di Silvia Motta
Intervento all’incontro “Donne e lavoro” dell’11/12/2020, in diretta dalla pagina fb della consigliera comunale di Milano Marzia Pontone
Quale occasione, vi chiederete, in tempo di pandemia mondiale e di crisi economica acutissima? In un momento in cui la pandemia colpisce duro verso tutti ma ancora di più verso le donne?
L’occasione che ci è offerta – se la cogliamo – è di incidere davvero verso quel cambiamento che è già in atto e che in un documento della Libreria delle donne di Milano è stato definito “un cambio di civiltà”.
In questa mia visione c’è dell’ottimismo che nasce da alcune considerazioni.
La prima è che l’autorità femminile è presente oggi in tutto il mondo come non è mai stato prima. Angela Merkel, Ursula von der Leyen, Kamala Harris, Christine Lagarde, Jacinda Ardern solo per fare alcuni nomi, sono donne che occupano posizioni di grande rilievo e di potere e che influiscono su come orientare il futuro. E ancora, sempre parlando di presenza femminile autorevole, statistiche recenti dimostrano che le aziende guidate da donne sono quelle che vanno meglio, che realizzano maggiori profitti (hanno subito qualche flessione in questo periodo di pandemia, perché quelle dove le donne svolgono un ruolo di leadership sono per lo più aziende di servizi).
E anche per quanto riguarda l’occupazione femminile, val la pena precisare che anche in Italia, sempre presentata come la peggiore in Europa, in realtà c’è una situazione variegata rispetto alla quale le medie aritmetiche non danno il senso della realtà. Perché, se il Sud è in grande sofferenza non va scordato che nelle grandi città del nord a Bologna, a Reggio Emilia quasi il 70% delle donne lavora fuori casa e a Milano, prima della pandemia, il numero delle lavoratrici nell’età tra i 20 e i 64 anni era pari a quello dei lavoratori.
La seconda ragione che mi rende ottimista/speranzosa è che la pandemia, insieme alle disgrazie porta con sé anche un benefico effetto di svelamento rispetto a che cos’è il lavoro e il ruolo che vi giocano le donne.
Già nove anni fa in un ‘manifesto’ del Gruppo lavoro della Libreria delle donne dal titolo “Immagina che il lavoro” avevamo sottolineato come sia essenziale modificare la concezione stessa di “lavoro”, cioè cos’è lavoro, e affermare che “il lavoro è molto di più”, “lavoro è tutto quello necessario per vivere”.
Mi spiego meglio: la divisione sessuale del lavoro così come l’abbiamo ereditata dal patriarcato fa sì che quando si usa la parola lavoro normalmente si intenda quello produttivo, per il mercato, retribuito. Quando a qualcuno si chiede “che lavoro fai” la risposta che normalmente si dà è quella del lavoro che dà reddito e posizione nella società. Credo sia molto raro che a una domanda di questo genere qualche donna aggiunga anche: faccio il lavoro che richiede una famiglia, faccio crescere bambini, curo anziani o disabili, mi occupo delle pratiche burocratiche, cucino, pulisco e così via. Dovrebbe parlare una mezz’oretta.
Il fatto è che il lavoro non retribuito, chiamato ‘lavoro di cura’, che comprende tutta quell’area della vita che non è la produzione per il reddito, perde la sua valenza di ‘lavoro’. Diventa altro, è il non monetizzato o non monetizzabile, non ha valore sociale, ed è quello che fanno in prevalenza le donne…
Dobbiamo cambiare l’idea del lavoro, la definizione stessa di lavoro. Lavoro non è solo quello per il mercato: lavoro è tutto quello necessario per vivere.
È proprio nel cambiare la concezione del lavoro che questo disgraziatissimo momento in fondo ci viene in aiuto. Perché il coronavirus e in particolare l’esperienza del lockdown ha illuminato l’intreccio che c’è tra i due mondi – quello della produzione e quello della riproduzione: ha reso visibile la iniqua ripartizione tra uomini e donne. E ancora, ha reso evidente il ruolo di ‘perno’ che le donne svolgono nelle tenere insieme questi due mondi.
Per certi aspetti è uno svelamento simile a quello operato dal MeToo: da anni si denunciava la violenza sulle donne, il movimento delle donne si batte dagli anni ’70 su questo argomento, ma il MeToo ha fatto fare un salto in tutto il mondo alla consapevolezza di che cos’è davvero la violenza maschile e di come sono i comportamenti maschili in un mondo profondamente misogino.
