di Elsa Fornero
«Siamo libere, e nessuno può toglierci questa libertà, nessuno può pensare che siamo nel loro possesso», ha postato Giorgia Meloni a proposito della tragica morte di Giulia per mano del giovane che pretendeva di amarla. Più poeticamente, Charlotte Brontë, nata nella brughiera dello Yorkshire da un severo pastore protestante e da una mamma morta al sesto parto, fa dire a Jane Eyre: «Non sono caduta in nessuna rete; sono un essere libero, con una volontà indipendente». Giorgia ha acquisito la sua libertà non soltanto con la forza della volontà ma anche impegnandosi in politica, e ricevendone un reddito. Charlotte l’ha conquistata scrivendo libri e racconti, anch’essa ricavandone introiti. Giulia, decisa e consapevole, aveva intrapreso un duro percorso di studio per ottenerla. Ha pagato il prezzo più alto.
Gli esempi sono moltissimi, la conclusione è una sola: la libertà non si conquista senza l’indipendenza economica e questa a sua volta si ottiene con il lavoro. Senza l’indipendenza economica femminile, gli uomini mantengono potere sulle donne, limitandone – poco o tanto, secondo la loro educazione e la loro indole – i gradi di libertà. Che si tratti di padre, marito, compagno, fratello, è ancora troppo spesso un uomo a decidere – o a pretendere di decidere – per una donna, relitto di un passato in cui la forza fisica faceva premio sulle capacità intellettuali e dove il dominio maschile era accettato (o subito) in cambio di protezione, arrivando a giustificare la violenza in caso di “rottura” del “contratto implicito” da parte della donna e perciò di offesa all’onore maschile. Una maschera, in realtà, della paura maschile di essere inadeguati, di non saper gestire una relazione paritaria. Spesso dimentichiamo le battaglie del passato troppo presi dai rigurgiti violenti dell’incultura della superiorità maschile, della (presunta) “inadeguatezza” delle donne a decidere in libertà della loro vita. E ricordiamo allora Angela Bottari, prima firmataria nel 1981 della legge che abrogò il “delitto d’onore” e il “matrimonio riparatore”, da poco scomparsa.
Oggi le donne reclamano il principio costituzionale di uguaglianza, nei rapporti affettivi nella famiglia, nelle istituzioni, nella società. Ma quante donne possono oggi dire di avere quell’indipendenza economica che è il presupposto della loro libertà? Certo, nell’istruzione – che è la premessa per l’occupazione – le donne hanno, pian piano, conquistato il primato (ci sono più laureate che laureati e con voti mediamente più elevati); la parità, però, non è ancora raggiunta nelle discipline più scientifiche, non per inadeguatezza ma per sottili “consigli” a seguire percorsi di studi più “adatti alle donne”, secondo pregiudizi diffusi. Questi percorsi formativi, però, sono più avari di posti di lavoro, soprattutto di quelli ben remunerati. L’occupazione femminile in Italia è in drammatico ritardo rispetto ad altri paesi europei e con forti divisioni interne e, nonostante le norme a presidio della parità salariale, i dati confermano la persistenza del divario salariale di genere, a dimostrare che le norme non bastano se poi non seguono i comportamenti.
Il mondo del lavoro è stracolmo di sottili discriminazioni nei confronti delle donne, magari esercitati dietro una patina di gentilezza come quando, in occasione di una competizione per un incarico lavorativo o una promozione, dopo che la scelta è caduta su un uomo, alla donna sconfitta viene detta la frase “in fondo, tu sei moglie e madre”. Come se l’ambito familiare debba essere il luogo di massima aspirazione femminile, per il quale vale la pena sacrificare l’autonomia di una carriera di lavoro. In moltissime occupazioni, la gestione delle risorse umane o anche semplicemente la stratificazione gerarchica si traducono in differenziazione delle opportunità ed è quasi “normale” che una donna, pur svolgendo sostanzialmente gli stessi compiti di un uomo, magari sotto l’etichetta solo formalmente diversa, sia meno retribuita del collega.
Un’opinione deleteria ancora molto diffusa è che l’occupazione delle donne vada a scapito di quella maschile. Vi sono due obiezioni a questa tesi. La prima è di logica economica: non vi è alcuna ragione per la quale il mondo del lavoro debba funzionare a numero fisso di posti. Piuttosto ci si deve chiedere quale configurazione del mercato del lavoro e dei suoi rapporti con il mondo dell’istruzione e della formazione professionale e quali norme, quali servizi pubblici possano favorire, anziché ostacolare, l’obiettivo della piena occupazione. Non è possibile continuare a considerare le donne in generale (e i giovani) segmenti deboli del nostro mercato del lavoro. La debolezza non è loro, ma della società che nutre tali concezioni e che, paternalisticamente, offre spesso compensazioni a posteriori (vedasi pensione di reversibilità un tempo assai generose) per discriminazioni a priori.
La seconda ragione è empirica: là dove il tasso di occupazione femminile è più alto, è più elevato anche quello degli uomini. Lo dimostrano i dati dei paesi del Nord Europa, caratterizzati da una visione inclusiva e non sostitutiva del lavoro femminile; da noi, la stessa correlazione positiva si ritrova nelle regioni/province (tipicamente nel Nord-Est del paese) nelle quali le politiche attive funzionano meglio.
È possibile, infatti, una visione del mondo del lavoro diversa, dove i giovani, le donne e, anche le persone meno giovani, alle quali pensiamo spesso soltanto in termini di pensionamento anticipato, possano trovare occasioni di lavoro dignitoso, adeguatamente retribuito. Si tratta di cambiare paradigma, di cambiare la nostra visione del mondo del lavoro; di affermare concretamente il principio costituzionale del diritto al lavoro e, attraverso di esso, il valore sociale, oltre che individuale, dell’indipendenza economica delle donne, come base di un’eguaglianza più grande. Non è facile, ma ci si deve provare. L’occasione offerta dal Pnrr, sotto questo profilo, non va mancata, Giorgia.
(La Stampa, 27 novembre 2023)