di Luisa Pogliana
Il contesto neoliberista-finanziario
Per anni noi donne abbiamo portato una nuova visione nel management, attente agli essenziali equilibri di potere in campo. Tanto tanto più necessario oggi, di fronte al grave cambiamento nel modo di governare le aziende. È il modello economico del neoliberismo finanziario, cui deriva un potere che agisce con nuove dinamiche.
Nella nostra visione l’azienda è per noi il punto di incontro di interessi diversi: finanziatori, proprietari, chi lavora, e al manager compete trovare un equilibrio tra questi interessi. Ma oggi lo stesso scopo dell’azienda – produrre beni o servizi – passa in secondo piano. Come anche la remunerazione dei lavoratori e gli investimenti, necessari a garantire il futuro. Perché uno dei primi mandati rivolti ai manager è contenere, tagliare il costo del lavoro.
L’azienda è distolta dal suo fine naturale, creare valore, ed è assoggettata a una estrazione di valore. La speculazione finanziaria prevale sull’economia produttiva.
È una tendenza che inizia negli anni 80 del 900, ma si è sviluppata in modo graduale, e solo negli ultimi anni ne abbiamo visto chiaramente gli effetti. Guardiamo per esempio un indicatore nel mercato del lavoro degli USA. La forbice tra produttività e remunerazione si è allargata sempre più: la produttività è cresciuta del 64%, le remunerazioni sono cresciute del 17%.
Il salto evidente del suo dominio è avvenuto con l’ondata del Covid, facendo leva soprattutto sulle nuove forme di organizzazione del lavoro, che hanno isolato ogni lavoratore e lavoratrice con il lavoro da casa totale e obbligatorio. Così si toglie il fondamento della solidarietà, la forza della contrattazione, e si rende chi lavora più controllabile, dominabile. Infatti è ben prima del Covid che le grandi società di consulenza aziendale (McKinsey, Accenture…), mettevano l’isolamento dei singoli lavoratori come obiettivo principale indispensabile per ottenere tutto il resto. Si era valutato che ci sarebbero voluti 30 anni per raggiungerlo. Le politiche per contenere il Covid lo hanno reso possibile in tre anni.
Le pressioni sul management
Oggi la gestione dell’azienda da parte dei manager è sempre più condizionata da vincoli esterni: la pressione della crescente forza di questa pressione è la compliance: obiettivi predefiniti a prescindere dagli andamenti del business aziendale, standard di settore e certificazioni imposti a livello globale, limitano l’autonomia di azione dei manager di ogni livello.
L’altro strumento è la cosiddetta digital transformation. Strumenti tecnologici destinati a ridurre gli ambiti decisionali dei manager, e lo spazio per il lavoro umano con il suo valore.
Facciamo solo qualche esempio. Le piattaforme digitali impongono regole e ritmi molto più stretti della catena di montaggio. La gestione aziendale guidata dai dati (data driven), usa algoritmi ignoti ai manager stessi, e sminuisce il loro ruolo come autori di politiche e di scelte. I dati, inoltre, non sono neutri, ma riflettono i pregiudizi di chi li crea: verso le donne prima di tutto, e le etnie diverse dalla nostra, le età… Così gli algoritmi per selezionare il personale escludono le donne, perché non disponibili a lavorare senza limiti di tempo. Infatti l’Intelligenza Artificiale di oggi è prodotta da un mondo dominato da uomini – spesso misogini – bianchi e di alto livello sociale. Lo stesso avviene nella finanza speculativa.
La riduzione del potere manageriale
Il potere e lo status dei manager nei due ultimi decenni sono diventati via via molto limitati.
Si è affermato un nuovo potere, esercitato da lontano e difficilmente visibile: grandi investitori finanziari, grandi istituti bancari globalizzati, grandi case digitali. I manager di tutti i livelli e di ogni specializzazione ne sono toccati. CEO e Chief Financial Officer sono più esposti al mercato finanziario, che guarda gli andamenti del titolo in borsa molto più dei risultati nel business di riferimento: la loro remunerazione viene decisa da chi detiene le azioni. Anche i manager delle Risorse Umane sono esposti ad aspettative esterne, con il compito di tenere sotto controllo il costo del lavoro. Per gli altri si diffondono accordi diversi, con una flessibilità tutta a vantaggio aziendale: temporary manager, fractional manager, consulenza.