Allo stesso modo in questi mesi di pandemia ci si è potuti accorgere molto concretamente che nella produzione siamo massicciamente presenti, e in maggioranza proprio nei cosiddetti lavori indispensabili (ospedali, case di cura, scuole, asili, supermercati… servizi alla persona). Siamo i 2/3 del personale in questi settori. Nello stesso tempo si è visto che nelle famiglie è sulle donne che in questo periodo, più ancora che in passato, è ricaduto il peso della gestione di bambini, anziani, disabili, spesso anche mariti. Sono state e sono, anche in questa seconda ondata pandemica, il perno intorno cui girano il lavoro ‘fuori’/il lavoro dentro (per usare un’espressione semplificata).
Questa esperienza del lavoro, che ci appartiene e dove vita ed economia si intrecciano, non va vista come uno svantaggio, ma come la fonte di un punto di vista, di una forza, di un sapere femminile che può essere un potente motore di cambiamento non solo del lavoro delle donne, ma del lavoro tout-court. Cioè il motore di cambiamento del modello di sviluppo della società in cui viviamo.
Infatti, proprio perché le due facce del lavoro, entrambe necessarie, sono diventate più evidenti, si presenta l’occasione di metterne in discussione davvero la storica divisione su base sessuale dando spazio al sapere che le donne hanno su entrambi gli aspetti.
Questa considerazione implica però che noi stesse si diventi più precise, più nette, più radicali, anche più coraggiose nel portare con forza nel pubblico e negli ambiti in cui operiamo il rapporto e i nessi che esistono tra queste facce del lavoro, dando spazio alla soggettività femminile.
Alla luce di quanto detto mi sembra importante sottolineare le conseguenze che ne derivano:
- basta con discorsi che parlano di conciliazione, normalmente targato come problema delle donne: il nesso tra vita e lavoro riguarda donne e uomini. Tema questo al quale dobbiamo prestare particolare attenzione proprio ora, con la pandemia, perché alcuni cambiamenti verso cui la situazione spinge, in sé progressivi e con aspetti di flessibilità molto interessanti per le donne, come ad esempio è il lavoro da casa/lo smart work, non diventi invece un’arma a doppio taglio isolando di più le donne e lasciando libero campo ai giochi di potere maschili che in genere si giocano col lavoro fatto in presenza, negli incontri informali e in azienda, non da casa!
Le manager che fanno parte dell’associazione “Donne senza guscio” che in questo periodo si confrontano sulle piattaforme in incontri condotti da Luisa Pogliana (autrice del libro Le donne, il management, la differenza) ci mettono in guardia da questo pericolo.
E poi:
- dobbiamo diventare più precise quando usiamo la parola parità. Diciamo basta a quel concetto di parità – usato soprattutto dai media, ma non solo – dove l’orizzonte a cui si tende non è la libertà femminile, ma è l’inclusione nel mondo maschile lasciandolo così com’è, anzi adottandone le pratiche e gli stili.
Un discorso di parità è sacrosanto quando il tema è la discriminazione, ad esempio sulla parità salariale, sull’accesso alle professioni, agli scatti di carriera, al credito. Ma è ben diverso dire in maniera generica, come ancora troppo spesso si sente, che vogliamo la parità con gli uomini. Siamo diverse, portiamo nel mondo e nel lavoro la nostra differenza, quel punto di vista speciale che ci viene dalla nostra esperienza che comprende la potenzialità generativa e tutto quel sapere e quelle sensibilità che intorno ad essa si sono consolidati.
La posta in gioco sul lavoro non è essere incluse nel lavoro così com’è, ma la sua modificazione. Le aziende che si sono accorte che le leadership femminili sono più efficaci e ottengono migliori risultati introducono ad esempio dei corsi di formazioni incentrati sulle abilità manageriale che si legano alla funzione materna (a partire da un libro che si intitola La maternità è un master di Zezza e Vitullo). Corsi aperti anche agli uomini, s’intende, che sono quelli che hanno più da imparare da questo.
Ho detto fin qui che il momento è buono per farci avanti e di diventare più incisive nel dare voce al punto di vista femminile. Ma va anche detto che il rischio è alto perché tanti avvenimenti quotidiani ci dicono che il primato dell’economia, della finanza, può prendere il sopravvento (task force, convegni di soli uomini ecc.).
Per essere incisive, per influire dobbiamo parlarci, valorizzarci e allearci tra donne nei luoghi dove operiamo. Dobbiamo anche coinvolgere gli uomini che dimostrano apertura. In fondo il lockdown li ha costretti dentro una situazione/uno scenario mai vissuto prima, con l’allontanamento dal lavoro sociale e la chiusura in casa. È stata un’occasione imprevista per misurarsi con l’altra parte del lavoro, ed è questo il momento per noi donne di operare perché, così com’è successo per il MeToo, avanzi anche tra di loro una presa di coscienza in grado di riaprire i giochi tra donne e uomini in tutti i campi.
In una riunione del gruppo lavoro una di noi ha detto: «Ci vorrebbe un MeToo del lavoro».
(facebook.it, 11 dicembre 2020)