Rinalda Carati presso la Filtea (Federazione italiana lavoratrici tessili e abbigliamento), Camera del lavoro di Brescia, presenti operaie, delegate e sindacaliste.
ROSA: L’interrogativo mi sembra importantissimo, e lo sto pensando dentro di me. A casa mia di comunismo si parlava. Era qualcosa di molto importante, ma molto lontano. A volte mio padre parlava con i suoi amici, e io ascoltavo magari dall’altra stanza. Al comunismo mi sono avvicinata quando sono entrata in fabbrica. Era il ’67’68, allora si discuteva di politica. Abbiamo formato un gruppo giovanile di base, come punto di riferimento avevamo Lotta Continua. Andavamo giù in cantina (ride), ma era bello trovarsi. Quei momenti mi hanno fatto crescere, però non riuscivo a trasmettere le cose capite, in fabbrica. Sentivo questo distacco tra quello che noi dicevamo, perché piú che il fare era il dire, con la mia vita dentro la fabbrica. In questo mi ha aiutato invece il sindacato che parte dalla realtà della fabbrica e ti dà la possibilità di riunirti lí. Ma a me è servito sapere che in fabbrica venivo sfruttata. Il capitalismo non può essere una società che rispetta la persona, dove puoi far valere la tua dignità, anche se molti, anche del mio antico gruppo, oggi considerano il capitalismo come un fatto quasi naturale. Allora lo dico: il comunismo è un’idea, è una teoria di come si vorrebbe il rapporto tra le persone. Non so individuare però il comunismo come una pratica politica: ho avuto difficoltà a discutere con i lavoratori sui concetti che avevo acquisito, eppure non ero mica solo io sfruttata in fabbrica. Per me era diventato un fatto di coscienza sapere perché avveniva lo sfruttamento, e per gli altri no? Si può dire che c’è una pratica quando accade di comunicare, di trasmettere: questo non c’è stato. Le cose sono maturate sul piano concreto della fabbrica, non sull’idea. Quando io parlavo con i lavoratori di Marx, di che cos’è il plusvalore, mi guardavano e pensavano: cosa ci viene a raccontare questa. La cosa che mi ha fatto riflettere molto è che in quegli anni si voleva far credere che non c’era differenza tra uomini e donne. Allora penso che è chiaro perché poi, nella
fabbrica, non riuscivo a cogliere le cose. Non solo perché erano tutte donne in fabbrica, ma quello che io acquisivo nel gruppo era solo ciò che mi trasmettevano, ma io non trasmettevo niente di me. Sapevo che stavo male ma non sapevo perché. Mi ha fatto crescere il tenere rapporti con le compagne. E’ questo che mi ha fatto mantenere viva la convinzione che questo non è l’unico mondo possibile. Quando è caduto’il muro di Berlino, ed è successo tutto quel che è successo in Russia e il Pci ha deciso di trasformarsi, si può dire che tutto mi sia crollato addosso: non perché poi non sia più riuscita a tiranni su, ma è stata una cosa molto sbagliata. lo criticavo la società come è concepita in Russia, ma non era tutta, negativa, come del resto non riesco a dire che è tutto negativo, neanche il capitalismo.
ORIELLA: Mio padre era profondamente anticomunista, i comunisti erano i diavoli. Mio padre era anche quello che faceva differenze tra me e mio fratello, allora io sin da piccola ho sempre detto che da grande avrei fatto la comunista. Mia madre ha dato sostanza a questo, perché in alcuni messaggi molto elementari mi ha aperto una possibilità diversa: per esempio quando andavo a scuola la maestra diceva che ero molto brava a scrivere, ma poi il voto migliore lo dava alla figlia del dottore, del sindaco, del dentista, e mia madre mi diceva: vedi, non è giusto, in questo mondo uno non vale per quello che è e che fa, ma per i soldi che ha. lo non sono mai riuscita a entrare in un gruppo, Oggi ritenendomi comunista, penso che debba assolutamente perdersi l’idea che entrando in un gruppo si deve seguire la linea. Anche per me vale la cosa di essermi misurata concretamente all’interno della fabbrica: l’oggetto della discussione negli anni ’70 era il lavoro, come modificarlo concretamente, come stare meglio in fabbrica. Del comunismo non voglio pìú il pensare gli uomini e le donne divisi per classi, cioè il fatto di contare solo come massa, per cui il gesto individuale non ha valore, non conta nulla. Questo modo di pensare ha fatto disastri: anche oggi la lavoratrice in fabbrica mi dice: ma gli altri dove sono? ma il sindacato per me non fa nulla? Sbaglia: il concetto della delega parte da lí, dal mettere al centro questa idea di
massa, per cui tu conti se sei massa e il tuo gesto individuale non determina nulla. La mia maggior fatica nel lavoro che faccio è trasmettere che anche un gesto individuale concreto può determinare uno spostamento, una modifica e che comunque anche un percorso collettivo dipende dal gesto individuale.
