di Barbara De Micheli
Progettare il lavoro del futuro significherà anche e soprattutto ragionare sui luoghi possibili per il suo svolgimento, e farlo in modo non tanto individuale ma collettivo
Il 10 marzo 2020, con una videoconferenza dalla sede del mio ufficio, a debita distanza dai colleghi che come me erano al loro ultimo giorno “in presenza”, ho discusso la mia tesi di dottorato su un argomento che, in quel momento, sembrava interessante ma molto accademico: i luoghi dell’organizzazione al di là dello spazio organizzativo. La scelta del tema di ricerca, tre anni prima, era partita dalla constatazione di come si assista contemporaneamente alla contrazione e all’espansione dello spazio (organizzativo) a causa delle nuove tecnologie: i lavoratori e le lavoratrici, soprattutto nell’ambito dei servizi avanzati, sempre più spesso perdono un “ufficio fisico” mentre interagiscono con tecnologie che espandono i “luoghi di lavoro” a loro disposizione.
Se per lungo tempo le teorie dell’organizzazione avevano riservato scarsa attenzione alla definizione teorica dei luoghi di lavoro (forse perché risultava abbastanza ovvio definire cosa fossero) sembrava essere arrivato il momento per cercare di capire se questa confusione tra “contrazione” ed “espansione” dello spazio organizzativo potesse essere la spia di una difficoltà di comprensione: si poteva parlare di nuovi spazi “virtuali” di lavoro oppure si trattava soltanto di nuove tecnologie? Era necessario concentrarsi sulle caratteristiche di questi spazi emergenti oppure era più importante capire quali caratteristiche avesse questo modo più complesso di rapportarsi ai processi di lavoro?
Qualche giorno dopo la discussione – ma già nei giorni frenetici in cui all’Università si cercava di capire come e dove consentirci di difendere la tesi e se una chat-room con professori collegati da varie città in Europa fosse un luogo (organizzativo) consono a un atto ufficiale – appariva evidente che il susseguirsi degli eventi aveva fatto uscire dalle biblioteche la discussione e che interrogarsi sulla definizione concettuale dei luoghi del lavoro diventava un’urgenza che non si poteva più rimandare.
Dove avviene, dunque, il nostro lavoro retribuito?
Oggi, per chi di noi lavora (ancora) nei servizi e non è costretto a recarsi in un luogo le cui caratteristiche specifiche sono necessarie “alla produzione”, la risposta sembra semplice: il lavoro fisicamente viene svolto da casa ma in luoghi di aggregazione tecnologici e occasionali (da Skype a Zoom passando per Webex e Googledrive), la cui generazione più o meno spontanea e continua ha preso il posto del luogo di lavoro (l’ufficio, il co-working, il parco, il treno) per come lo conoscevamo. Luoghi che hanno codici e regole che faticosamente impariamo e a cui progressivamente ci adattiamo.
Nel giro di una notte siamo state/i catapultate/i in quello che Susan Halford ha definito “uno spazio di lavoro ibrido” in cui ciascuno deve costantemente gestire e negoziare un equilibrio tra spazio domestico (la casa che ci circonda), spazio organizzativo (il lavoro che invade lo spazio domestico anche perché non ha, al momento, altro luogo in cui manifestarsi) e quello che si può chiamare “cyberspazio” (tutto quel mondo di dati, accesso alle informazioni e socialità residua che oggi si svolge quasi esclusivamente in ambienti digitali). Presto – speriamo – un quarto spazio rientrerà nell’equilibrio: quello dei luoghi fisici di lavoro, che dovranno essere ripensati per essere sicuri per la nostra salute.
Oggi, quindi, siamo fisicamente confinati/e nelle mura della nostra casa, con tutte le disuguaglianze che questa condizione può comportare in termini di dimensioni e caratteristiche degli spazi fisicamente accessibili, ma i nostri movimenti online sono evidenti e tracciabili.
Impossibile muoversi ma anche impossibile nascondersi. Difficilissimo trovare un equilibrio.