Complessivamente c’è un maggiore distanziamento tra il vertice e gli altri manager, spesso costretti a rinunciare proprio a quelle azioni che danno senso all’essere manager (come occuparsi di chi lavora). La figura del manager è erosa.
È una situazione frustrante, c’è un forte scontento. Ma si tende a non parlarne pubblicamente, per una sorta di pudore, per non sminuire la propria immagine. Si rischia di coprire l’insoddisfazione con atteggiamenti di facciata. Ad esempio, continuiamo a parlare dell’abusato “persone al centro”, ma è più una petizione di principio che una descrizione di ciò che riusciamo a fare. E si parla di “organizzazioni tossiche”, come si trattasse solo dell’agire di manager malintenzionati.
Come fare
Sappiamo che non saremo noi sole a poter contrastare il neoliberismo e le sue conseguenze, ma qualcosa si può fare. Qualcosa, infatti, sta già succedendo.
Negli Stati Uniti, culla del neoliberismo e della finanza, lì dove le politiche del personale si basano sulla relazione uno a uno, i lavoratori e le lavoratrici sono tornati a una risposta collettiva. Nonostante la paura di ritorsioni, c’è stata una crescita dell’adesione ai sindacati in media del 60% . Nei mesi scorsi gli scioperi sono scoppiati dappertutto, tanto che questa stagione è stata etichettata “l’estate calda”. Si intravede un cambiamento anche nell’atteggiamento dei manager: una nuova attenzione a recuperare spazi di azione per sé.
Queste lotte non vengono all’improvviso, sono maturate proprio mentre cresceva l’accanimento e la voracità sempre in aumento di questa economia. E sono state impreviste. Dunque ci fanno pensare che c’è uno spazio politico anche per noi. Importante è smettere di tacere su questa situazione. I margini di autonomia sono più ristretti ma ci sono, vediamo come usarli. Anche iniziative limitate, che incidono comunque sulle organizzazioni: diamo valore alla microprogettazione.
Se la situazione impedisce di esporci, certamente dobbiamo tutelare il nostro lavoro. Possiamo però dare vita a soggetti collettivi per fare fronte comune contro il nostro depotenziamento. Lasciamo da parte i discorsi difensivi, e guardiamo in faccia la realtà: diciamoci che cosa non si riesce a fare, o non ci fa brillare ma impaurire.
Un bell’incoraggiamento viene dal passato. In ogni epoca del capitalismo ci sono situazioni specifiche di ingiustizia nella distribuzione delle ricchezze e del potere. E richiede una risposta adeguata. Ma ogni volta è venuta da una grande donna, e prima di un uomo. La prima è Beatrice Webb, che con l’arrivo della Rivoluzione Industriale, fonda il concetto stesso di management, basato sull’idea di Industral Democracy. Segue la Grande Depressione, alla quale Mary Parker Follet risponde con l’idea di un management “umanistico”: non il “potere su” ma il “potere con”.
E nel nostro periodo emerge Judy Wajicman, la più grande esperta del “capitalismo digitale”, nell’intreccio tra management/lavoro/genere/tempo.
Anche al neoliberismo possiamo dare una risposta. E chissà, forse ha raggiunto il suo massimo livello, forse il quadro sta cambiando. Ma noi non aspettiamo.
Luisa Pogliana ha fondato con altre l’associazione Donnesenzaguscio, per “riflettere sull’essere donna e manager” (www.donnesenzaguscio.it). Il video del Seminario Manager sotto pressione. Ma uno spazio per agire e cambiare c’è sempre (Milano, 18 novembre 2023) si trova su YouTube al link https://youtu.be/ML0geT4UR8c
(www.libreriadelledonne.it, 7 dicembre 2023)