Negli Usa e in Europa il governo delle imprese e il sistema politico sono stati accomunati dalla stessa logica «inclusiva» che ha però accresciuto il potere delle élite politiche e manageriali. Un sentiero di lettura sulla crisi della democrazia a partire dall’implosione del modello imprenditoriale della new economy
Christian Marazzi
Gli scandali che circondano la gestione delle grandi società quotate in borsa a partire dal 2000 non sono incidenti di percorso di un capitalismo dominato dalla finanza di mercato. Sono, al contrario, la manifestazione evidente di contraddizioni che sono al cuore stesso di un regime di crescita finanziarizzato. E’ questa la tesi che Michel Aglietta e Antoine Rebérioux sviluppano in Dérives du capitalisme financier (Ed. Albin Michel), un libro che ha origine in una ricerca collettiva per conto del «Commissariato generale del Piano francese», iniziata nel 1999 quando imperversava l’ideologia della new economy, e diffuso per la prima volta nel 2001, un mese prima dell’esplosione dello scandalo Enron. Si tratta di uno studio rigoroso in cui gli autori, oltre a smontare la dottrina della sovranità azionariale (shareholder value) e i suoi effetti perversi sulla governance d’impresa, propongono una serie di riforme di democrazia economica «per rimettere il capitalismo contemporaneo sulla via del progresso sociale». Nell’analisi del capitalismo finanziario contemporaneo centrale è la crisi della sovranità degli azionisti come espressione dell’impossibilità di esercitare il controllo democratico dall’esterno dei processi produttivi. La liquidità dei mercati finanziari e lo sviluppo del risparmio gestito dai Fondi pensione e d’investimento con l’unica preoccupazione di massimizzare la rendita finanziaria, rendono del tutto illusorio il controllo delle imprese da parte degli azionisti. Questa contraddizione, tale per cui i proprietari di capitale (gli azionisti) non controllano le imprese in cui hanno investito la loro liquidità, e quindi lasciano ampi margini di manovra ai manager dirigenti, fu descritta per la prima volta da Berle e Means in The Modern Corporation and Private Property, pubblicato nel 1932.
Un’ideologia partecipativa
Aglietta e Rebérioux attualizzano l’analisi di Berle e Means alla luce delle trasformazioni dei modi di produrre che hanno fatto dell’impresa il luogo privilegiato della cooperazione lavorativa. L’impresa postfordista, nelle sue dimensioni tecnologiche, finanziarie, cognitive e organizzative, è per sua natura collettiva, «partenariale», e quindi non è un oggetto di diritti di proprietà. Ne consegue che centrale nella governance d’impresa non è più il controllo, bensì la formazione di un interesse collettivo che si esprime in una finalità riconosciuta e accettata dai soggetti della cooperazione produttiva. Questo esito democratico dovrebbe tradursi ugualmente nella gestione del risparmio collettivo, in modo da ridurre l’instabilità macro-finanziaria che sottende il capitalismo contemporaneo.
L’idea della democrazia economica come superamento delle contraddizioni poste in essere dalla logica della proprietà privata e del controllo esterno da parte degli azionisti dei processi di creazione della ricchezza sociale, merita di essere approfondita.
L’instabilità e la fragilità che minano alla radice la dottrina della «sovranità azionariale» e il concetto di democrazia su cui poggia, sono strutturali: «Il principio costitutivo di questa dottrina è di coniugare liquidità e controllo. Ora, la liquidità suppone precisamente una presa di distanza. E’ sinonimo di esteriorità». Affinché la liquidità possa esistere è necessario che la proprietà non abbia alcuna relazione con il suo proprietario. Niente sarebbe liquido se il valore assegnato dipendesse dalla capacità, dallo sforzo o dalla volontà del proprietario. «Il marmo cesserebbe di essere facilmente vendibile – scrive Berle nel 1963 – se il suo valore dipendesse dalla sua relazione con lo scultore».
Ne consegue che più si privilegia, come nel capitalismo contemporaneo, l’interesse degli azionisti, più la gestione delle imprese deve essere fatta nel nome di una esteriorità (il mercato finanziario). Questo processo contribuisce a deresponsabilizzare il potere manageriale, col risultato, tra altri, che il rapporto tra la remunerazione media dei più alti dirigenti delle grandi corporation americane rispetto al salario operaio medio è passato da 85 nel 1990 a 400 nel 2004. L’inefficacia del controllo azionariale esterno (che è esterno in virtù della natura liquida del capitale) è duplice: rafforza l’autoreferenzialità dei mercati finanziari (bolla speculativa), destabilizza la cooperazione delle forze produttive (ristrutturazioni, fusioni, delocalizzazioni).
Il salariato che è contemporaneamente dentro i processi produttivi, come operaio, e fuori, come risparmiatore, ben esemplifica la contraddizione del capitalismo finaziario: come risparmiatore, i cui fondi pensione sono investiti in borsa, ha interesse al miglior rendimento dei suoi investimenti, ma come operaio subisce direttamente gli effetti della finanziarizzazione, mettendo a repentaglio il suo salario e il suo posto di lavoro. In questo gioco autodistruttivo tra dentro e fuori, alla fine gli unici a guadagnarci sono i manager, quella «aristocrazia venale» indifferente sia alla sorte dei lavoratori sia, in ultima istanza, a quella degli azionisti.
