Manuela Cartosio
“Ci sono in giro più importatori d’infermieri nel Nord Italia che scafisti nel canale d’Otranto e di Sicilia”. La citazione, presa dal forum www.nursesarea.it, è un buon attacco per parlare del boom degli infermieri stranieri al lavoro in Italia. Il boom è stato innescato dalla penuria di infermieri professionali autoctoni: le università ne sfornano 6 mila l’anno, la metà di quanti ne servono per coprire il turn over fisiologico. E’ stato reso possibile da corsie preferenziali – ingressi “fuori quota” e rapido riconoscimento dei titoli – a riprova che quando gli immigrati ci servono diventiamo tanto buoni e persino la Bossi-Fini allarga le maglie. Last but not least, è stato incentivato dai processi di privatizzazione e di esternalizzazione in atto in una sanità pubblica sempre più aziendalizzata, dalla corsa al minor costo del lavoro possibile. L’ultimo fattore, combinato con il blocco delle assunzioni e la discriminazione istituzionale (senza la cittadinanza italiana non si entra nei ruoli della pubblica amministrazione), ha consegnato il reclutamento e l’importazione di infermieri (in prevalenza donne) alle mani rapaci di agenzie e cooperative. Con gli abusi, le vessazioni, i ricatti che ne conseguono, agevolati dal divieto per chi è importato da una cooperativa di cambiare padrone una volta arrivato in Italia. Il divieto è caduto un anno fa, ma gli “scafisti” hanno tutto l’interesse che rumene, polacche, moldave non lo sappiano.
Il reclutatore ciociaro
Nel panorama della lucrosa attività spicca Luca Giovannone, psicologo ciociaro, amico di Storace, mancato presidente del Toro (inteso come squadra di calcio), titolare della cooperativa “Vita serena” che recluta nei paesi dell’Est il personale da impiegare negli appalti vinti in mezza Italia. Il personaggio attira l’attenzione delle cronache per ragioni non solo pittoresche. A Prato e a Parma “Vita serena” è incorsa in “piccoli incidenti di percorso” (la definizione è di Giovannone) che le sono costate la revoca degli appalti. Il 12 dicembre a Torino l’infermiere Abdel Rahim Belgaid, entrato nella sede di “Vita serena” per reclamare pagamenti arretrati, ne è uscito con la spina dorsale fratturata: passerà il resto della vita su una sedia a rotelle. “Voleva aggredirmi, ha perso l’equilibrio e ha battuto sullo spigolo di un tavolo”, sostiene Michele Arcuri, responsabile della cooperativa a Torino. Versione talmente incredibile che persino lo spregiudicato Giovannone è stato costretto a esonerare Arcuri dall’incarico.
Un’accurata ricerca dell’Ires Cgil sugli infermieri stranieri – realizzata da Maria Adriana Bernardotti per il IV Rapporto sull’immigrazione che sarà diffuso al congresso nazionale – ha il merito di fare il punto sul fenomeno e il coraggio di spostare l’asse visuale. Al centro non ci sono le malefatte dei boss delle cooperative, ma il difficile rapporto tra infermieri italiani e stranieri e l’inadeguatezza del sindacato di fronte alla novità.
Si stima che gli infermieri professionali “non nati in Italia” siano 20 mila. Pochi rispetto ai 326 mila autoctoni, costituiscono però il 10% degli iscritti all’albo professionale Ipasvi (Infermieri professionali, assistenti sanitari, vigilatrici d’infanzia). All’albo di Modena, dove funziona un Help center a cui si rivolgono gli ospedali in cerca di infermieri, gli iscritti stranieri sono addirittura il 32%. La grossa fetta di donne tra gli stranieri supera la già alta percentuale femminile (80%) di casa nostra: dove c’è lavoro di cura, lì ci sono le donne. Le infermiere straniere sono l’estensione relativamente “privilegiata” della badanti, il mestiere in assoluto più segregato in Italia. Il differenziale salariale tra infermieri stranieri ed italiani è almeno del 25%, il gap dei diritti è ancor più ampio. L’obiettivo di “far più soldi possibile” prima di tornare in patria incentiva l’autosfruttamento. La disponibilità a fare più turni, la scarsa conoscenza dell’italiano, la bassa o diversa professionalità degli stranieri scatena nei “colleghi” italiani insofferenza e rifiuto. Nelle interviste fatte sul campo da Maria Adriana Bernardotti suona più volte il ritornello “Non siamo razzisti, però…”. Però questi abbassano il nostro potere contrattuale e, seppur inconsapevolmente, agiscono come quinta colonna della privatizzazione della sanità.
Ce n’è abbastanza per far dire ad Agostino Megale, presidente dell’Ires, che “siamo forse in presenza del primo caso in cui ci sono le condizioni oggettive per l’emergere di atteggiamenti potenzialmente ostili o di comportamenti di chiusura verso la minoranza straniera a difesa di privilegi della maggioranza”. Nelle corsie di ospedali e case di riposo si sfiorano “due mondi estranei”. Toccherebbe al sindacato metterli in comunicazione. Invece, resta “paralizzato”, condizionato “dal clima di diffidenza”.
