Francesca De Vecchi
Ho 29 anni, lavoro alla Libreria delle donne di Milano da circa un anno e ho appena iniziato un dottorato di ricerca in filosofia all’Università di Ginevra. Vorrei provare a abbozzare la situazione in cui mi trovo rispetto alla difficoltà di fare teoria e lavoro politico sul simbolico. Si tratta di un’apparente assenza di necessità e di contesto, di una parziale saturazione della ricerca di senso e dei desideri nell’esperienza vissuta (delle relazioni, dello studio, del lavoro) illuminata dal guadagno simbolico ereditato dalle donne delle generazioni precedenti – c’è agio, libertà; il patriarcato è morto, che altro dobbiamo dire? Si tratta, però, anche di una saturazione di fatiche e energie nel comporre e articolare la propria vita – ciò che faccio, ciò che sono – secondo questa stessa misura di senso ereditata con il cambiamento di simbolico avvenuto.
Partire dalla questione del lavoro forse può aiutare a esemplificare e far capire meglio la situazione un po’ aggrovigliata che ho tentato di abbozzare, perché è nel lavoro, nella necessità di ciò che assicura sopravvivenza e indipendenza, ma anche relazioni di scambio generative di senso e di desideri, che c’è la possibilità della ricerca sul simbolico.
Partecipando al gruppo di discussione sulla femminilizzazione del lavoro, una volta Lia Cigarini chiese a me e a altre giovani che cosa fosse per noi il lavoro. Io allora parlai di estremismo del senso come cifra di ciò che cercavo e volevo dal lavoro: il lavoro come esistenziale (sono quindi d’accordo con Dino Leon, “il manifesto”, 21 novembre 1998), dimensione dell’esistere dove ci deve essere tutto o quasi, ecco perché “estremismo” – un “estremismo”, che so e vedo, sentito e praticato da molte donne di questa generazione considerata spesso accomodante. Che cosa intendo con questa espressione?
Estremismo del senso significa fare e voler fare uno sforzo enorme per comporre la propria vita in modo da coniugare bisogno di senso e sussistenza economica, tenendo assieme professioni e contesti di lavoro diversi (per me la libreria, la ricerca e l’università, le traduzioni), inventandone e nominandone altri, senza accontentarsi, se insoddisfacenti, dei percorsi già battuti e consolidati che il mercato offre – e qui l’esclusione dal mercato ad opera del capitale di certi ruoli professionali ha paradossalmente agevolato la nascita di nuovi spazi di libertà dentro i suoi interstizi. Quest’estremismo del senso ovviamente è anche un agio, una libertà che deriva e poggia – senza di esso non sarebbe stato possibile – sul lavoro politico e simbolico fatto dal movimento delle donne; è un’eredità, e viverla è un modo di accettare e rispondere a questa eredità. C’è il rischio, però, di rimanere totalmente impigliata dentro questa prassi – ciò che faccio – senza riuscire a ridisegnare un orizzonte teorico proprio, a partire dalla propria esperienza. Estremismo del senso significa inoltre – e qui forse si capisce meglio perché parlo di estremismo – paralisi della teoria, trovarmi in una sorta di metafisica del senso dove questo pathos del senso ha l’effetto contrario di una censura della significazione, perché l’esperienza che vivo non sembra mai essere sufficiente e adeguata alla nominazione teorica.
Ora, di lavoro sul simbolico ce n’è da fare, e Lia Cigarini ha indicato chiaramente di quali problemi si tratti: la relazione duale di scambio-contrattazione funziona, ma non è riconosciuta come forma della politica; per molte donne le relazioni nel lavoro sono già un significante alternativo al danaro, ma oltre al fatto che questa realtà fatica a essere riconosciuta, c’è anche il rischio che passi un’idea di relazione strumentale (VD, 43). Queste sono questioni cruciali, ma non le posso pensare in astratto, le devo pensare a partire da ciò che faccio e da un rinnovato contesto di discussione, le cui modalità e interlocutori possono anche non essere gli stessi del passato. Quindi il lavoro politico che in questo momento sento imprescindibile è innanzitutto di riposizionamento. La ricerca sul simbolico nasce solo dalla necessità di farla, e la necessità per me adesso passa attraverso il lavoro/i lavori “di senso” e il denaro e la sussistenza. La Libreria delle donne di Milano non solo è un contesto politico che mi sta molto cuore, ma un riferimento obbligato per l’elaborazione teorica e la pratica politica che ha generato. Vorrei scommettere su di esso come luogo che alimenti e faccia circolare questa necessità.