Sergio Bologna
Non è facile riaprire oggi una riflessione sull’autotutela dei lavoratori esclusi dal meccanismo di sostegno del cosiddetto welfare, dopo che il filo del discorso sul lavoro indipendente si è interrotto.
Sostituito il Ministro del lavoro e rimesso in moto faticosamente l’iter parlamentare della cosiddetta “legge Smuraglia”, è ripresa solo la chiacchiera sui “lavori atipici”(in realtà atipico non è il lavoro ma il genere di rapporto contrattuale, i sindacati tedeschi infatti usano sempre il termine “contratti di lavoro atipici”). Ma di concreto non si è visto nulla. Da circa un anno l’argomento, entrato per un periodo nel lessico del bon ton scomparso dal dibattito politico. Autorevoli sociologi di provenienza sindacale avevano decretato
a) che il lavoro autonomo era frutto delle fantasie di qualche sociologo
b) che all’evidenza empirico-scientifica esso appariva tutt’al più nella veste dell’amministratore di condomini (sic)
e via di questo passo.
La Confindustria faceva loro eco dichiarando che la proposta di legge a tutela dei contratti di collaborazione coordinata e continuativa (proposta di legge Smuraglia) scambiava per emarginati alcuni degli strati più benestanti della nuova borghesia (“i consulenti non sono le tute blu”, titolava”il Sole 24 Ore”).
Tutto questo accadeva un anno fa circa. Poi il silenzio. La Sinistra Italiana, sicura di stare al potere chissà quanto, spalleggiata dai suoi equivalenti europei, non si preoccupava della giustizia sociale né del consenso.
Oggi le cose sono cambiate, in Germania e in Italia le sue poltrone traballano. E allora si chiacchiera di nuovo di lavoro, sempre più in difesa rispetto all’offensiva sulla flessibilità che i neoliberisti ora dispiegano a tutto campo. Ma lasciamo perdere le loro chiacchiere e veniamo ai fatti.
Che cosa hanno ottenuto in concreto i lavoratori indipendenti, nelle loro varie configurazioni, dagli ultimi due governi? Nulla , se non un inasprimento della pressione fiscale in vista di un improbabile futuro trattamento pensionistico, oppure l’onore di poter diventare, se giovani e meridionali, degli “autonomi di stato” ossia dei microimprenditori che godono di un capitale iniziale e di alcuni servizi gratuiti, forniti, il capitale e i servizi, dal generoso Stato Italiano.
Grazie all’attività meritoria della società per l’Imprenditoria Giovanile (IG) i giovani meridionali, tradizionalmente affascinati dal “posto fisso”, possibilmente d’impiego pubblico, possono diventare “autonomi di stato”, lavoratori indipendenti finanziati dallo stato. Solo il genio assistenzialista democristiano poteva partorire una simile figura.
Eppure non dobbiamo lamentarci, i finanziamenti dell’IG rappresentano una delle poche voci di spesa di politica “attiva” del lavoro, una spesa che rappresenta in totale appena l’8% dei centomila miliardi circa che lo stato devolve alle politiche del lavoro, che sono per il restante 92% politiche di sostegno al lavoro che già c’è, quindi politiche “passive”.
Se dunque nulla di buono ci si può aspettare da queste forze politiche e sindacali, il
discorso sull’autotutela diventa davvero un’emergenza. La gente deve costruire da sé il proprio welfare integrativo rispetto a quello a pagamento che si prospetta con la privatizzazione della previdenza
I lavoratori indipendenti e quelli che pendolano tra “contratti di lavoro atipici” e attività di lavoro autonomo non hanno e non avranno tutele se non quelle che potranno acquistarsi mediante i fondi pensione ed altre forme assicurative fornite dal mercato finanziario. Ma non basta, ci vuole l’autotutela, quella che deve essere costruita dal basso nelle relazioni individuali, nelle dinamiche socioculturali, la gente deve riprendere la capacità di costruzione di progetti comuni, quelli che la nostra generazione aveva imparato ad elaborare con l’impegno politico non istituzionale, con l’attività nel sociale. Ma le nuove generazioni hanno ancora questo gene nel loro DNA? E noi sappiamo trasmettere loro le tecniche dell’organizzazione, ci preoccupiamo di non disperdere questo sapere accumulato – oppure ci limitiamo a guardare, un po’ sazi e un po’ stanchi?
Si è parlato di riscoprire le società di mutuo soccorso di ottocentesca memoria, fondate non a caso dai lavoratori con maggiore potere contrattuale sul mercato del lavoro o con maggiori capacità professionali. Società che costruivano prima di tutto dei “luoghi” dove la comunità operaia si allargava alla comunità di quartiere, di paese, spazi dove discutere in assemblea o dove ballare.
Quanto ci sarebbe da fare oggi sul piano del recupero degli spazi ad uso sociale, per l’installazione di servizi non di mercato, per costruire strutture di welfare privato non dipendenti dal mercato finanziario. Ma le forze degli utenti, da sole, non bastano e la miseria politica di chi detiene le risorse pubbliche è tale da farci disperare su una prospettiva del genere.
Ci riusciranno le donne?