di Sheila Jeffreys, a cura di Mara Accettura
In un recente seminario organizzato da Women’s Declaration International nell’ambito della serie di incontri Radical Feminist Perspectives, Sheila Jeffreys – ex-docente di scienze politiche all’Università di Melbourne e tra le fondatrici della rete globale WDI – ha tenuto una relazione sul tema Rad Fem Economic Theory (l’intero incontro è visibile qui).
Jeffrey è partita da un suo testo del 2010, a ridosso della crisi finanziaria globale. Si intitolava “Chi ha cucinato la cena a Adam Smith”, il cui pensiero ometteva completamente il lavoro non retribuito delle donne. L’homo economicus razionale, al centro del pensiero economico tradizionale, abita un mondo maschile di lavoro retribuito in cui le donne non entrano. Il lavoro delle donne è per la maggior parte non pagato e non riconosciuto, non viene quindi misurato nei sistemi tradizionali di accounting tipo il PIL.
Come si affronta questo tema dal punto di vista del femminismo radicale e di quello marxista?
L’analisi di Jeffreys si è incentrata sul diagramma dell’“iceberg” di Maria Mies, femminista marxista ed ecofemminista: l’economia tradizionale non tiene conto di ciò che sta sotto la linea, che è la stragrande maggioranza di ciò che crea l’economia globale: lavoratori a domicilio, settore informale, lavoro non retribuito delle donne, lavoro minorile, lavoro domestici in generale e colonie interne (all’interno della famiglia) ed esterne (create dalla globalizzazione). «La stragrande maggioranza del lavoro delle donne non rientra nell’economia visibile. Sotto la linea c’è anche la natura, bene libero. Il costo della pesca che distrugge l’oceano e gli ecosistemi non si vede, ed è un esempio della distruzione nella creazione dell’economia capitalista. Quello che si vede è sopra la linea, la vendita del pesce».
Negli anni ’80 è diventato chiaro che il lavoro di cura delle donne sovvenzionava non solo lo stipendio dell’uomo ma anche l’accumulazione del capitale. Il lavoro delle donne era oscurato con la costruzione della donna come madre, moglie, casalinga.
Le femministe marxiste e quelle radicali o materialiste affrontano la questione del lavoro non retribuito delle donne in modi molto diversi. Christine Delphy e Diana Leonard, entrambe materialiste, spiegano che le teoriche femministe socialiste o marxiste vedono il lavoro svolto dalle donne per il capitalismo e non per gli uomini. Fra le due cose c’è una differenza sostanziale. Per il femminismo radicale invece il lavoro non retribuito è al servizio diretto degli uomini. Secondo loro sono i capifamiglia maschi a possedere il lavoro delle donne. Non è necessario avere mezzi di produzione. A parte il lavoro domestico ci sono moltissimi altri tipi di funzioni non retribuite che ruotano attorno alle occupazioni dei mariti – fino al lavoro necessario per garantire il loro benessere emotivo, psicofisico e sessuale – che vanno perdute nelle analisi perché varie e intime. Dai compiti di segretariato, di hostess, di fundraising, fino all’organizzazione di occasioni sociali e al fornire sostegno morale come psicoterapeute informali. Per arrivare fino al sesso che le donne non vogliono fare, e che forse dovrebbe essere inteso come forma di lavoro non retribuito, dato che queste attività fuori casa hanno valore monetario.
Diana Russell scrisse: «Perché le donne vanno dagli psicoterapeuti e gli uomini dalle prostitute?» Le donne fanno della casa una casa, sorridono, scusano, incoraggiano, simpatizzano, prestano attenzione, il che dà agli uomini un senso di appartenenza.
L’economia tradizionale quindi ha un problema. «Non dice la verità perché l’uomo economico razionale, alla base del pensiero economico tradizionale maschile, non è alla base di ciò che sta accadendo. Il lavoro non retribuito delle donne non è razionale. Adam Smith disse: “Non è dalla benevolenza del macellaio o del fornaio che ci aspettiamo la cena ma dal loro interesse”. Certo non è nell’interesse delle donne fare tutto questo lavoro retribuito, dice Marilyn Waring. “Se Adam Smith è stato nutrito quotidianamente dalla signora Smith certo lui non l’ha menzionato. Certamente non fu ripagata dall’interesse che aveva nel nutrirlo».
Maria Mies ha parlato del concetto di casalinghizzazione (housewifeization). Con la globalizzazione neoliberista degli ultimi anni del ’900 molti lavori sono stati casalinghizzati. Uomini e donne hanno dovuto fare più di un lavoro, lavori part time, pagati male, senza protezione, camuffati da imprenditoria e self-employment. Che cosa sta succedendo con l’homeworking creato dalla pandemia che ha fatto in modo che molte donne oggi lavorino a casa? Ha questo lavoro uno status superiore?
