Maria Marangelli, responsabile della formazione per la FIOM Lombardia
“In azienda parlo sempre, continuamente sollecitata dalle mie compagne e dai miei compagni di lavoro, che mi considerano un punto di riferimento importante. Ma quando vengo qui, al sindacato, divento muta, ascolto, mi sembra di non aver niente da dire, da dare.”
Luciana, delegata alla Atro, interviene cosí alla nostra riunione a Sesto San Giovanni.
Parla del suo silenzio, ma il suo non lo è già piú. Si sente autorizzata nella presa dì parola perché è stato creato lo spazio che la rende possibile. Il nostro gruppo donne FIOM Lombardia ha cominciato a riflettere a fondo sulla pratica polifica, specialmente dopo l’ultimo congresso CGIL. Finito il congresso, la nostra lotta sull’art. 15 dello Statuto per la libertà di relazione politica tra donne, non si è affatto esaurita. lo voglio rendere visibile che c’è un altro modo di fare sindacato, e questo posso farlo se posso mostrare la mia pratica.
Dopo il congresso, mi è capitato di mettere in forse il mio continuare ad appartenere al gruppo donne, perché non mi riconoscevo e non mi riconosco píú in una pratica che rípropone messaggi ambigui celati dietro lafinzione della necessità del “pluralismo”. La relazione politica forte che ho con Maìa B., una delle due segretarie della FIOM Lombardia, è stata la condizione essenziale che ha permesso di mostrare nel gruppo un percorso di demistificazione dei luoghi comuni, e d’invenzione dì un senso nostro per quello che siamo e facciamo nel sìndacato, quotidianamente: mettere fine al dualismo – non piú: noi e la FIOM, bensí: noi, la FIOM perché la politica delle donne sia al centro dell’azione del sindacato.
1 silenzi di Luciana rispecchiano una realtà troppo diffusa nel rapporto tra lav oratrici -1 av oratori e il sindacato.
Nei confronti delle sindacaliste impegnate in una politica dì donne, lei nutre le aspettative che lavoratrici e lavoratori nutrono nei confronti del sindacato: vuole avere la capacità di mettere in parolapubblica e dare cosí rappresentazione alla sua realtà, una realtà femminile. E’ la necessità di avere un quadro entro cui capire la propria esperienza, insieme ai percorsi possibili dì cambiamento.
Ma com’è possibile che proprio il sindacato, nato per dare esistenza simbolica a chi lavora, finisca per essere il luogo che, in ultìma istanza, impedisce la presa di parola? Le innumerevoli mediazioni tutte inteme alla struttura, producono regole del gioco che rendono il dibattito sindacale comprensibile ai soli addetti aì lavori. Quante come Luciana dicono: “Non mi sento adeguata, non sono all’altezza”. Occupandomi di formazione sindacale, lo sento ripetere molto spesso. E’ come se, alla gente che lavora, venisse richiesto, per fare sindacato, di allontanarsi dalla loro esperienza; come se questa non valesse la pena di essere indagata.
Fare politica di donne nasce per me dal desiderio di essere presso di me e di sentirmi intera laddove sono. Non c’è cosa da cui ricevo un maggior senso di equilibrio e di forza che non sia il fare le cose che penso, e viceversa.
Molte sindacaliste, nel tentativo di non omologarsi e per mantenere una certa autorevolezza, si assumono la titolarità delle problematiche delle donne: di tutte le donne, per non essere “elitarie”, e con tutte le donne, per non essere “settarie”. Esse tendono a colmare i vuoti-silenzi sostituendosi all’universo femminile e parlando in nome e per conto di esso. Questo è quanto si legge spesso nei documenti firmati dalle responsabili dei Coordinamenti. Ma questo non fa nascere una misura femminile del lavoro e della contrattazione, capace di agire dentro all’azione stessa del sindacato e di cambiarla in positivo per uomini e donne.
Occuparsi di tutte le donne è impossibile se non al prezzo dì una forte perdita di contatto con le donne reali. Cosí come è impossibile fare politica con qualsiasi donna: è necessario
scegliersi sulla base di una pratica comune, se si vuole produrre modificazioni concrete.
