ANTOLOGIE In «Nate a lavorare» trentanove scrittrici raccontano la fatica femminile nella storia e oggi, tra esclusioni, disconoscimenti e discriminazioni
Adele Cambria
«Con le due mani, nati a lavorare». A questo verso di Edoardo Sanguineti, tratto dalla Ballata del Lavoro del poeta genovese, Maria Jatosti, curatrice,insieme a Rosetta Berardi, del libro Nate a lavorare (Edizioni del Girasole, pp. 287, euro 18,00), si riferisce, nella sua introduzione, per spiegarne il titolo ed il tema: il volumetto colleziona infatti, sul tema del lavoro femminile, i racconti inediti di trentanove scrittrici italiane. Ma la prima osservazione, impertinente e/o pedante, che m’è venuta da fare, a proposito del titolo, e della sua «legittimazione», (da poeta a poeta, essendo infatti Maria Jatosti una poeta), è che la condanna biblica al lavoro fu indirizzata ad Adamo e non ad Eva: «Con il sudore del tuo volto, mangerai il pane», dice infatti il Signore Iddìo ad Adamo. Ed invece ad Eva: «Moltiplicherò i tuoi dolori e le tue gravidanze, con dolore partorirai…». (O anche: non-partorirai se non con dolore. Versione biblica aggiornata alla proibizione, in Italia, della pillola RU486).
Riflessioni irriverenti, ma che proprio nella scrittura e nei contenuti dei 39 racconti mi sembra trovino conferma. Voglio dire: qui le autrici svelano, forse inconsapevolmente, quanto risulti ambigua e quasi «innaturale» la parola «lavoro» coniugata al femminile. Il lavoro «naturale» delle donne, anzi, per citare Carlo Marx, «il lavoro spontaneo delle donne e dei fanciulli», all’interno delle quattro mura domestiche, è stato ridefinito «accudimento» o «produzione e riproduzione della specie» dal femminismo degli Anni Settanta: che ne ha svelato, per la prima volta, il valore economico. In quanto al lavoro femminile fuori casa, a lungo è stato considerato fatica bruta, servaggio, degradazione, assimilazione al maschile ai suoi livelli più bassi. (Di nuovo Marx, che riporta senza commenti i giudizi dei Blue Books inglesi a proposito del lavoro delle donne in miniera: «È avvilente per il loro sesso… Portano vestiti da uomo… Ogni pudore è soppresso…»). E segnalo subito, nel libro curato da Jatosti e Berardi, La ballata di Francesca, l’uomo-donna, di cui è autrice Maria Attanasio. Sono versi di violenta bellezza, scritti in dialetto siciliano e tradotti dalle curatrici: «Alberi e vigne, carrubi e stoppie/Nella campagna nera che non dorme… Francesca chiama dal fondo del mare della morte/Non sono donna di oro e di sete/sono donna di alberi ed agavi/Non ho soldi, non ho da mangiare/Mi travesto da uomo per campare».
Ma le trentanove autrici che sono state chiamate a raccontare il lavoro femminile – il proprio, quello delle altre… i soggetti qui si contaminano felicemente, e nel testo di Biancamaria Frabotta, Il complesso della sguattera, addirittura si sdoppiano, illustrando la schizofrenia della casalinga-insegnante/pendolare – sono delle privilegiate: sia pure «minimali». Infatti,oltre al loro lavoro «primordiale» – dove però si introduce a volte la delega, almeno nella cura degli anziani, con l’affiorare della figura della «badante» etnicamente straniera e quindi nuova, ma tuttavia, nelle mansioni, antica – tutte lasciano intravedere, all’interno del proprio quotidiano, un lavoro di routine: che svaria dal precariato alla scuola, e, in un unico caso, ad un percorso da donna in carriera. E poi c’è il terzo lavoro, ed qui che si annida il «privilegio»: il terzo lavoro, perseguito con amore, ambìto, inseguito con tenacia e devozione, è la scrittura. In un solo caso, nel racconto intitolato Fiore di cactus di Anna Maria Pugliese, è principalmente l’arte, intesa come arte visiva, pittura. Ma il tramite per dirlo è ovviamente la parola, e la stessa cosa accade con il bel racconto L’acrobata, all’attrice Patrizia Zappa-Mulas: che del resto nell’appendice destinata a fornire Notizie biografiche delle autrici, si definisce «scrittrice e interprete, che vive a Roma dividendosi tra pagina scritta e palcoscenico».