Jeffreys ha poi parlato del gendering della crisi globale finanziaria, che dimostra che l’homo oeconomicus non è per nulla razionale. Non viene mai detto che il capitalismo finanziario è specificamente maschile. Non ci sono molte donne ai posti top della finanza anche se progressi sono stati fatti, l’FMI ha una donna executive. «Il punto è che gli uomini sono ritenuti responsabili della crisi globale finanziaria e credo che rappresentino non tanto la mascolinità quotidiana ma un’ipermascolinità resa potente dal sessismo aggressivo». Non c’è molta analisi su questo, anche se Linda McDowell ha scritto sulla cultura che impregna il linguaggio della borsa valori: “Alzarsi la gonna” per rivelare la propria posizione. “Averlo duro” per mercato in rialzo. “Palle fuori” per transazione di successo. “Stuprare le carte” per gonfiare le spese. Come possono le donne lavorare in un ambiente del genere? Secondo lei quella cultura in parte può spiegare la crisi. Le donne non possono essere pari nella sfera della finanza perché gli scambi avvengono in arene mascolinizzate tipo golf club, lapdancing club, football club. Gli executives frequentano gli strip club e secondo Jeffreys quando ci sono donne con loro non sanno dove guardare mentre le ragazze mostrano vagina e ano agli uomini. Eppure non rifiutano di andarci perché fa parte del networking, quindi della loro chance di eguaglianza.
Quindi strip club e prostituzione sono una grossa parte di questa cultura della finanza e del business. Ma la finanza non usa solo la prostituzione per affermare l’ipermascolinità. C’è anche l’aspetto del rischio, che è critico per il modo in cui la mascolinità costruisce l’ideologia e le pratiche delle corporation, delle banche, dell’industria della finanza. È un aspetto poco discusso dalla teoria femminista. Il modo in cui il capitalismo è fondamentalmente costruito attraverso la mascolinità nel suo funzionamento è raramente menzionato. Le tre componenti dell’aggressività, della competizione e del risk-taking sono sottolineate in studi maschili come elementi chiave nella costruzione del capitalismo in relazione alla crisi finanziaria globale e l’assunzione di rischio è la componente più implicata. Ci sono studi che spiegano come nasce l’attitudine al rischio nei ragazzi e valutano risultati dannosi come assunzione di droghe, incidenti, pratiche sessuali pericolose. Questi studi analizzano anche il ruolo dello sport agonistico e di avventura tipo bungee jumping e rafting. Molte aziende stimolano il personale a fare networking attraverso questi sport. La mentalità che creano è fondamentale per l’assunzione dei rischi e il modo in cui il capitalismo è stato impostato. Altre ricerche attribuiscono al testosterone la propensione al rischio. Ma una ricerca ha dimostrato che il testosterone non si alza prima di concludere un affare bensì dopo.
Il roid rage (rabbia da steroidi) suggerisce che l’uomo economico razionale non è al comando dell’economia politica internazionale. Ma è anche un tentativo di descrivere in termini di biologia qualcosa che può essere spiegata politicamente e socialmente. Si dice per esempio che le donne non sono molto brave in finanza perché hanno avversione per il rischio a causa della mancanza di testosterone. Ma donne e ragazze non sono addestrate all’assunzione dei rischi e non vengono elogiate per questo. Mascolinità e femminilità sono costruite socialmente e politicamente per adattarsi a posizioni diverse nella gerarchia del dominio maschile. «L’avversione al rischio è molto positiva. All’epoca della crisi finanziaria le donne sono state chiamate a risolvere i problemi perché la loro avversione al rischio è utile all’interno di una economia basata sul correre grandi rischi che possono persino causare la morte».
Anche l’industria del sesso contribuisce all’ipermascolinità dell’industria finanziaria. Negli Usa gli uomini che dovrebbero regolare l’industria finanziaria utilizzano molto questa industria. Esistono dati che riguardano l’uso di pornografia da parte di dirigenti della SEC. Jeffreys ne ha scritto anche in “La vagina industriale” e “L’imperialismo del pene”, anche se all’epoca le sue osservazioni non vennero prese in considerazione. A lei interessava il modo in cui il rischio degli uomini si trasformava in onere per le donne. Le donne non erano responsabili del rischio finanziario eppure dovevano subirlo, vedi nell’economia della cura e dell’assistenza. I tagli ai servizi pubblici sono stati compensati dal lavoro delle donne.
Le donne sono un esercito di riserva di manodopera e possono essere messe alla porta quando i governi falliscono. Gli uomini hanno anche sfogato lo stress della perdita del posto di lavoro e mancanza di soldi sulle donne sotto forma di violenza. Nel 2009 diverse ricerche sottolineavano aumento di violenza domestica. Maria Mies dice che «è necessario un cambiamento radicale dell’economia politica internazionale, mentre i liberal dicono che dobbiamo solo farci entrare più donne: se ci fossero più donne, allora gli uomini si comporterebbero meglio, sarebbe meno rischioso e così via. Ma ovviamente i problemi rimangono». Mies dice che il lavoro non retribuito deve essere rispettato e si chiede come sarebbe un’economia in cui la natura sia importante, in cui le donne, i bambini, le persone siano importanti. Un’economia che non si basi sulla colonizzazione e sullo sfruttamento degli altri.
Ciò richiederebbe, ovviamente, la rivalutazione del lavoro non retribuito delle donne, in modo che, in un paradigma alternativo, le attività e i valori degli attori attualmente colonizzati ed emarginati vengano messi al centro perché sono fondamentali per garantire che la vita possa continuare nella sua rigenerazione e pienezza. Finché il lavoro non retribuito, dice l’autrice, non sarà riconosciuto, le politiche economiche nazionali e internazionali potranno continuare a adattarsi strutturalmente e a reagire alle crisi con l’aspettativa che i comportamenti antisociali degli uomini debbano essere rispettati e che le donne siano gli ammortizzatori del sistema.
(FeministPost, 30 maggio 2023)