Riflessioni sulla crisi della funzione pubblica
di Maria Bucci e Chiara Eusebio
Un tecnico comunale dice : “Oggi non ho fatto niente perché non ho scritto nemmeno una delibera”. Alla domanda “come hai passato il tempo?” risponde: “Ho parlato con sei cittadini che avevano problemi e li ho risolti tutti senza passare per la burocrazia”. Gli rispondiamo che questo è più importante delle delibere e che la misura e la qualità del lavoro sono esattamente per noi quello che lui ha chiamato “non far niente”. Questo episodio è esemplare di come pensano di lavorare (o di non lavorare) molti e molte nella pubblica amministrazione. Far conto sulla propria responsabilità e sulle proprie competenze è molto efficacie perché è un modo di lavorare che sposta l’attenzione sui cittadini e che aggira le innumerevoli regole burocratiche per arrivare a dare risposte. Esiste una fitta rete di rapporti tra dipendenti che fa del lavoro informale una pratica quotidiana in cui il sapere viene giocato stando alla relazione con l’utente più che all’organizzazione alla burocrazia, ecc. Il lavorare informalmente testimonia della impossibilità di ingabbiare creatività, vivacità, desiderio di esserci che non trova canali nelle regole formali e che esplode nel fare quotidiano . Sempre più la misura del proprio lavoro sta nello scambio tra il bisogno reale dell’utente e l’obbligo a fornire una risposta.
Questo modo relazionale di lavorare viene tradotto nel gergo dei riformatori della pubblica amministrazione come ” orientamento al risultato, alla produttività, all’efficacia”, spacciandola come una grande invenzione di ingegneria organizzativa, mentre invece c’è l’imbroglio di non dire dove e da chi l’hanno appreso. I tentativi di riforma ( le leggi Bassanini per esempio) intuiscono la necessità della vicinanza tra le figure istituzionali e l’utenza per un lavorare più aperto alla relazionalità. Bassanini sembra essere così più avanti di quei lavoratori e di quelle lavoratrici del settore pubblico che pensano che il lavoro fatto informalmente ma relazionalmente sia “niente”. Ma il riformatore, in realtà invece di partire dal “vivo” della pubblica amministrazione, e cioè dagli impiegati e impiegate dai funzionari e funzionarie che praticano già le relazioni per poter eseguire il loro lavoro al meglio, scommette sulla dirigenza che è notoriamente la più incompetente e burocratica.
Sia il tecnico comunale che il legislatore sono in presenza di un cambiamento che è già in atto ma entrambi lo immiseriscono: il primo pensando che il suo è un modo personale di lavorare che rimane un “far niente” se non è racchiuso nei mansionari e nelle prescrizioni, l’altro rimuovendo i soggetti in carne ed ossa che già agiscono in relazione ed occultando così la fonte dell’ispirazione della riforma. Per la nostra esperienza, possiamo dire che sono più donne che uomini a lavorare nella pubblica amministrazione facendo conto sull’efficienza della relazione, di cui custodiscono il sapere. Gli esperti chiamati ad addestrare i “nuovi” dipendenti pubblici non si sporcano le mani andando a vedere cosa succede nelle singole realtà; in mano a loro il lavorare informalmente si trasforma in qualcosa d’altro. L’abbiamo verificato con un dirigente pubblico che ha elaborato un bel piano di “reingegnerizzazione” dell’ufficio con tanto di dati e statistiche. Un piano che non riteneva prioritari il sapere e le motivazioni di donne e uomini che si rapportano quotidianamente ai cittadini. In precedenza, allo stesso dirigente erano state imposte modifiche all’organizzazione del lavoro pensate dalle lavoratrici e dai lavoratori di un tribunale e guidate di fatto dalla delegata sindacale attraverso relazioni e anche conflitti.
Questa delegata ha mostrato competenze riconosciute da molti colleghi: il suo lavoro ha mostrato ad esempio che la fiducia è prioritaria nel rapporto tra magistrato ed assistente , rendendo questo rapporto riferimento anche per altri servizi. Ma il dirigente non riconosce il valore di questa donna e si ostina a elaborare progetti che sovrappongono metodi, regole, meccanismi tecnici alla realtà viva del lavoro.
La misura di questa donna è una misura già pubblica ma non ancora egemone, non apre conflitti radicali che contrasterebbero i “furti” silenziosi del riformatore.
Perché le molte donne e quegli uomini che lavorano relazionalmente non aprono questi conflitti? Alcuni uomini che partecipano a un corso di formazione sindacale organizzato da noi a Pescara, hanno dato una risposta. Per loro le regole sono rassicuranti e danno la certezza che qualcun altro si prenda la responsabilità, li proteggono dalla inadeguatezza che sentono rispetto alla complessità dei problemi. Hanno paura di fare o di ricevere del male se lasciati liberi da vincoli e da regole. Hanno sfiducia in se stessi e nei confronti dei propri simili. Portano avanti continue rivendicazioni di più riconoscimento che si esprimono con richieste di una qualifica in più, un po’ si salario in più, ma loro stessi non credono più alle grandi riforme.
Molte donne invece vedono nel conflitto la negazione del desiderio di armonia e scadono in un buonismo che porta con sé la perdita di memoria delle competenze relazionali. Non si è mai abbastanza pronte al conflitto, manca sempre qualcosa, le alleanze possibili e mobili vengono vissute come tradimenti nei confronti di una specie di dovere di coerenza. Quando una donna apre un varco in un posto di lavoro si lamenta della fatica di doverne gestire le conseguenze e di vivere come dolorosi i tagli operati.
Nel sindacato dove noi lavoriamo, dove agisce la relazione tra noi due, la pratica politica diretta è egemone perché molti delegati e delegate ne hanno visto l’efficacia e ne hanno tratto vantaggio. L’autorità che ci viene riconosciuta ci consente di non riutilizzare con passaggi democratici il fare sindacato; possiamo sottrarci a verifiche numeriche e di immagine nell’organizzazione. Veniamo in contatto con molti dipendenti pubblici, ma privilegiamo l’interlocuzione con chi investe sul senso del proprio lavoro. Ma tutto questo l’abbiamo guadagnato non sottraendoci a un conflitto molto pesante con un modo di pensare il sindacato secondo la rappresentanza e la democrazia. Abbiamo vinto il conflitto e una di noi due, Maria, ora è segretaria della Funzione Pubblica CGIL di Pescara.