Insomma, per tutte o quasi, il lavoro «creativo» – uso un aggettivo che nacque nel movimento femminista, ma è stato ormai colonizzato dalla pubblicità – è un lavoro a mezzo servizio. O, addirittura, se così si potesse dire, «un lavoro a un quarto di servizio».
Fin qui l’analisi sociologica dei contenuti del libro: che si potrebbe anche sottotitolare, in quest’ottica, «Vite di donne a mezzo servizio». Almeno a proposito di quei racconti, e sono la gran parte, la cui connotazione si indovina autobiografica. (E ricordiamoci che alla scrittura autobiografica è stata data dignità letteraria proprio dal e nel femminismo di fine Novecento).
Ma c’è chi si maschera, narrando, ed assume per sé il «maschile»: se non come protagonista del racconto, come osservatore/interlocutore ed infine ritrattista di una peraltro magnifica figura di donna. È il caso di Cristina Annino, che si definisce «scrittrice e pittrice», e dipinge, questa volta con le parole, una sorta di Grande Madre della guerra civile spagnola: Henriette, da lei incontrata (spiega in una nota al testo) alla fine degli Anni Settanta. Henriette, ex partigiana, aveva partecipato insieme al marito alla fondazione del partito comunista francese. L’autrice del racconto la raffigura vecchissima e vigile nella sua villa settecentesca di Clermont Ferrand, dove aveva cresciuto, protetto, fatto studiare, un manipolo di orfani di una Rivoluzione fallita – la guerra di Spagna – e via via nei decenni era andata avanti accogliendo altri orfani di altre catastrofi, di altre guerre endemiche del nostro pianeta. Bellissimo racconto – si intitola Una magnifica giovinezza – con quel refrain della vecchia signora comunista: «Il faut batir, il faut batir», bisogna costruire…
Ma perché Cristina Annino s’è mascherata nei panni di un giovanotto italiano per consegnare Henriette a chi leggerà questo libro? Avevo chiesto a Maria Jatosti di darmi il suo numero di telefono. Ma non l’ho chiamata. Un racconto è un racconto è un racconto.
Ho amato molto anche Mariana e la vecchia Giulia di Mariella Bettarini. È la descrizione del legame che si crea tra Mariana, la badante moldava – «quanta cura, quanta solerzia… quanto “fare” antico e anticamente “femminile”… – e «la vecchia Giulia, novantenne, debole ma ancor lucida, grande lavoratrice anche lei, in casa, tanti anni fa, sartoria femminile…». Tutt’altro mood, post-moderno, in Mobbing-Dick, della giovane Tiziana Colusso: dove il mobbing impiegatizio e tanto più virulento nel precariato è assunto come il leggendario «personaggio» di Melville, la balena bianca imprendibile, qui definita «l’invisibile balena della vessazione».
Con questo libro, Nate a lavorare, le curatrici e l’editore hanno inteso celebrare il centenario di tre avvenimenti tutt’e tre datati 1906. E sono: la nascita della Cgil (da cui partì «anche» la lotta organizzata per l’emancipazione della donna attraverso il lavoro), la pubblicazione del primo romanzo «femminista» italiano, Una donna di Sibilla Aleramo e l’appello che oggi si definirebbe «provocatorio» di Maria Montessori a tutte le donne italiane, ancora prive del diritto di voto, perché si iscrivessero egualmente nelle liste elettorali.