1 Marzo 1992
Via Dogana n. 4

Ridare dignità al lavoro

Rosa Piantoni delegata Zucchi S.p.A. e di Milena Bianco delegata Confezioni Manerbiesi

Vorrei qui affrontare uno dei temi che mi stanno più a cuore, che tuttavia non mi pare venga a sufficienza sviluppato. Porterò l’esperienza che misuro su di me tutti i giorni in fabbrica. Voglio parlare del tema: “Ridare dignità al lavoro”. Questo è un concetto profondo che ha per me un significato importantissimo. Cosa vuol dire “ridare dignità al lavoro”? Una cosa mi pare certa: se va riconquistata, è segno che l’abbiamo perduta! A questo proposito sarebbe interessante capire meglio: come e perché l’abbiamo perduta? Per me la parola “dignità” significa rispetto di se stessi, del proprio ruolo e pretendere dagli altri il rispetto della pienezza di essere umano. Il mio è un lavoro produttivo in quanto produco beni di consumo; tutto ciò è considerato poco importante dai mass-media, trattato male dagli esperti economici, svalorizzato dagli illuministi del nostro tempo: vale a dire “io faccio un lavoro non rispettabile”. Eppure io, come tante e tanti altri, contribuisco a determinare la ricchezza economica del Paese. Tutto ciò pare non abbia significato; si dà più valore non al produrre ma al consumare, quasi a voler dire che produrre e consumare sono due elementi completamente separati che non hanno nulla a che fare tra di loro. E’ vero che una persona può consumare anche senza produrre, ma è altrettanto vero che non si può consumare se non c’è qualcuno che produce beni di consumo. Sarebbe interessante approfondire l’analisi rispetto a ciò che produciamo, se è veramente utile o no alla società e all’essere umano, uomo e donna, ma ciò mi porterebbe troppo lontano. Voglio tornare al tema proposto: farò alcuni esempi di come questa società capitalista mistifica la realtà con tutti i mezzi pur di garantirsi la sopravvivenza. I messaggi che vengono trasmessi sono relativi al consumare, e le persone che contano in questa società sono quelle che consumano beni di lusso. Mai una sola volta ho sentito parlare delle operaie che nel laboratorio, chine sulle macchine, cuciono, per ore ed ore un abito di alta moda firmato Pierre Cardin – Valentino – Versace e così via; loro non contano nulla, sono invisibili agli occhi della società, non ha valore la fatica fisica o l’impegno nel produrre. Secondo me si vuole continuare a mantenere nettamente separato il mondo produttivo a tutti gli effetti da quello creativo intellettuale, vale adire che chi produce merci deve farlo solo con le braccia e non con la testa e chi lo fa con la testa non lo deve fare con le braccia. Se questa è la realtà, come pensiamo di ridare dignità al lavoro produttivo? Le risposte fin qui date dal Sindacato sono state fallimentari rispetto alla dignità dell’operaio e dell’operaia. Porto come esempio (…) Dunque, secondo me, dobbiamo partire da queste realtà per chiederci cosa può e deve fare il sindacato per ridare dignità al lavoro e con esso alla lavoratrice ed al lavoratore. lo credo che la prima cosa da fare sia quella di guardare questi problemi spostando il nostro sguardo su un nuovo orizzonte. Dobbiamo imparare a guardare più da vicino i bisogni e le esigenze che manifestano le lavoratrici e i lavoratori. Solo così riusciremo a capire meglio, ad esempio, cosa significa per una donna che lavora in fabbrica fare turni di lavoro pazzeschi che sconvolgono la propria vita sociale e affettiva. E tutto questo in nome di chi? Del mercato? Del profitto? Dell’economia generale? Se è per tutto questo, è ora di dire che al centro del mondo va messo l’essere umano, uomo e donna che contano molto, ma molto di più di quei valori capitalistici. lo non credo che si verificherebbe un tracollo economico, una catastrofe politica se al centro della nostra politica sindacale non mettessimo solo le esigenze dei padroni ma anche quelle delle lavoratrici e dei lavoratori. In un confronto dialettico e conflittuale deve esserci pari dignità. Le nostre esigenze non hanno meno valore di quelle dei padroni, anzi, sotto il profilo umano valgono di più le nostre. Se non riconquisteremo questa nostra dignità il mondo andrà sempre peggio e saremo noi in prima persona a farne le spese, sotto il profilo sociale – economico e umano. La nostra CGIL in primo luogo, non può permettersi di perdere la forza che le viene data dai lavoratori e dalle lavoratrici che saranno sempre disposti a lottare se al centro del mondo vengono messi i loro interessi, che sono anche quelli della solidarietà, della pace e della dignità dell’essere umano, uomo e donna.
R.P.