Lo spazio domestico richiede attenzioni crescenti (fosse solo perché qualsiasi luogo fisico vissuto intensamente richiede maggiori cure, anche per chi non abbia altri carichi di cura) e fa fatica a integrarsi con un luogo e un tempo del lavoro che si espande anche virtualmente e assorbe sempre più energie. Diventa evidente la necessità di comprendere, progettare, regolamentare, in qualche modo, questo spazio ibrido, senza lasciare l’onere della ricerca dell’equilibrio alla sola capacità individuale di negoziazione.
Come primo passaggio occorre avviare una riflessione su quali siano gli elementi da cui partire in questa progettazione dei luoghi del lavoro del futuro, partendo dal presupposto che la nostra relazione con lo spazio – sia fisico che virtuale – è cambiata e che le modalità di svolgimento delle nostre vite nello spazio stanno assumendo un’importanza cruciale.
Tra gli elementi prioritari da cui far partire la riflessione vanno inclusi: la riprogettazione dei luoghi fisici del lavoro, per riorganizzarli non soltanto in nome di produttività ed efficienza (come è stato fino ad ora) ma anche in virtù delle nuove esigenze di distanziamento e di sicurezza; la definizione di nuovi diritti quali il diritto universale di accesso alla rete internet, ma anche il rafforzamento della tutela dei dati personali e il diritto alla disconnessione [5]; la previsione di investimenti in infrastrutture per rendere effettiva e universale la possibilità di accedere a spazi virtuali organizzati e a mezzi tecnologici adeguati per lavorare in modo efficiente e per fruire di formazione e istruzione; il diritto di accesso per tutti/e a una casa sicura in cui poter vivere e lavorare; la definizione di nuove modalità per sostenere la ripresa delle relazioni sociali negli spazi fisici che ci circondano; la previsione di misure che difendano il diritto a uno spazio per sé, anche nei limiti di una reclusione casalinga forzata.
È evidente che si tratta di elementi molto diversi, che tuttavia non possono essere considerati come se assumessero la stessa declinazione per uomini e donne, perché uomini e donne tradizionalmente hanno una relazione diversa con lo spazio e una diversa libertà di movimento, sia nello spazio fisico che in quello virtuale.
La libertà di movimento nello spazio fisico è da sempre collegata a dinamiche di potere. Lo spazio pubblico del mondo per come lo conoscevamo era un susseguirsi di spazi (sempre meno) aperti e spazi chiusi, di confini, muri, recinti strade e quartieri spesso accessibili o meno a seconda del nostro status e del nostro genere, del nostro ruolo, del possesso di alcune “chiavi”. Anche l’emergenza Covid ce lo sta confermando: chiudere gli spazi pubblici, regolamentarne (o impedirne) l’accesso, è ritenuto lecito e ci sembra inevitabile e corretto che il principio della salute pubblica prevalga sul diritto individuale al movimento.
Lo spazio privato casalingo, invece, è sempre stato lo spazio delle donne, quello in cui le donne potevano muoversi liberamente, perché non era considerato uno spazio di potere, era un dentro di ripiego mentre le attività interessanti si svolgevano fuori. Tuttavia, anche nelle case, gli spazi nobili – il salotto, lo studio – erano spazi degli uomini mentre le donne rimanevano in cucina. Abbattere il muro tra la cucina e il salotto, creare un ambiente unico di condivisione è stato un passo significativo verso una gestione più egualitaria degli oneri di cura.
Tuttavia, ora che scopriamo che anche i luoghi di lavoro digitale hanno bisogno di uno spazio fisico seppur minimo per attivarsi, si pone il problema di come si negozia l’accesso al luogo più quieto e tranquillo della casa, per esempio in una casa piccola, con poche porte, come spesso sono le nostre case open space. Se l’accesso allo spazio è una questione di potere e il potere si parametra anche sulla capacità di produrre reddito, sappiamo che le donne partono da una posizione di svantaggio nella maggior parte dei casi, sia perché quando lavorano spesso guadagnano meno dei loro compagni, sia perché a loro è più spesso delegata la cura delle persone dipendenti, soprattutto quando si parla di persone dipendenti recluse in casa a tempo pieno.
