Paola Plet e Donatella Barberis
A partire dagli anni 60 in tutta Europa si inizia a registrare la presenza significativa delle donne nel mercato del lavoro e da allora questo dato si è mantenuto con andamento positivo e in continua crescita, tale da far dire che “l’aumento della popolazione attiva in Europa almeno da dieci anni, riposa sull’esplosione dei tassi di attività delle donne ..”
Lo stesso dato proviene dagli USA. La rivista Economist in un articolodi fine 1996 intitolato Tomorrow’s second sex , dice che si può prefigurare in un prossimo futuro una sorta di sorpasso delle donne nel mercato del lavoro a scapito degli uomini.
Per ritornare alla nostra realtà europea e italiana e all’oggi, certamente il dato di crescita dell’occupazione femminile è davvero rilevante.
Il primo motivo di rilevanza del fenomeno è dato dal fatto che la presenza sul mercato del lavoro e la piena attività avviene in quelle classi di età da 25 a 49 anni, coincidenti con l’epoca della riproduzione e della cura figli che hanno costituito un fattore di esclusione per l’accesso al lavoro.
Attualmente,e questa è una tendenza che si mantiene da circa 10 anni, sono queste le classi di ètà in cui si incontrano i più alti tassi di attività delle donne; questo ci dice che sempre meno per le donne risulta discontinuo il percorso lavorativo nell’età della maternità.
Un altro motivo di attenzione a questo dato di crescita è che non ha subito una regressione nel momento della generale crisi occupazionale, dal momento che le donne si sono concentrate nel settore dei servizi che è quello che ha meno risentito della crisi economica.
La crisi dell’occupazione non ha come in altri tempi cacciato le donne dal mercato del lavoro.
E’ battuta quindi la tentazione reazionaria che propone nei momenti di crisi di rimandare le donne a casa per lasciar spazio sul mercato del lavoro agli uomini. Non è stato neppure possibile formularla.
Anche per questo motivo, il dato di tenuta dell’occupazione femminile è significativo, anche quando deve fare i conti con il tasso di disoccupazione.
Si può infatti obiettare che comunque le donne registrano il maggior tasso di disoccupazione: questo è vero infatti in tutti i paesi europei , ad eccezione della Gran Bretagna i tassi di disoccupazione sono sistematicamente più elevati di quelli degli uomini e regolarmente a partire dagli anni 80.
Ci sono molte commentatrici e commentatori che riconoscono la crescita dell’occupazione femminile, tuttavia insistono sull’ancora altissimo tasso di disoccupazione. E’ vero.
Tale dato di disoccupazione però non si deve leggere solo come difficoltà d’accesso al mondo del lavoro da parte delle donne, ma anche come indicatore della forte e costante crescita dell’offerta femminile e come segnale di determinazione e tenacia a rimanere e a ritornare sul mercato del lavoro, a dispetto delle difficoltà e anche a prezzo della disoccupazione.
Si dice che l’alto tasso di disoccupazione femminile – nel 1996 in Italia pari al 16,8% contro il 9,3% del tasso di disoccupazione maschile – è la prova della discriminazione e dello svantaggio delle donne nel loro ingresso nel lavoro.
Vogliamo, però, richiamare l’attenzione sulla metodologia di calcolo del tasso di disoccupazione maschile/femminile che, per sua definizione, è ottenuto dal rapporto – maschi con maschi e donne con donne – tra due valori assoluti, le ‘persone in cerca di lavoro’ al numeratore e ‘la forza lavoro’ al denominatore. Possiamo leggere dai dati ufficiali ISTAT che, in Italia nel 1996, le donne ‘in cerca di lavoro’ sono pari a 1.459.000 unità contro le 1.331.000 maschili mentre la ‘forza lavoro’ è costituita da 8.672.000 donne e 14.250.000 maschi. Il calcolo dei tassi di disoccupazione viene, quindi, svolto su quantità che differiscono nel numeratore ma soprattutto nel denominatore. Per una evidenza aritmentica, l’elevato valore del denominatore nel tasso disoccupazione maschile – dovuto alla massiccia presenza di maschi nella forza lavoro ed esito di un processo storico in via di cambiamento – ha l’effetto di schiacciare al ‘ribasso’ la misura della disoccupazione maschile relativamente a quella delle donne.
Volendo attribuire al tasso di disoccupazione il condiviso significato di indicatore del collo di bottiglia all’ingresso nel lavoro e segnale di difficoltà di inserimento, si potrebbe ricalcolare un tasso di disoccupazione “composto” in cui i maschi e le donne in cerca di lavoro siano confrontate con l’intero aggregato della forza lavoro. In tal modo può essere superata la distorsione ‘storica’ del calcolo ‘matematicamente privo di memoria storica’, che non tiene conto cioè dell’inevitabile maggiore presenza maschile nella forza lavoro spiegabile da ben note condizioni e in corso di lento ma progressivo cambiamento.
Il tasso di disoccupazione così ricalcolato (tavola seguente) indica uno “stato di disoccupazione” delle donne non così drammaticamente lontano dalla condizione maschile e, a nostro avviso, pienamente spiegabile dal fenomeno del recente e massiccio ingresso delle donne nel lavoro.
Tasso di disoccupazione – Italia, ottobre 1996 (Fonte ISTAT)
“tradizionale”
Femminile 16,8 %
Maschile 9,3 %
Totale 12,2 %
“composto”
Femminile 6,4 %
Maschile 5,8 %
Totale 12,2 %
La femminilizzazione del lavoro è un fenomeno che inizia ad essere riconosciuto pubblicamente anche in Italia. Già un articolo di Alberto Orioli (“Il Sole 24 Ore” 13/4/96) riferito alle rilevazioni ISTAT del ’94 e del ’95 recitava “Si sono persi 109.000 posti di lavoro nel ’95; ne ha ceduti 93.000 l’industria, altri 83.000 li ha persi l’agricoltura; solo il settore dei servizi ha riequilibrato il conto con un surplus positivo di 67.000 addetti; […]… l’Italia, nel suo complesso, crea nuovo lavoro soprattutto per le donne…..”