MILENA: Anch’io come Oriella vengo da una famiglia anticomunista, molto religiosa: quindi il comunismo l’ho conosciuto molto tardi. Ho iniziato a fare la delegata in fabbrica, per questo bisogno di modificare qualcosa per me e per quelle come me: il discorso padrone/operaia doveva essere modificato, ognuno doveva avere una propria dignità. Questo è un desiderio che ho sentito sempre. Piano piano mi sono avvicinata, e per un certo periodo ho anche avuto la tessera del Pci, pensavo: condivido gli ideali e gli obiettivi. Poi invece mi sono sentita tirare dentro, c’era la richiesta di seguire la linea. Poi c’è stato il cambiamento di nome, e ho deciso di non fare piú nessuna tessera. Non ho condannato il cambiamento, ma quasi quasi mi sembrava che si lasciasse perdere la realtà, e quello per cui si era lottato fino a poco tempo prima. Adesso mi sento piú libera. La cosa che del comunismo mi ha sempre dato fast-idio è quell’idea di superiorità, di poca disponibilità verso chi è diverso da te, chi non ha la tua stessa idea. Vorrei piú umiltà nell’atteggiamento, ci deve essere un’apertura.
SONIA: Anch’io devo far riferimento alla famiglia, mio padre era della Federbraccianti, un capolega, iscritto alla Cgil. Sono entrata in fabbrica, e la prima cosa che mio padre mi ha detto è stata: se entri lí, guarda che lí c’è la Cgil, devi fare la tessera. Quindi io -ho fatto la tessera della Cgil, poi averla tenuta è stata una mia scelta ma all’inizio è stato cosí. La tessera del Pci, che era quasi d’obbligo, l’ho pagata qualche volta, poi a un certo momento ho deciso che non la pagavo piú: scelta precisa, perché non avevo scelto lo liberamente di pagarla. E non l’ho piú fatta: l’unica cosa in cui io mi ritrovavo in quel partito erano le feste dell’Unità, là c’era la gente, ci si vedeva, ci si parlava, ci si divertiva. Gli altri ambienti di ritrovo dei comunisti mi mettevano a disagio per
ché parlavano di cose che erano al di fuori dei miei problemi, oppure mi limitavo perché credevo di essere fuori io, e mi sentivo estranea. Invece mi sono sentita a mio agio nell’ambiente della fabbrica. Insieme alle lavoratrici ragionavo sui vari problemi e ci si sentiva di muoversi per migliorare le condizioni, vedevi lí le cose che eventualmente cambiavano. Credo che il disagio in sezione ci fosse perché non mi hanno aiutato a portare lí le cose che mi servivano per la fabbrica: quello non era un ambiente che portasse avanti le mie condizioni di fabbrica, e la mia vita era la fabbrica. Non era nient’altro. Anche la fase del cambio dei nome non mi ha appassionata per niente. Secondo me non era quello il problema.
ROSA: Mi è venuta in mente una cosa: quello che si è perso in questi anni non è- solo la critica al capitalismo: una volta la classe operaia nella società era al centro, aveva un peso. Quando sono andata a lavorare in fabbrica mi sentivo importante. Sentivo che significava qualcosa, questo adesso è sparito. 1 giovani, l’ultima cosa che vogliono fare è andare a lavorare in fabbrica, questo dipende dal fatto che si è persa la centralità, e quindi è come se non avesse valore. 1 piú dicono che gli spiacerebbe se i figli volessero andare in fabbrica, quindi c’è svalorizzazione anche agli occhi di chi ci vive.
MAFI: Quando sono entrata in fabbrica avevamo due delegate. Poi una si è dimessa e mi ha detto: tu sei piú brava, vai avanti tu. Tutte noi lavoratrici eravamo molto legate, c’era molta solidarietà. Poi sono andata in un’altra fabbrica, dove c’era un’organizzazione del lavoro molto rigida, ed è stato uno choc tremendo. Lo soffro ancora oggi. Prima pensavo che fosse il sindacato che doveva tutelarci poi ho capito che sono io che devo definire alcune cose, la realtà della fabbrica. Però mi è spiaciuto quando il Pci ha deciso di cambiare nome. Prima avevo la tessera, oggi non l’ho più. Il legame che sento con il comunismo, lo riconduco piú che altro a una idea di giustizia: la classe operaia nella società è quella che non conta niente, non conta niente neanche nella fabbrica, e c’è bisogno che anche questa gente abbia diritto di parola.