3 Agosto 2022
Persone e Conoscenze

La ricerca della felicità (al lavoro)

Relazioni ed emozioni oltre la performance

di Giordana Masotto


Decalogo

Dai fiducia alla prima impressione ma concediti un poco di tempo e di attenzione
per starci dentro e attraversare come vero flaneur/flaneuse ciò che stai incontrando.

Ci vuoi provare? Bene, vuol dire che hai trovato buoni motivi: goditela.
È l’inizio di un viaggio.

Mettiti in gioco, ma cerca di evitare i deliri di onnipotenza.

Impara a capire se chi hai di fronte/accanto si mette in gioco
e se cerca di evitare i deliri di onnipotenza.

Guarda e pretendi di essere vista/o.

Parla e ascolta. Ascolta e parla.

Fatti spazio per contrattare, dentro e fuori di te.

Quello che stai vivendo sarà anche intensissimo, ma non è tutta la tua vita.

Va tutto bene? È il momento di metterci qualcosa di nuovo.

 Se decidi di chiudere, non cancellare l’esperienza.


Se vi state chiedendo di che cosa sto parlando, se di un amore o di un lavoro, ebbene, la buona notizia è che il gioco del decalogo vale per entrambe le situazioni. È il segnale di un cambiamento profondo che sta avvenendo sia nelle relazioni sia nel lavoro e che trasforma il rapporto tra i due mondi. Incomincia finalmente a incrinarsi l’avvilente dicotomia: o tutti schiavi e sussunti dal capitalismo cognitivo che invade e colonizza la vita intera (tempo+skills sia hard che soft) o tutti liberati e creativi.

E si vedono sempre più segnali del fatto che oggi le donne sono dappertutto e incominciano a inverare una pratica di libertà che rompe schemi secolari, nel lavoro, nelle relazioni e nei nessi tra i due mondi. Cominciano a essere visibili, per chi è disposto/a a leggerli, segnali che finalmente dicono: è la vita che deve invadere il lavoro, tanto da poter cambiare la definizione stessa di cosa è lavoro. Perché il senso ci viene dalla vita intera che è fatta di un intreccio di relazioni e di lavoro in senso ampio: lavoro come fonte di autonomia economica per garantirci le condizioni materiali di esistenza, lavoro familiare e di cura, lavoro come espressione creativa di sé. È questa complessità la vera sfida dell’oggi per essere al passo del futuro.

Come cambiano i soggetti

Il primo segnale da osservare con attenzione e mente aperta è che stanno cambiando i soggetti.

Negli ultimi mesi si è fatto un gran parlare di un fenomeno inedito: l’hanno chiamata Great Resignation, la grande dimissione. Lasciare volontariamente il lavoro perché si vuole con forza, con urgenza, un lavoro governato da regole che facciano vivere meglio, conciliando con più soddisfazione tutti i pezzi del proprio tempo. Certamente la pandemia, in questo senso, è stata anche un laboratorio di priorità: isolamenti forzati e inedite mescolanze hanno fatto dire basta al basso stipendio, agli straordinari infiniti, alla reperibilità illimitata, a un troppo pieno che si comincia a percepire come insensato, privato di senso. Ci si ribella a quella che Judy Wajcman ha chiamato “la tirannia del tempo” per radicarsi in tutto il proprio tempo. È la Yolo Economy:you live only once, si vive una volta sola. O, per dirla con un altro slogan diventato virale, Slow down and glow up, rallenta e brilla. E allora, dimissioni di massa in tanti settori, dalle banche d’affari alle grandi catene della ristorazione, ai retailer, ai servizi, tanto che negli Usa la mancanza di lavoratori si fa sentire, con conseguenze interessanti, come capita quando le persone prendono consapevolezza dei propri desideri e su questi calibrano la propria forza contrattuale. In Italia, a differenza della Germania e del Regno Unito, non ci sono (ancora) dati chiari ed evidenti in questo senso ma il fenomeno è certamente utile da studiare anche da queste parti: ci sono segnali che suggeriscono di non escludere una tendenza a un cambio di visione, soprattutto tra i più giovani (tra i quali sono già evidenti segnali di burnout più frequente).