La naturale gradualità di eventi storici non “rivoluzionari” in senso tradizionale fa sì che tale taglio interpretativo resti ancora una riflessione isolata. Va sempre tenuto presente, infatti, che la massiccia comparsa delle donne sulla scena lavorativa è in Italia recente e che di conseguenza incide su dinamiche di ingresso e di uscita destinate a modificare la composizione del mercato del lavoro solo progressivamente e su archi temporali più lunghi.
Più spesso, invece, si riportano evidenze statistiche unicamente per denunciare l’avvenuta discriminazione delle donne ed il loro stato di svantaggio. Da parte di ambienti femminili legati alle “pari opportunità” la lettura dei dati avviene ancora, quasi sempre, secondo chiavi di lettura catastrofiche e autopunenti.
Tra le evidenze statistiche viene quasi sempre citato il tasso di disoccupazione , parametro fondamentale dell’analisi socio-economica e frequente punto di partenza di molte discussioni riguardanti la condizione delle donne nel mercato del lavoro.
Un altro aspetto che contraddistingue questo massiccio ingresso delle donne nel lavoro è il loro medio/alto livello di scolarizzazione.
Tra i laureati dell’anno 1986, le donne rappresentano già il 45,8%. Superano la componente maschile nei rami scientifico e letterario, raggiungono una quota superiore al 40% nel ramo politico-sociale e giuridico e superiore al 30% nel ramo medico ed economico. Tra i laureati del 1992, le donne passano a rappresentare il 50,4% del totale. A sei anni di distanza sono giunte a superare la componente maschile nei rami scientifico, letterario, politico-sociale, giuridico, rappresentano il 43% dei laureati nel ramo medico e il 39% dei laureati nel ramo economico.
Il medio/alto livello di scolarizzazione è individuabile anche nella fotografia della componente ‘persone in cerca di occupazione’. Sebbene nel 1995 le donne rappresentino all’incirca la metà di tale aggregato, risultano maggiormente presenti nelle fasce a più alta istruzione. Esse costituiscono, infatti, il 62% delle persone in cerca di lavoro in possesso di titoli di dottorato, laurea a laurea breve e il 59% di quelle in possesso di diploma liceale o diploma di scuola professionale; la percentuale femminile scende al 46% tra le persone in cerca di lavoro in possesso di licenza media ed elementare.
In termini di collocazione settoriale le donne in Italia, secondo fonte Istat, sono presenti nelle professioni relative ai settori dei servizi, servizi alla persona, assistenza e cura, educazione e amministrativo-settori in cui superano gli uomini come presenza- e di attività commerciali a contatto con il pubblico
Alle considerazioni fino ad ora svolte circa il panorama europeo e nazionale vogliamo aggiungere alcuni dati del mercato del lavoro in Lombardia, vero punto di partenza della nostra ricerca statistica.
Riteniamo importante l’analisi sul dato lombardo per dare qualche spunto di riflessione all’interno di una cornice contestuale più precisa.
La Lombardia infatti è un’area che ha già vissuto il passaggio dall’indistrializzazione ad una pervasiva terziarizzazione e che risulta una delle più integrate con il tessuto produttivo europeo, e viene a rappresentare quindi la linea di tendenza di fenomeni generali che, o sono già presenti o non tarderanno a manifestarsi anche in altre aree del territorio nazionale.
Riguardo la presenza delle donne nel mercato del lavoro lombardo i dati sono i seguenti:
nel 1995 il tasso di femminilizzazione è pari al 39,3% della forza lavoro e ad un apparentemente modesto 38,1% degli occupati (35% dato nazionale 1996). Risulterebbe immediato “gridare” alla discriminazione femminile se non si tenessero in considerazione i fenomeni sottostanti. Guardiamo, ad esempio, cosa significano le percentuali sopra indicate in termini di valori assoluti.
Tra il 1980 e il 1990:
– la f.za lavoro lombarda aumenta di 154.000 unità date da un aumento di 191.000 donne e una riduzione di 37.000 maschi;
– gli occupati lombardi aumentano di 163.000 unità risultato di una crescita di 193.00 occupate e una riduzione di 30.000 occupati maschi.
Tra il 1990 e il 1995 (periodo contraddistinto dalla recessione economica):
– la f.za lavoro lombarda si riduce di 80.000 unità di cui 5.000 donne e 75.000 maschi;
– gli occupati lombardi subiscono una contrazione di 158.000 unità costituite da 39.000 donne e 119.000 maschi.
Un discorso a parte infine si deve fare per Milano: qui a partire dagli anni 1990 più donne che uomini entrano nel lavoro nella misura del 53% rispetto ad un 47% maschile.
Questi dati indicano, al di là delle percentuali, l’avvio di un evidente fenomeno di femminilizzazione contrassegnato dal fatto che, in un periodo di sviluppo economico, ma di contrazione occupazionale, la crescita va tutta a vantaggio delle donne mentre la diminuzione dei posti di lavoro colpisce maggiormente, in termini assoluti, la componente maschile.
Il dato dell’ingresso delle donne nel lavoro non può quindi passare inosservato. Va letto con nuovi paradigmi,che non possono essere quelli della discriminazione e della debolezza, ma necessariamente contestualizzati all’interno di un movimento di presa di coscienza da parte delle donne circa il senso del lavoro e della spendibilità del loro patrimonio di saperi nel lavoro.