Così, negoziare uno spazio per sé, anche quando si parla di poter accedere in solitudine alla propria cucina per poter lavorare, può diventare complicato. E allora, come, su quali basi si costruisce un limite anche fisico, tra il luogo di lavoro, il luogo della cura e lo spazio per sé? Si tratta di una negoziazione individuale o possiamo pensare a pratiche collettive per rivendicare un uso equilibrato degli spazi, anche domestici, soprattutto se questi sono il ponte per l’accesso a un lavoro che, per un tempo lungo, dovrà essere svolto anche da casa?
Prima di iniziare a farmi domande sullo spazio organizzativo e i luoghi di lavoro sono stata una fan accanita del lavoro fuori dall’ufficio, quello che a un certo punto abbiamo iniziato a chiamare smart ma che un tempo consisteva più semplicemente nel negoziare, laddove possibile, una modalità di lavoro che permettesse una presenza flessibile nei luoghi fisici dell’organizzazione e una gestione autonoma del lavoro, sulla base di obiettivi e scadenze concordate.
Questo movimento continuo – tra luoghi di lavoro fisici e virtuali e spazi di non lavoro – è stata la costante dei miei ultimi vent’anni. Ora che li guardo a ritroso noto però tre elementi costantemente presenti: comunque, anche se impercettibilmente, il luogo di lavoro era chiaramente separato nello spazio e nel tempo dal luogo di non lavoro, con una dotazione adeguata degli strumenti necessari; comunque avevo un discreto margine di scelta dello spazio e del tempo di lavoro (era questa la parte smart); comunque questa modalità smart, questo movimento mi permetteva di inserire spazi per la cura, spazi per me, interstizi di spazio non occupato da altro in cui inserire forme varie di socialità.
Oggi, la sensazione è che anche questi equilibri basati sulla libertà di scelta rischino di saltare non soltanto per il presente – in cui ovviamente è venuta meno sia la libertà di movimento che quella di scelta dei luoghi di lavoro – ma anche per il futuro. Un futuro incerto, a cui abbiamo paura di pensare e per il quale non troviamo le parole, ma nel quale sappiamo che per lungo tempo dovremmo gestire in modo condizionato il nostro movimento negli spazi. Per questo futuro sarà necessario (anche) reinventarsi una modalità collettiva, e non soltanto individuale, di lavorare in luoghi di lavoro sempre più ibridi, ragionando su come creare luoghi di lavoro negli spazi domestici e come garantire una separazione tra spazio di lavoro, spazio della cura, spazio per sé.
Sia per quelle/i di noi che stanno continuando a lavorare – e anzi lavorano di più, nell’ansia di non lasciar morire un progetto, perdere una call, mancare un webinar – che per quelle/i di noi che sono in sospensione spazio-temporale, ritornare al lavoro significherà comunque ripensare la propria relazione con i luoghi di lavoro, mantenere, o avviare, una modalità di lavoro anche a distanza ma anche ridefinire la propria relazione con lo spazio domestico e riappropriarsi di uno spazio sociale dal quale abbiamo dovuto mantenere forzatamente le distanze.
Saremo chiamati tutti e tutte a riflettere su cosa sia lo spazio di lavoro e su quali siano i luoghi del nostro lavoro, provando a negoziare un’autonomia di movimento e di scelta dei luoghi di svolgimento del nostro lavoro, un’assunzione di responsabilità individuale e collettiva rispetto alla definizione di obiettivi e al loro raggiungimento, e il tentativo di nuovi equilibri tra lavoro produttivo, lavoro di cura e spazio per sé. E sarà necessario che questa riflessione avvenga non a livello individuale ma in forma collettiva, con misure specifiche, che tengano in considerazione il fatto che progettare il lavoro del futuro significa anche e soprattutto ragionare sui luoghi possibili per il suo svolgimento.
(ingenere.it, 22 aprile 2020)
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[1] http://www.ingenere.it/persone/de-micheli
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[4] http://www.ingenere.it/tags/pandemia
[5] http://www.ingenere.it/articoli/diritto-disconnettersi-serve-cambio-mentalita
[6] https://doi.org/10.1111/j.1468-005X.2005.00141.x
[7] http://www.ingenere.it/articoli/lavorare-casa-non-e-smart
[8] http://www.ingenere.it/articoli/svantaggio-genere-mercato-digitale