Una fabbrica di schiavetti
Chiusura corporativa? Michele Piccoli, ex presidente del collegio Ipasvi di Torino, si è giocato la rielezione perché troppo poco corporativo. Eppure ritiene “inevitabile” una reazione corporativa “finché gli infermieri stranieri saranno comprati e venduti a pacchetti”. Pensa che gli italiani proteggano se stessi e, nello stesso tempo, i pazienti. “Che qualità può garantire chi non sa una parola d’italiano e al suo paese usa ancora la siringa con l’ago di ferro?”. Degli infermieri stranieri abbiamo bisogno. Su questo non ci piove. “Facciamoli venire in un modo degno e solidale, formiamoli alla professione e anche alla difesa dei loro diritti. Una volta rientrati nei loro paesi, sarebbero dei formidabili veicoli di democrazia. Invece, i paesi dell’Est noi li rapiniamo. In più, appaltiamo la nostra sanità a degli Al Capone che hanno scoperto l’America con l’intermediazione di manodopera. All’università di Torino il 10% degli iscritti al corso di scienze infermieristiche non ha la cittadinanza italiana. A spese dello Stato prepariamo schiavetti per Giovannone e simili. E’ pazzesco”. Abbattere il muro della cittadinanza, secondo il dottor Piccoli, è un obiettivo giusto ma, visti i tempi, non realistico. Lo si può aggirare imponendo alle Asl d’assumere gli infermieri stranieri con contratti di diritto privato a tempo determinato.
Ma il sindacato che dice?
Fatti due conti, è chiaro perché le Asl non aderiscano alla proposta. Un’ora di lavoro di un infermiere in ruolo costa all’Asl 40 euro. Un’ora “appaltata” a una cooperativa costa 28 euro (in tasca all’infermiera rumena ne finisco meno di 10). Le cifre sono queste, ammette Piccoli, “però un manager pubblico non può usare solo il pallottoliere. Il costo del lavoro incorpora la dignità. E’ intollerabile che un direttore sanitario, per più donna, dica che preferisce le rumene perché non mi restano incinte. Restano incinte, e poi sono costrette ad abortire”.
Qualche segnale fa sperare che il sindacato stia uscendo dalla “paralisi”. In Piemonte, il tragico caso di Abdel Rahim Belgaid ha indotto la Regione a sottoscrivere un protocollo d’intesa con i sindacati confederali. Si impegna a ricondurre nelle regole del contratto nazionale di categoria tutti i rapporti di lavoro “impropri” (scrivere “illegali” sarebbe stato ammettere che la Regione è corresponsabile di intermediazione di manodopera). “Spingeremo perché gli infermieri stranieri vengano assunti con contrattati a tempo determinato rinnovabili”, dice Rossano Gambino, della Cgil Funzione pubblica piemontese. A Brescia, su segnalazione dell’Ipasvi e con la fattiva collaborazione dell’Ufficio del lavoro, il sindacato è riuscito a far uscire dalla “schiavitù” una novantina di rumene ingaggiate dalla Mastercoop per conto di tre cliniche private: stesso contratto dei colleghi italiani, stessi incentivi e, soprattutto, documenti e titoli in mano alla lavoratrice o depositati all’Ipasvi (il sequestro dei documenti è l’arma di ricatto più potente in mano alle cooperative). A Reggio Emilia nella sanità pubblica gli infermieri stranieri sono pochi ed entrano solo attraverso le agenzie di somministrazione (ex interinali) che non regalano niente ma sono meno peggio delle cooperative.
Secondo Il Sole 24 Ore il mercato degli infermieri stranieri in Italia vale 300 milioni di euro l’anno. Il grosso se lo spartiscono con “Vita serena” le cooperative O.S.A e KCS Caregiver. Obiettivo lavoro, agenzia di Legacoop e Compagnia delle opere, ha collocato 300 infermieri reperiti all’estero. L’importarzione di infermieri e la controversa interpretazione di un articolo della legge Biagi ha accentuato il contenzioso tra le agenzie ex interinali e le cooperative. Queste ultime, pur prendendo formalmente in appalto “servizi infermieristici”, di fatto si limitano a fornire infermieri. Usano strutture e materiali non di loro proprietà e non corrono alcun rischio d’impresa. Di qui l’accusa non infondanta di concorrenza sleale da parte delle agenzie di somministrazione di personale. I loro ricorsi al Tar, finora, hanno visto prevalere le cooperative.
Le Molinette di Torino probabilmente è l’ospedale a più alta densità d’infermieri “non nati in Italia”. Al San Raffaele di Milano, casa madre dell’impero di don Verzé, sono il 10%: abbiamo bussato per saperne di più, ma non ci hanno aperto.