Osserva con lungimiranza Anna Deambrosis, Head of Change Management in un gruppo assicurativo: “Ormai è da un anno e mezzo che tutti quelli che arrivano in selezione, i ragazzi giovani, la prima cosa che ti chiedono è quanti giorni di lavoro a distanza. Quindi tu i tuoi talenti non li attiri se non gli dai sufficiente flessibilità. Le barriere logistiche, che ci hanno sempre protetto dal turn over, crolleranno di colpo, e quindi anche i nostri talenti saranno attirati da offerte di lavoro per andare altrove. È una strada obbligata: i talenti giovani ormai questo lo chiedono e non se ne può assolutamente fare a meno. E apre anche tantissime prospettive molto positive”.

Ma ci sono altri cambiamenti molto interessanti (la pubblicità, come al solito, lo registra già con chiarezza): sono quelli che stanno intervenendo nei ruoli paterni e materni. Si affacciano sulla scena giovani uomini che vogliono scoprire/inventare una nuova paternità all’altezza di tempi postpatriarcali. Affiorano nuove competenze di care di donne e uomini che è saggio non pensare che riguardino solo l’ambito domestico. Il punto è di grande importanza e bisogna avere ben chiaro che non stiamo parlando di un aspetto marginale. Si tratta niente di meno che di riconcettualizzare il lavoro, un cambio di civiltà che renda possibile pensare contemporaneamente, per gli uomini e per le donne, tutto il lavoro necessario per vivere, la sfera produttiva e quella riproduttiva, tenendo presente che quest’ultima riguarda in generale tutto il lavoro del care, che si amplia in una popolazione che invecchia. Se il secolo scorso è stato il secolo della fabbrica, questo sarà il secolo dell’automazione e dell’intelligenza artificiale da una parte e della manutenzione delle vite umane dall’altra. Vite che si prolungano, sempre più esposte nello spazio sociale (a parte l’abbassamento dell’aspettativa di vita che si è registrato a causa del Covid-19).

Anche su questo fronte la pandemia, l’esperienza del lockdown, il lavoro a distanza, anche nella sua versione “costretta”, hanno rimescolato le carte, creando nuove difficoltà e discriminazioni, certo, ma anche dando forza a desideri e bisogni emergenti. Leggiamo spesso che le donne sono state le più penalizzate al lavoro in questi tempi pandemici. Ed è certamente vero. Eppure, se guardiamo meglio, possiamo vedere che i cambiamenti nell’organizzazione del lavoro e nel rapporto vita/lavoro sono proprio quelli che le donne hanno innescato da tempo, con il loro voler stare intere al lavoro, immaginando e pretendendo che cambino tempi, modi, senso. Certo, questi nuovi soggetti che sono le donne libere e intere, spesso sono percepite come un inciampo dalle organizzazioni più rigide e… polverose. Come dice una romanziera: “Il problema è che noi donne di oggi siamo come un software rivoluzionario che è stato installato su un computer obsoleto, e per questo non fa altro che bloccarsi, bloccarsi e impallarsi” (Vanessa Montfort, Donne che comprano fiori). O, come ho sentito dire dal direttore del carcere milanese di San Vittore alla presentazione di un’attività di fotografia e teatro dentro al carcere femminile: “Fai fatica a tenere una persona in gabbia, ma una donna molto di più!”

Sempre più spesso questa visione più ampia, complessa e inedita affiora nelle giovani generazioni, sia di uomini sia di donne. Sono segnali di trasformazione che si collocano in un contesto che va tenuto presente. La pandemia, mettendo dolorosamente e violentemente in discussione l’approccio onnipotente alla natura e alle relazioni, ha contribuito a mettere in discussione il modello che sembrava dominante: individualista e competitivo in permanenza, calibrato sui consumi e sulla performatività, con i suoi dolorosi strascichi di perfezionismo e autocontrollo (ah, ma sarò all’altezza delle aspettative? Aspettative che naturalmente non distinguo, non so più distinguere se sono mie o degli altri). Il contrario dello “star bene”.

