diverso modo di governare le aziende, orientato non al comando ma alla guida, e al bene comune. E ci permette di dire che a una cultura di potere si può sostituire una cultura di governo.
Torniamo qui al punto di partenza, il senso della presenza di donne nei consigli di amministrazione. Probabilmente bisogna spostare l’attenzione dai numeri ai valori. È certo necessario, ma non basta, che più donne siano presenti nei Cda per portare uno sviluppo. Occorre che quelle donne in quei luoghi affermino la loro diversa visione. Se no non cambia niente. Come dice Ikujiro Nonaka, «Il management non è una questione di tecniche o metodi, è una questione di valori».