Affrontare una fase congressuale significa, per me, a partire dalla propria esperienza, dai propri desideri e speranze, porsi con più forza la domanda: “Quale Sindacato vogliamo essere?” Se interrogo allora la mia esperienza e mi vedo, mentre, seduta alla macchina da cucire, 8 ore al giorno, per 5 giorni alla settimana, prendo una cerniera dopo l’altra, l’attacco alla gonna, a 70 gonne ogni ora e 560 gonne al giorno e ogni volta che ne attacco una compio 18 attività, ho immediatamente chiara una risposta: “Voglio essere un Sindacato che migliora le condizioni di chi lavora, a partire dalla fabbrica.” Quindi un Sindacato che si è dichiarato Sindacato dei diritti e non riesce a garantire il diritto, e cioè quello del benessere al lavoro, a mio parere ha già fallito negli obiettivi che si è dato. Porsi allora come obiettivo il miglioramento delle condizioni di lavoro, come garanzia di un diritto essenziale, quale la possibilità di un benessere al lavoro, significa allora analizzare autonomamente l’organizzazione del lavoro, assumendo come centrali gli obiettivi che noi ci diamo e non quelli dell’azienda. Le aziende infatti hanno come obiettivo il profitto, ciò è garantito da una sempre maggiore produttività a costi possibilmente sempre inferiori. Questo per le aziende è molto chiaro, così come molto efficaci sono le strategie che esse mettono in campo per garantire i loro interessi. Mi pare invece che il Sindacato, non solo non abbia ben chiari gli interessi e gli obiettivi di chi rappresenta, ma che in una logica di subalternità alle aziende, cerchi di parare al meglio gli effetti negativi delle strategie aziendali sulle lavoratrici e sui lavoratori, assumendo come propri gli stessi obiettivi aziendali. Così, ad esempio, per spiegarmi meglio, l’obiettivo delle aziende di vincere sulle competitività di mercato diventa per il Sindacato un obiettivo nella misura in cui garantisce i posti di lavoro. L’assunzione di tale obiettivo, cioè della garanzia di posti di lavoro alle condizioni poste dalle aziende, sempre più produttività, qualità, tempi stretti, che implicano sempre maggior sfruttamento, non permette più di mettere al centro le condizioni di chi lavora. E’ necessario allora, elaborare autonomamente i nostri obiettivi, dando centralità, non solo alla garanzia dei posti di lavoro a qualsiasi costo e condizione, ma a posti di lavoro che garantiscono il benessere di chi lavora. Quindi, rimettere in discussione l’organizzazione dei lavoro, su progetti costruiti nel rapporto con le lavoratrici e lavoratori, la loro esperienza e il loro sapere. Si tratta quindi di ricostruire il rapporto con i lavoratori, la cui voce deve avere un peso sulle scelte del Sindacato. Questo per me significa essere sindacato. Non grandi parole o definizioni come “Sindacato dei diritti”, “nuove solidarietà” ecc. ecc., ma gesti concreti anche minimi, che danno conto di una volontà vera, di un miglioramento costruito nel rapporto con i lavoratori. M.B.

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