Spingendoci oltre, possiamo dire che sempre di più chi lavora cerca/vuole esprimersi. Vuole coltivare integrità, in sé e intorno a sé. Cercare insieme impegno e piacere. Competenza e passione. Espressione e riconoscimento. Potremmo dire che c’è un desiderio di “mettersi in opera”, non diversamente dal lavoro dell’artista, che vuole vivere ed esporsi nel proprio lavoro.

Pina Grimaldi, Direttrice Amministrativa di un ospedale, lo dice così: “È necessario essere consapevoli che le nostre emozioni, la passione e soprattutto l’amore sono ingredienti indispensabili per condurre un’azienda. Si innova portandoci dentro il sentimento, non si può separare quello che si fa dai valori, al contrario senza i valori e le passioni non si crea. Le donne nella conduzione delle aziende hanno un vantaggio: non separano la loro visione del mondo dalle loro azioni, sono presenti a se stesse con tutto il loro carico. Le donne stanno dentro il flusso della vita”.

Un’ultima osservazione su questo punto: non si tratta di pensare nuovi modelli e di aggrapparsi ai protocolli (le analisi, anche molto innovative, abbondano) ma di chiedersi come fare spazio ai nuovi soggetti. Le persone vogliono esprimersi senza mediazioni, si è consumata la forza identitaria della collettività e spesso si lamenta la crisi di valori. Bisogna dunque creare le condizioni perché si esprimano le nuove soggettività, farle crescere. Valorizzare autorevolezza e immaginazione di chi, nei vari contesti, più prende forza più va alla ricerca di modi per tenere unite le diverse parti di sé. La nuova etica è mettere al centro i soggetti in relazione. Solo così si contrasta la privatizzazione dei valori. È a partire da qui che si possono ripensare le convivenze nelle case e in tutti gli spazi sociali, di lavoro e di vita.

La dimensione negoziale dei nuovi soggetti

Torniamo al gioco del decalogo dell’amore e del lavoro. Quelle affermazioni ci dicono che l’amore, come il lavoro, non è un gioco solitario, non è più (non dovrebbe essere) controllo e possesso, ma è l’avventura di entrare in una relazione con altro da sé, valutando la forza del proprio desiderio/bisogno e consapevoli di attraversare un territorio sconosciuto di cui non ti puoi appropriare. Solo su questa base possiamo ripensare le convivenze dei nuovi soggetti che si mettono in gioco senza rinunciare alla propria complessità e interezza. Non ci sono scorciatoie: per stare bene insieme, anche nel lavoro, bisogna sentirsi bene con se stessi, sentirsi accettati e riconosciuti e questo è sempre reciproco.

Mi si potrebbe obiettare: ma in amore ci si sceglie, al lavoro… non proprio! Vero, ma le trasformazioni di cui abbiamo parlato sopra ci dicono che si stanno alzando le aspettative rispetto allo spazio/tempo di lavoro/vita e alla loro integrazione. E contemporaneamente alle aspettative si alzano, io credo, anche le capacità di relazionarsi e di mettersi in gioco, dunque di cercare e trovare libertà proprio nelle convivenze non scelte, le vicinanze forzate e casuali che ci si trova a vivere. Ed è proprio lì che si possono fare passi avanti nelle convivenze sociali. Sono le “prossimità indesiderate” di cui parla Judith Butler rifacendosi ad Hannah Arendt: “la prossimità indesiderata e il carattere non-scelto della coabitazione sono precondizioni della nostra esistenza politica” (L’alleanza dei corpi, nottetempo, 2017).