L’illusione di lavorare per e con tutte le donne dà corpo ad un linguaggio che non tocca piú il cuore delle donne. Mi chiedo come parla il linguaggio della parità, che cosa si comunica nella disquisizione tra parità formale e sostanziale, tra parìtà di fatto o di opportunità, tra discriminazioni dirette o indirette. Che cosa si sedimenta, se non l’ordine simbolico esistente, l’infinita comparazione con l’esistenza maschile? Mi chiedo se quell’appellarsi all’autorità, delle leggì, fino ad anteporre gli strumenti agli obiettivi come pratica costante, non faccia capo a un bisogno di legittimazione. 0 è l’incapacità del desiderio femminile di autorizzarsi in un senso indipendente dal giudizio di valore maschile?
Mi diceva Graziana R. in una chiacchierata in cui le proponevo di sostituire la prospettiva delle pari opportunità con quella della libertà femminile: “Mi stai effettivamente proponendo un’altra chìave di lettura. Pensa che in fabbrica ero arrivata a un punto morto. Stavo cercando un uomo che avesse piú opportunità per poi dimostrare che esistono dìscriminazioni nei confronti delle donne”.
Se questo è il frutto che ha prodotto la politica “per le donne” nel sindacato, credo che noi sindacaliste dovremmo sentirci gravate di un forte senso di responsabilità nel cogliere gli effetti sul piano simbolico delle nostre pratiche.
Come riflettono le sindacaliste nel nostro gruppo sulla propria pratica? Ritengo significative le cose che per la prima volta Rosa riesce a dire: “Bisogna uscire dalla finzione! Troppo spesso ancora ci troviamo in riunioni tra donne ai vari livelli dell’organizzazione dove non scegliamo di essere, come per dovere. Voglio poter andare a riunionì che mi interessano e che mi aiutano a pensare la mia quotidianità. Sono stufa di riunioni tecniche per organizzare le assemblee dell’otto marzo o le riunioni sulla Legge 125 che non mi danno risposta a questo problema. Ho spesso la sensazione di avere le idee chiare ma illavoro quotidiano mi fa smarrire la mia centralità, da non capire dove sono io”. Il tentativo di Rosa è quindi la ricerca di una sua centralità senza la quale non si può parlare di politica per le donne con il rischio di trovarsi travolte dalla realtà, confuse, non in grado di esprimere una politica di donne. Ma quali sono le riunioni tecniche di cui parla Rosa? Sono quelle che alimentano quella pratica, molto diffusa nel sindacato, che io chiamo l’illusione quantitativa: quante assemblee e quante donne vi sono, quanti corsi di formazione, quanti accordi aziendali che richiamano le pari opportunità, quante donne nelle segreterie, quante in carriera, occupate, disoccupate, inoccupate, segregate nei settori tradizionali, quante entrano in quelle maschili, quante molestie sessuali, quanti coordinamenti e cosí via.
Questa pratica si muove lungo due direttrici: l’elencazione delle miserie femminili e per converso l’esibizione di forza numerica. Questa rappresentazione di forza è sí un veicolo di trasmissione, ma non di produzione prima diforza, che risiede nella qualità della relazione politica tra donne. Di conseguenza, è una pratica reversibile, che non ha efficacia duratura. Né favorisce la sedimentazione di simbolico femminile, perché trae alimento da un sapere dato i cui presupposti teorici sono scontati.
Il nostro bisogno non è iscritto nel quadro teorico dato. Noi abbiamo bisogno di produrre forza per una nostra libera esistenza e per trasmetterla alle altre che il nostro ruolo politico ci richiede di rappresentare. Questo significa, fra l’altro, riconoscere e distinguere i desideri originati nell’esperienza di lavoro sindacale a tempo pieno, e quelli che la
ricchezza e la durezza dell’esperienza delle lavoratrici ci propone tutti i giorni. E’ certamente la strada più impegnativa, che ci chiede di rifondare un nostro quadro di realtà senza affidarci alla rappresentazione data, partendo dalla concretezza di fatti e cose, e dalle parole di uso comune con cui questa realtà è nominata. Questo è il modo in cui oggi ha senso per me prendere la parola: sottrarmi alle mistificazioni e andare all’essenziale.