Le proposte di democrazia economica avanzate da Aglietta e Rebérioux, nella forma di una effettiva rappresentanza dei salariati nei consigli d’amministrazione (sul modello svedese o tedesco, in cui i salariati hanno diritti equivalenti a quelli degli azionisti), e nella forma di piani di risparmio salariale e di risparmio-pensione gestiti politicamente nell’interesse della collettività (socializzazione dei rischi), hanno quale comun denominatore l’obiettivo di interiorizzare il controllo, di superare quella esteriorità della «proprietà liquida» che è la causa principale della crisi del capitalismo finanziario. L’idea è quella di una democrazia inclusiva basata sul concetto di prorietà sociale del capitale emergente dalla natura cooperativa e collettiva dei processi di creazione della ricchezza.
Pratiche di relazione
Per quanto condivisibile sul piano logico e formale, vi è più di un motivo per essere scettici di fronte a questa concezione economica della democrazia. Le contraddizioni del capitalismo finanziario vengono gestite per estensione dei medesimi processi che hanno portato alla crisi della new economy. Si pensi, ad esempio, ai processi di outsourcing planetario che hanno fatto seguito alla crisi della new economy, processi tendenti appunto a includere spazi di valorizzazione relativamente esterni, con effetti devastanti per il salario e l’occupazione nelle economie occidentali, per non parlare delle derive antidemocratiche, come la guerra, che di questi processi sono il corollario.
La domanda che ci poniamo è se sia ancora possibile, o comunque sufficiente, ragionare sulla democrazia utilizzando la categoria politica dell’inclusione, o se invece non sia preferibile partire dalle forme di soggettività che questo stesso capitalismo ha determinato. Da questo punto di vista i comportamenti soggettivi delle donne nel sistema economico postfordista, che ha fatto di tutto per interiorizzare e mettere a valore le competenze comunicativo-relazionali femminili maturate nella sfera riproduttiva, permettono di sviluppare un concetto di democrazia basato sulla differenza, piuttosto che sull’inclusione.
«Il problema fastidioso per il business non è trovare talenti femminili, ma trattenerli», scrive Laura D’Andrea Tyson, decano della London Business School (Business Week, 28 marzo). Il problema di come «trattenere la differenza» all’interno di un universo produttivo, in cui il tasso di partecipazione femminile al mercato del lavoro tende a superare quello maschile, è oggetto di un’indagine apparsa sul numero di marzo della Harvard Business Review da cui emerge come le donne abbiano un rapporto col lavoro decisamente diverso da quello degli uomini. La differenza è particolarmente marcata tra le donne con qualifiche professionali elevate, e riguarda il rapporto delle donne col potere, con la leadership, con la carriera. Molte donne interrompono la loro attività, mettendo a repentaglio carriera e reddito, non solo per accudire i figli, ma sempre di più per autovalorizzarsi, per combattere la noia e la frustrazione del lavoro con la riappropriazione di spazi e di tempo per sé («It’s boring at the top for female executives», titolava un recente articolo del New York Times).
La questione non è risolvibile con il solo aumento della rappresentanza delle donne ai vertici del mondo economico (che le vede comunque rappresentate per un solo 2% nelle prime 500 compagnie americane). E non è neppure circoscrivibile alle sole donne altamente qualificate, come dimostrano due preziose ricerche apparse in Italia (Le parole per farlo. Donne al lavoro nel postfordsimo, a cura di Adriana Nannicini, DeriveApprodi; Parole che le donne usano nel mondo del lavoro oggi, Quaderni di Via Dogana, il manifesto del 23/05/05).
Il lavoro della differenza
Si tratta, piuttosto, del «lavoro della differenza», di quello scarto, o «eccedenza», irriducibile alla sola dimensione economica e alle misure di «democrazia inclusiva» che già abbiamo visto all’opera nella fase ascendente della new economy con l’uso delle stock options per trattenere competenze e creatività della forza-lavoro. Peter Druker, in Il management della società prossima ventura (Etas) ricorda che «le aziende che si sono spinte maggiormente in questa direzione hanno avuto il turnover più elevato. E’ incredibile quanto sono numerosi gli ex dipendenti Microsoft che mi è capitato di incontrare. Gli ex dipendenti della Microsoft odiano l’azienda, perché si rendono conto che essa offrì loro solo del denaro. Inoltre si rendono conto che il sistema di valori aziendale è unicamente finanziario, mentre essi si considerano professionisti, con un sistema di valori diverso».
L’ultimo libro di Richard Florida, The Flight of the Creative Class. The New Global Competition for Talent (HarperBusiness, 2005), si occupa, non a caso, della fuga dei knowledge workers americani verso altri paesi, una scelta difficilmente spiegabile sulla base dei soli differenziali salariali. La democrazia che andiamo cercando deve tener conto di quell’attivo sottrarsi, di quella resistenza della differenza, di quella esteriorità vitale, capace di innovazione di forme di vita e di valorizzazione. La democrazia è lo spazio del «dentro e fuori» abitato dalla pluralità di differenze.