Credo che la parola chiave per mettersi in gioco su questo piano, il paradigma che va esplorato con nuove antenne sia negoziare/contrattare. Non seduzione e non prova di forza che, pur con modi apparentemente molto diversi, hanno la stessa funzione di vincere, di prendere il sopravvento sull’altro/a. E questo vale sia nei rapporti d’amore che di lavoro, in casa come in ufficio. Il paradigma negoziale invece, ha come presupposto che ci si riconosca reciprocamente come soggetti liberi. Negoziando possiamo tenere insieme soggetti che hanno bisogno l’uno dell’altro, ma irriducibili l’uno all’altro nei loro desideri e nelle loro esigenze. C’è contrattazione (ci dovrebbe essere) nei luoghi di lavoro, nelle relazioni personali, politiche. La contrattazione invera la libertà. Contrattazione e libertà sono processi. Non sono mai conclusi ed è bene non darli mai per scontati. La libertà vive nell’esperienza e nel confronto: solo così si impara a reggere conflitti e differenze senza soccombere e senza voler cancellare.

Per questi motivi, come dicevo prima, non si tratta di studiare a tavolino gli obiettivi magicamente risolutivi, per rendere tutti felici. Ho sentito una delegata di fabbrica che raccontava della sua azienda illuminata: gravidanze non penalizzanti, ritrovi il tuo posto al rientro!, part time e smart working a richiesta, perfino la palestra interna a disposizione. Tutto bene dunque? Non proprio. “Se mi chiedete: tu ci sei in questo? io rispondo di no. Tutti questi provvedimenti non sono presi con noi”. Esattamente il contrario della preziosa, vitale e generativa fatica della negoziazione che tiene in relazione le persone coinvolte.

Il paradigma negoziale, se ben coltivato, è oggi di grande attualità perché può essere uno strumento contro lo strapotere della rete e le sue derive violente, la potenza dell’algoritmo che neutralizza le mediazioni. Nei social c’è una commistione di piani relazionali che sfrutta e consolida la solitudine narcisistica che può stare in un selfie. E da più parti si sottolinea l’importanza oggi di imparare a confrontarsi in modo costruttivo, senza aggredirsi, ma scoprendo come si possa imparare qualcosa dagli altri senza sentirsi sminuiti. Al lavoro, come in amore, il confronto negoziale radica nel contesto convissuto e fa crescere la forza di tutte le parti coinvolte. Solo un negoziato di successo fa sentire tutti “vincenti”: da quel momento tutte le parti in gioco sentono che l’ambiente in cui vivono diventa più “loro” perché hanno contribuito a codeterminare le regole del gruppo.

Già nel 2009, come Gruppo lavoro della Libreria delle donne di Milano, esprimevamo così questo concetto nel Sottosopra “Immagina che il lavoro”: «Dire ascoltare contrattare. Contrattare: tra sé e sé, tra i desideri e le stanchezze, il pensare in piccolo e il pensare in grande, per dare valore a tutto il nostro tempo. Contrattare con chi ci vive accanto, in casa, in città, al lavoro, per fare in modo che i confini tra sé e l’altra/o rimangano mobili e non diventino barriere. Contrattare con chi si para davanti al nostro cammino con l’intenzione di bloccarlo o dirigerlo».

Dunque una modalità negoziale che ha due caratteristiche che si intrecciano: tenere la vita intera e radicarsi in ogni singolarità. Penso che oggi queste caratteristiche abbiano allargato le loro potenzialità e si rivelino particolarmente preziose per tutti, donne e uomini. Il paradigma negoziale, così inteso, può diventare la nuova prassi istituente che ripensa gli ambienti di lavoro. O si fa spazio a un modo nuovo di sollecitare uomini e donne a stare nel lavoro e lottare per questo oppure lo spazio e l’attrattività si riducono inevitabilmente per tutti. Alzare le poste in gioco perché tutti e tutte possano giocare.

Difficile? Certo! La passione non è gratis. Ma è affascinante. Come dice Chiara Montanari, ingegnera che si autodefinisce life explorer (5 missioni in Antartide come expedition leader): la diversità è forza e la leadership è un viaggio, è danzare insieme nell’incertezza.


(Persone e Conoscenze, aprile/maggio 2022)

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